Eraclito e io

eraclito

Ammetto una cosa. Sono anni che volevo scrivere un racconto di fantasia su un immaginario incontro tra me e il maestro oscuro, Eraclito, della cui figura sono infatuato sin dalle superiori. Nonostante i miei propositi di studiarlo, analizzarlo, approfondirlo e scrivere qualcosa di davvero interessante, sono arrivato ad oggi senza farlo mai davvero. E alla fine, in una mezza giornata, ho scritto di getto questo surreale dialogo, in parte frammentato in parte incompleto dei tanti concetti che avrei voluto esprimere. Ma va bene così. L’importante è fare. Siamo tutti imperfetti e perfettibili e qualunque cosa facciamo sarà sempre soggetta a critica. Ed è con questa convinzione che mi son deciso a farlo. La critica è conflitto e il conflitto è vita, in divenire.

N.B. Le frasi in grassetto, pronunciate da Eraclito nell’immaginario incontro, sono quelle realmente ritrovate nei frammenti.

Buona lettura!

Qualche sera fa ho deciso di fare una passeggiata tra le campagne, per respirare un po’ di aria sana. Mentre giravo tra le fronde degli ulivi, immerso nei pensieri, in lontananza sentivo qualcuno che gemeva e si lamentava. Mi sono avvicinato per vedere chi fosse e se avesse bisogno di aiuto e chi ti trovo? Un tizio con una lunga barba grigia e capelli arruffati che s’inerpicavano lungo una fronte corrucciata e un viso dall’espressione infastidita, probabilmente dalla mia presenza.

Nell’avvicinarmi ulteriormente notavo che il tizio indossava una specie di tunica, ma fatta di juta e sotto, quasi sicuramente, non indossava altro. Era scalzo e aveva i piedi sporchi di terra.

Serve aiuto? Gli dissi mentre mi avvicinavo e facevo luce con la torcia del cellulare.

Tu che procedi nell’ombra, dimmi il tuo nome e fatti riconoscere oppure allontanati da me, cane!

Ou, sta calmo, mi chiamano il barbuto e stavo passeggiando qui in campagna quando ti ho notato e mi chiedevo se hai bisogno d’aiuto

Io mi chiamo Eraclito e mi chiamano lo skoteinòs, l’oscuro nella vostra lingua. Sono nato a Efeso poco prima della Sessantanovesima Olimpiade. Ora a quale Olimpiade stiamo?

Veramente ora è più complicato…staremmo alla cinquantacinquesima edizione, ma vanno distinti i giochi olimpici estivi da quelli invernali. La prossima sarà nel 2020 a Tokyo e sarà l’edizione numero trentadue

Tokyo? E cos’è?

Una città del Giappone

Ah – esclamò sembrando non capirci niente dei nomi che pronunciavo – E poi come fate a stare ad un’edizione delle olimpiadi precedente alla mia nascita?

Che ti devo dire…l’epoca post moderna ha sconvolto un po’ tutto…diciamo che molte cose sono cambiate nel mondo, soprattutto dopo le due guerre mondiali

Bene

Come bene?

Bisogna avere alla mente che il conflitto è comune ad ambo le parti e giustizia e contesa, e tutto accade seguendo la legge della contesa e della necessita

Quindi le guerre sono necessarie?

Certo! Se manca la contesa manca anche l’amore. Se non si conosce la guerra non si potrà conoscere la pace, come senza il male non si potrà conoscere il bene! Anche nel tuo corpo, ora che mi parli, così da quando sei nato, si genera un equilibrio grazie alla contesa. Senza la morte delle tue cellule tu non saresti mai vivo! E anche nella natura tutto avviene secondo contesa: dalla morte sopraggiunge la vita, come dal conflitto tra organismi nascono le piante che danno cibo agli uomini

Qui le piante le abbattono, altro che…

Perché la maggior parte degli uomini è stupida! Di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo lo stesso lógos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole ed in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo

Cosa hai detto?

Non per niente mi chiamano l’oscuro! Tu sei pronto a comprendere il Logos? Oppure sei come l’uomo che nella notte accende a se stesso una luce quando la sua vista è spenta? Così come hai fatto con quello strano marchingegno! però da vivo è a contatto con il morto, da sveglio è a contatto con il dormiente

A proposito di dormire, se vuoi ti accompagno a casa, così ti fai una doccia e ti riposi. Domattina magari, più riposati, continuiamo la conversazione

Doccia? E cos’è?

E’ acqua corrente

Ottimo! Adoro il divenire…Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo

Lo sentivo urlare allegramente sotto la doccia paaaantaaaa reeeeiiiii osssss potamoooooosss, quasi fosse contento che questa invenzione moderna confermasse le sue teorie sul divenire. Ma appena uscito mi si avvicinò e disse:

La morte per le anime è divenire acqua, la morte per l’acqua divenire terra, e dalla terra si genera l’acqua, e dall’acqua l’anima

Che vuol dire?

Che per le anime è diletto diventare umide! L’acqua è morte, mentre la vita è fuoco…il fuoco genera la vita e tende verso il cielo, mentre l’acqua s’infila in ogni anfratto e tende verso il basso. Lo vedi come sgorga in quel buco? – lo disse mostrandomi il piatto della doccia – e chissà dove s’infilerà e quanta umidità creerà lungo il suo passaggio – e questa volta lo disse con un sorrisino sulle labbra mentre guardava il salmastro sulle pareti – perché l’acqua distrugge e rende cretini, il fuoco purifica e rende saggi!

E con quest’amena riflessione ci demmo la buonanotte.

La mattina dopo, appena sveglio, mi si avvicinò mentre ero ancora rimbambito dal sonno e mi disse:

Il sole è nuovo ogni giorno

Come sempre…Gli risposi mentre mi stropicciavo gli occhi

La maggior parte degli uomini non intende tali cose, quanti, in esse s’imbattono, e neppur apprendendole le conoscono, pur se ad essi sembra

E fu così che riprendemmo il discorso lasciato la sera prima.

Cosa vuoi dire?

Se l’uomo non spera l’insperabile non lo troverà perché esso è introvabile ed inaccessibile

Quindi mi stai dicendo che tutto è possibile? Hegel disse qualcosa del genere, ma aggiunse che in realtà tutto è possibile e siccome è tale è inutile ragionarci sopra, è meglio ragionare sul reale e sul razionale, ossia sulla concretizzazione di ciò che nella storia ha un senso.

Interessante questo Hegel, chi è?

E’ un filosofo del Settecento. Ha anche elaborato la metodologia dialettica in cui ogni fase supera l’altra attraverso la conoscenza di sé, quella di fuori di sé e quella che poi si riduce a sé per sé, in estrema sintesi il metodo della tesi, antitesi e sintesi. Ma non ti so dire altro, l’ho studiato alle superiori

Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto: lo avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora, e cosi a Senofane e a Ecateo

Grazie per la consolante considerazione. Quindi il sapere è inutile?

Sì! La conoscenza autentica, quella vera, è una riduzione a sintesi, proprio come dice questo Hegel! Per chi ascolta non me, ma il lógos, sapienza è intuire che tutte le cose sono Uno, e l’Uno è tutte le cose

Da queste parti c’è un detto popolare che dice vale cchiui l’esperienza di la scienza

E’ giusto! Il vero saggio è colui che apprende, che conosce la storia e ne fa tesoro, senza l’ardire di sapere tutto, perché l’uomo più saggio davanti al dio sembrerà una scimmia, per saggezza, per avvenenza e per ogni altra cosa!

Quindi credi in Dio?

Non mi pongo il problema. Dio può esistere, come possono esistere anche più dei, che vivono intorno a noi, dentro di noi e fuori di noi

Quindi Dio è anche Natura?

Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi

A proposito di Natura…ti va di fare una passeggiata al mare?

Perché no, andiamo

Giunti sulla spiaggia, dopo una passeggiata in macchina che l’ha emozionato (sarà per via del divenire e del relativo concetto di velocità), si avvicinò sulla battigia e disse:

Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci essa è potabile e conserva loro la vita, per gli uomini essa è imbevibile e esiziale

Non ci avevo mai pensato, dissi mentre pensavo a quella volta che, da bambino, stavo quasi per affogare in mare mentre cercavo di imparare a nuotare da solo.

Quindi tutto è relativo e l’unica legge è quella morale, come disse Kant?

Chi è questo stupido di Kant? Gli uomini sono privi d’intendimento e, pur avendo prestato orecchio, assomigliano ai sordi

Insomma, sono stupido come Kant

Come la maggior parte degli uomini

Ci accomodammo in un lido aperto. Seduti al tavolo di un bar, mentre lui si distraeva a guardare le ragazze di passaggio, seminude e sensuali nelle calde giornate di fine maggio, con un codazzo di ragazzotti palestrati a seguito, esclamai:

Non è come ai tuoi tempi, eh? Mentre con il gomito lo picchiettavo e gli facevo l’occhiolino ammiccante

I vizi umani sono governati dall’acqua, mentre il Logos, attraverso il fuoco, distrugge e crea, per poi superare ogni momento di umana imperfezione e tendere alla razionalità assoluta

Quindi non hai in considerazione le passioni umane?

Sì, certo, ma preferisco l’intelletto e la ragione. Del resto i porci godono della melma più che dell’acqua pura

E che vuol dire?

Se la felicità fosse nei piaceri del corpo, diremmo felici i buoi, quando trovano veccie da mangiare

Ma sai…ogni tanto bisogna anche soddisfare i sensi…

Gli occhi e le orecchie sono cattivi testimoni per gli uomini che hanno anime barbare

Mentre per i saggi sono sufficienti?

Gli occhi sono più veritieri delle orecchie, ma la vera bellezza non è visibile agli occhi

Questa l’ho letta nel Piccolo Principe

Cosa?

Che l’Essenziale è invisibile agli occhi

Dice bene il Principe. Ma non puoi affidarti solo ai sensi, altrimenti in te domina l’acqua e la corruzione e non potrai mai comprendere il Logos

I sensi però sono necessari…

Ma non sufficienti! Tu puoi mai toccare l’aria o il cielo? Eppure esistono. Puoi vedere o odorare un’idea? Eppure è presente e condiziona i comportamenti di tantissima gente

Parli delle ideologie?

Sì, anche

Le ideologie pure ormai sono state distrutte. Oggi prevale il consumismo e l’individualismo, due concezioni che tendono all’opportunismo e al materialismo

bisogna seguire ciò che e comune: il Discorso è comune, ma i più vivono come avendo ciascuno una loro mente

a quanto capisco, tu hai criticato l’individualismo già ai tuoi tempi…

Sì, perché sono tutti individualisti quelli che non seguono il Logos, la legge della physis. Del resto chi vuole che la sua parola abbia senso, deve farsi forte di ciò che a tutti è comune e ha senso, come la città si fa forte della legge, e assai più che la città: le leggi umane traggono tutte nutrimento da un’unica legge che è la legge divina, e tanto può quanto vuole e a ogni cosa e bastante e a tutte sopravanza

Quindi mi stai dicendo che le leggi umane non coincidono con Dike? Con la giustizia?

Esatto. Il nomos è una mimesis, una imitazione, e quando è sorretta da hubris, diventa ingiusto

Qui da noi ci sono tanti uomini di potere che seguono hubris e non Dike

Perché sono stupidi! E presto cadranno. Ti racconto un fatto. Gli Efesii dovrebbero impiccarsi tutti, gli adulti, e lasciare la città ai fanciulli, perché essi cacciarono via Ermodoro, tra di loro il più utile alla città, e dissero: “Tra di noi non ci sia uno migliore. O se c’è, lo sia altrove e tra altri”

In pratica hanno cacciato Ermodoro perché era più bravo di loro e non sopportavano di essere mediocri al suo confronto?

Sì, e quindi, invece di prenderlo ad esempio e migliorarsi, hanno cacciato il migliore. Al governo della Polis ci vanno solo i mediocri, ma capaci di incantare le masse. E se c’è qualcuno migliore di loro che osa criticarli, lo imbavagliano

Insomma, mi stai parlando della censura…

La censura è l’arma dei mediocri! Quando vedi un politico che scappa da un confronto, sta scappando da Logos, perché lo detesta ed è incapace di affrontarlo. Quando invece vedi due o più uomini che discutono, anche con toni forti, ma confrontano le loro idee, stanno cercando Logos e lo troveranno. Perché dalla discussione nasce la sintesi, che supera le contraddizioni passate e crea i presupposti per un avvenire migliore

Insomma, stai citando Hegel e Marx

E ora chi è questo Marx?

E’ uno che, prendendo spunto da Hegel sui processi dialettici, ha teorizzato una società in cui tutti sono uguali e i mezzi di produzione sono in mano ai molti e non ai pochi e questi molti fanno l’interesse di tutti e non dei pochi. Tutto ciò, però, si basa sul conflitto tra le classi, dove – secondo un certo processo storico – la classe degli sfruttati prevarrà sugli sfruttatori e redistribuirà le ricchezze a tutti, che oggi sono in mano a pochi

E questa bella cosa è avvenuta?

No, perché è stato annientato il conflitto

Male! Congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno dall’uno tutte le cose

Tu credi in una società comunista?

Se si basa su un conflitto permanente, perché no

Sembra di sentire Trockij

Chi?

No, niente…uno che parlava di rivoluzione permanente

Interessante questo Trockij, aveva ragione! Solo con un perenne conflitto sociale si possono creare i presupposti per quella società comunista di cui parli. Ma se questo processo non è avvenuto ancora vuol dire che ogni essere che cammina al pascolo è condotto dalla frusta

In pratica siamo servi

Non solo, siete pure stupidi. Vi fate illudere dai fattucchieri che non vi raccontano la verità, ma la percezione di essa, giusto per avere consenso e fare quello che gli pare. Siete stupidi che si fanno infinocchiare dai bambini. Esattamente come Omero il quale fu il più sapiente tra tutti gli Elleni. Infatti dei bambini che uccidevano pidocchi lo trassero in inganno dicendogli: ciò che abbiamo visto e abbiamo preso lo lasciamo, ciò che non abbiamo visto né preso lo portiamo

E come se ne esce?

Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi

Insomma, lo dicevo, siamo schiavi!

Schiavi e stupidi. Ma il tuo Marx l’ha detto come si esce…

con la lotta di classe, già…

Esatto, il conflitto. E’ da lì che nasce tutto. Se non c’è conflitto non c’è vita, non ci sarà futuro per la vostra civiltà e mi sa che la vostra civiltà volge al termine

Nemmeno il tempo di rispondere che lo vidi alzarsi, recarsi verso il mare, entrare in acqua e, piano piano, perdersi in mezzo alle onde. Di sicuro non si bagnerà due volte nella stessa acqua.

E con questa riflessione andai alla cassa, pagai e me ne tornai fischiettando fischia il vento verso la macchina.

Versi vuoti

vino

Versi vuoti vuol essere un omaggio a mia madre, ma anche un’amara riflessione su quanto la vita di oggi, così edonistica e liquida, mi destabilizzi a tal punto da abbandonare ogni forma di resistenza, fino all’epilogo finale. Versi vuoti in bicchiere pieno di nettare avvelenato lenisce ferite spirituali e, al contempo, lento ammala un corpo … Leggi tutto

Notte d’autunno

autunno_foglie_che_cadono

E’ primavera ma questi versi li dedico alla mia stagione preferita, quella dell’autocritica, del ripensamento, del torpore, del riposo casalingo dopo la stagione delle uscite, delle foglie che cadono dopo il profluvio del verde, a ricordarci che tutto è caduco, che l’autunno genera riflessione. E siccome la primavera genera riposo, non ho voglia di dedicarle … Leggi tutto

Vino

vino

Un’umile poesia dedicata al nettare degli dei. mi rintano nel tuo mondo onirico e sognante. Sfuggo la realtà fatta di gemiti e sospiri. Mentre tu, amico fedele, lenisci le mie ferite e mi rendi ebbro, or che scrivo versi stolti, figli di un sogno infame. Ahi quanto vorrei condurre un’equa vita, abitudinaria e retta. La … Leggi tutto

Sono un uomo

Un misero e stonato, ma realistico, componimento sulla condizione dei migranti che faticano per quattro soldi, ma con profonda dignità, rischiando la vita tutti i giorni, come la cronaca, purtroppo, spesso ci racconta. Il componimento è liberamente ispirato a storie vere.

Vago nella notte illune, unto di sudori

e grumi di pomodori appiccicati sulla pelle

su questa bici sgonfia come i miei desideri

di lavoro, casa e dignità.

Torno dai miei fratelli, stipati in lerci giacigli

di quell’umida, vecchia, masseria

che i figli di questa terra hanno abbandonato

e di cui non sanno neanche la via.

Ma io la conosco bene

e torno su strade buie e accidentate

tra auto che corrono veloci

e occhi fissi su schermi luminosi.

Io di luminoso possiedo una torcia a pile

che fioca m’illumina il viso di una luce atroce.

“Ma levati di torno!”

Grida un tizio dall’auto che mi sorpassa

e quasi m’avvolge tra le sue lamiere.

Io pedalo, lungo la via, lento e stanco

e nel cuore lesta m’assale malinconia.

Ricordi da bambino, le mani di mia madre

che dolce m’accarezzava in viso

e vegliava sul mio futuro

sognando per me lavoro, casa e dignità.

Laureato e con un bagaglio ricolmo di sogni,

due soldi in tasca, per i primi bisogni,

m’accolse il caldo agosto di terra pugliese

e il freddo sguardo del mio duro padrone.

Ora pedalo e sogno soltanto

lo scomodo giaciglio lercio

e sonno e riposo tra mosche e zanzare,

tra mille puzze di mille fatiche.

D’un tratto m’accascio.

Copioso esce il sangue dalle mie vene

il mio corpo geme, si duole e tormenta

mentre la mente, sveglia, s’accorge di loro.

“non ci ha visti nessuno, scappiamo!”.

Le auto scorrono veloci e sbadate

quasi urtando le mie membra sfregiate.

Poi quel caldo abbraccio

d’una sconosciuta passante

rammenta ricordi di madre

di quando m’accarezzava e diceva

“stai tranquillo”

e poi la voce concitata

“correte, veloci, un uomo è a terra!”.

e la corsa all’ospedale,

steso su quella barella

nel fragore di sirena tonante

la parola riecheggia come un suono

non m’ha chiamato migrante

m’ha chiamato uomo.

Che fine ha fatto la cultura popolare?

cultura popolare

Breve excursus sulle varie fasi che hanno portato allo studio e all’emersione della cultura popolare e di come oggi sia una mera teca da museo senza più appigli con la realtà che dovrebbe produrla.

Il folklore, inteso come rappresentazione culturale delle tradizioni popolari (cioè gli usi, i costumi, le musiche, la cucina, le tecniche, i saperi, i racconti, le fiabe, ecc.), è stato oggetto di interesse da parte del movimento romanticista, a partire dal 1700, per poi fiorire nel 1800. E’ in questo periodo che nasce, in un certo senso, l’antropologia come studio delle culture popolari.

Il Volksgeist, lo Spirito del popolo era, nell’intenzione dei Romantici, l’elevazione della volontà della Nazione quale legge fondamentale del suo sviluppo sociale, contrapposto al giusnaturalismo, che vedeva come fondamento la legge naturale. Lo Spirito, ossia l’individuo universale, concetto largamente usato da Hegel, corrispondeva, nell’idea dei Romantici, all’Individuo-Popolo o all’Individuo-Nazione che trovava le sue radici nella cultura popolare, la quale venne utilizzata sia per differenziarsi da altri Individui-Nazione sia per accentuare le proprie peculiarità. E’ vero che buone parti del pensiero dei Romantici furono utilizzate per giustificare i nazionalismi e per dare una connotazione filosofico-culturale al regime nazista, ma è anche vero che questa filosofia diede il via all’analisi antropologica, che avrebbe, nel tempo, cambiato per sempre il concetto di Cultura.

La cultura popolare in Italia nell’Ottocento e primi del Novecento

In Italia il primo a porre l’attenzione sulle culture popolari fu Niccolò Tommaseo che, nel suo incontro con la poetessa pastora Beatrice di Pian degli Ontani, nel 1832 scrisse:

Feci venire di Pian degli Ontani una Beatrice, moglie d’un pastore, donna di circa trent’anni che non sa leggere e che improvvisa ottave con facilità, senza sgarar verso quasi mai: con un volger d’occhi ispirato, quale non l’aveva di certo madama De Sade […] Donna sempre mirabile; meno però, quando si pensa che il verseggiare è quasi istinto ne’ tagliatori e ne’ carbonai di que’ monti“.

Quel quasi istinto lasciò germogliare l’idea, tra numerosi intellettuali, che i contadini, i pastori, gli strati più umili della popolazione, avessero spontaneamente e forse inconsapevolmente l’istinto alla poesia, ai versi. Un istinto millenario, capace di produrre versi, musiche, canti, tecniche e saperi che furono oggetto di indagine, ma in chiave positivista, ossia, detta in altri termini, in chiave estetico-letteraria secondo un approccio assolutistico: c’è una cultura superiore, frutto dell’evoluzione degli studi e una cultura inferiore, frutto dell’ignoranza e di disgregate conoscenze delle cose. In quest’ottica il folklore venne sì studiato, ma come espressione pittoresca del popolo delle campagne. E’ con quest’ottica che, per tutto fine Ottocento e fino alla prima metà del Novecento, il folklore veniva catalogato tra le belle cose d’Italia, ma senza mai rientrare degnamente nel concetto di cultura (o di culture, per usare un’espressione del relativismo antropologico).

Gramsci e De Martino

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci

Ma fu proprio un Intellettuale, Antonio Gramsci, che, nelle sue Osservazioni sul Folklore (Quaderni dal Carcere), individuò un nuovo approccio alla cultura popolare: non più un popolo indistinto che produce aspetti pittoreschi e folklorici, frutto dell’arretratezza e dell’ignoranza (com’era nell’approccio positivista), ma l’espressione alternativa di una cultura frutto di classi oppresse dalla cultura dominante. Gramsci, quindi, inserisce la produzione culturale popolare in un contesto sociale, la storicizza e la rende un’alternativa alla cultura dominante.

Il suo approccio sarà poi adottato da studiosi come Ernesto De Martino e Gianni Bosio, che condurranno le loro ricerche consapevoli che l’emersione della produzione culturale popolare favorirà una presa di coscienza delle classi subalterne in chiave anti-borghese.

Senza l’apporto di Intellettuali come Gramsci, De Martino, Bosio e tanti altri, le culture popolari non avrebbero avuto quella dignità tale da essere poi considerate, nei decenni successivi, alla stregua di un Patrimonio intangibile degno di tutela istituzionale (nel bene e nel male), tant’è che le varie Convenzioni UNESCO, sin dal 1989, sono state volte a dare salvaguardia e valorizzazione al folklore, nei suoi aspetti materiali e immateriali. Il loro apporto è stato, quindi, fondamentale, non tanto e non solo nello spostare l’indagine sulle culture popolari da un terreno estetico a uno sociologico-antropologico, ma anche nel capovolgere l’azione dell’Intellettuale, il quale non si pone come docente, dall’alto del suo sapere, ma come allievo nei confronti dei portatori di saperi folklorici.

Tuttavia questi intellettuali, che hanno avuto il pregio di dare rilievo al folklore, hanno vissuto in un’epoca in cui il dualismo cultura egemonica / cultura subalterna si sostanziava in modo netto: da un lato c’era, quindi, il popolo sottomesso e dall’altro lato la borghesia; da un lato la Civiltà contadina, dall’altro la civiltà cittadina. Insomma, netta era la distanza tra i due poli.

Gli anni Sessanta e Settanta

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, però, qualcosa è cambiato. Le emigrazioni di massa, l’industrializzazione, l’emersione della società dei consumi, la diffusione di mezzi di comunicazione di massa come la TV e, in generale, un nuovo modello sociale, basato sul benessere e sull’urbanizzazione, hanno contribuito alla scomparsa della Civiltà contadina e delle sue produzioni immateriali: storie, saperi, musiche e canti vennero travolti da modelli culturali più appetibili e diffusi. Del resto la cultura popolare veniva vista come un’espressione di un cattivo passato da dimenticare, fatto di miseria e fame, mentre la nuova cultura egemonica predicava benessere ed era incompatibile con il vivere povero delle campagne, ormai svuotate a favore del più remunerativo lavoro nelle industrie nascenti.

E’ in questo periodo che molti intellettuali hanno ripreso gli studi di Gramsci e De Martino sul folklore non più e non solo in chiave anti-borghese, ma anche in chiave anti-capitalista, anti-egemonica e, successivamente, anti-globalista e localista, dove il dualismo egemonia/subalternità non rappresenta più la lotta di classe tra chi vive in mondi diversi e in contrapposizione, ma una frammentazione sociale inserita nel contesto dell’interclassismo.

Se è vero che il povero, ormai privo del suo terreno di riferimento, sogna di essere ricco e sogna, come modello del benessere, la Seicento, la casa al mare e uno stipendio sicuro, il suo volersi elevare a borghese (o piccolo-borghese) è l’esempio di una stratificazione sociale frammentata e fittamente segmentata, dove non vi è più una (potenziale e possibile) lotta di classe, ma una lotta a senso unico, volta all’illusorio raggiungimento del sogno del benessere. In questo quadro mutano i c.d. folkways, ossia le abitudini dell’individuo e i costumi della società che sorgono da sforzi intesi a soddisfare i bisogni (William Sunmer, Costumi di gruppo, 1906), non sono più nettamente trasmessi dal gruppo di riferimento, ma si confondono con quei bisogni, indotti o spontanei, propri della civiltà cittadina attraverso le influenze della società dei consumi.

Insomma, la cultura popolare inurbata e rimodellata nei ceti operai di periferia, nell’incontro-scontro tra operai e piccola borghesia, nel mescolamento tra vecchi modelli e nuovi bisogni, produce, tra gli intellettuali di sinistra degli anni Settanta, un nuovo approccio, che è quello dell’analisi demologica non più di matrice gramsciana, ma volta a studiare le culture subalterne e suburbane. Quel poco che resta della Civiltà contadina è oggetto di incessanti studi e ricerche, che oggi rappresentano l’architrave della conoscenza che possiamo avere di ciò che in quel periodo restava ancora autentico. Dico autentico non perché nelle culture popolari possa essere ammesso un termine del genere, ma perché oggi quelle ricerche etnografiche vengono cristallizzate nel concetto di tradizione e fatte passare per espressione di identità culturale, quando altro non sono che un aspetto mutevole di una realtà che di lì a poco sarebbe totalmente scomparsa.

L’opera degli Intellettuali di quel periodo fu quindi di ri-scoperta e ri-proposta contro la massificazione industriale, la produzione egemonica musicale, insomma, il consumismo, l’omologazione e l’industrializzazione che, nel corso degli anni, avrebbe profondamente mutato le matrici culturali e, di conseguenza, le espressioni stesse.

L’intellettuale che più ha messo l’accento sulla disgregazione della cultura popolare ad opera della società dei consumi fu Pier Paolo Pasolini, il quale s’interrogava su come la cultura popolare potesse rimodellarsi all’interno di una struttura sociale ormai profondamente mutata.

Accanto a lui, Alberto Mario Cirese (Cultura egemonica e culture subalterne, 1973) gettò le basi per una riflessione sul rapporto tra egemonia e subalternità non più in chiave gramsciana ma secondo un’indagine che tenesse conto anche della reciproca influenza tra la cultura egemonica e quelle subalterne nonché della circolarità del rapporto tra esse, nell’ottica per cui il folklore si pone come un’espressione di cultura alternativa e implicitamente contestativa che però si rimodella ogniqualvolta i suoi portatori si trovano a cavallo tra l’egemonia e una subalternità che però non è cementificata, ma è inserita in un corpo estraneo ad essa e rimodellabile continuamente.

Del resto è storia recente che la cultura popolare è diventata sempre più appannaggio della massa e di quegli intellettuali piccolo-borghesi inurbati che trovano in essa uno sfogo nei confronti della nevrosi prodotta da modelli omologanti di matrice globale. Ma non solo! E’ anche un pretesto per riaffermare presunte identità locali che, però, non avevano alcun senso nella Civiltà contadina. Il concetto di identità è stato introdotto, anzi, nella riemersione della cultura popolare, come riaffermazione di presunti valori territoriali contrapposti al modello global.

Gli anni Ottanta e Novanta

Difatti gli anni Ottanta e Novanta hanno rappresentato, per la cultura popolare, un periodo sì di rivitalizzazione (frutto anche della conseguente attenzione globale nei confronti delle diversità culturali, come l’es. dell’UNESCO), ma anche di profondo mutamento. Se da un lato si moltiplicavano le attenzioni rivolte alle espressioni culturali e rinasceva l’interesse nei confronti delle loro rappresentazioni (cucina tipica, musiche e canti, in particolare), soprattutto in chiave di promozione del territorio nei confronti del sempre crescente fenomeno turistico, dall’altro si sentiva sempre più pressante l’intrusione del mercato del folklore di matrice, appunto, egemonica. E l’appropriazione del concetto di Patrimonio Culturale da parte delle Istituzioni (si pensi alla creazione di apposite Fondazioni per la sua promozione) unito alla sempre maggiore attività del mercato degli eventi ha di fatto consegnato la cultura popolare, nello specifico musiche e canti, nelle mani della cultura egemonica, la quale, chiaramente, ha tutto l’interesse a spezzettare e sminuzzare le espressioni folkloriche selezionandone gli aspetti più appetibili sul mercato degli eventi e trascurando, di fatto, quelli meno vendibili. Quest’operazione, squisitamente egemonica e omologante, da un lato ha privato di ogni valore la cultura nella sua complessità e dall’altro ha sottratto ai suoi portatori il diritto di usarla e ricontestualizzarla.

Ma, ad ogni modo, ormai questo diritto non c’è più proprio perché non c’è più quel sub-strato culturale che produce espressioni culturali sue proprie. Insomma, ciò di cui si è appropriata la cultura egemonica non è tanto la cultura popolare in sé (quella si è liquefatta e si mescola e confonde nell’interclassismo) quanto l’oggetto dell’indagine etno-demografica di quarant’anni fa, in altre parole un oggetto museale, però immateriale.

Oggi che succede?

Raymond Geuss
Raymond Geuss

Raymond Geuss, classe 1946 e professore emerito all’Università di Cambridge, scrive “la filosofia è morta: i segni vitali prodotti una quarantina di anni fa, l’eccitazione, la creatività, l’inventiva sono sostituite, ormai, da tediose recite e rievocazioni storiche” (qui trovi l’articolo originale). Mi permetto di citarlo perché, in fondo, è essenzialmente ciò che è accaduto alla cultura popolare.

E’ morta sotto la scure della società dei consumi, che ha fatto delle espressioni culturali popolari vive una merce da dare ad uso e consumo di stakeholders, turisti e massa indistinta e indiscriminata che non si riconosce né produce espressioni culturali nuove in quanto non le appartengono.

In altre parole, come ben dice Geuss, la creatività e l’inventiva sono sostituite da rievocazioni storiche, dall’ossessiva ripetizione della tradizione, che però non è rivitalizzata, ricontestualizzata e utilizzata in chiave anti-egemonica, ma ridotta a mera spettacolarizzazione, a ricordo quasi bucolico di un passato che non c’è più e che si ripropone come teca da museo.

In questo quadro la ricerca demologica si è interrotta ed è incapace di scandagliare le rappresentazioni dei sub-strati culturali ormai liquefatti e confusi tra ceti marginali e ceti borghesi. Non c’è più un anti- da proporre (anti-sistema, anti-capitalismo, anti-borghesia, anti-globalizzazione, ecc.) perché la critica che ha sempre sorretto la cultura popolare è scomparsa e il nemico da combattere oggi è talmente invisibile da non esistere.

Insomma, oggi il folklore è più simile a quello guardato con gli occhi del Positivismo ma in chiave moderna, ossia spettacolarizzazione estetico-letteraria di espressioni d’identità locale, mentre però i suoi portatori non esprimono una cultura, ma un ricordo, tenuto vivo solo dal mercato. E’ per questo che ormai da molti anni quei pochi portatori sani, ancora vivi, della Civiltà contadina, hanno abbandonato il campo della ri-proposta, in quanto non gli appartiene più, mentre sul campo sono rimasti quelli che non esprimono più alcunché, se non ciò che il mercato (o la moda del momento) gli impone di esprimere. Una sorta di servilismo che, però, soggiace alla legge del ribasso. Ne ho parlato, in riferimento alla musica, in quest’articolo.

Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale diceva Hegel, a voler significare che Ragione e reale sono la stessa cosa. Questo la cultura popolare, nell’illetteralità dei suoi portatori, l’aveva intuito, come Gramsci aveva intuito che da questa filosofia spontanea potessero trarsi le basi per riaffermare la dignità delle classi popolari, mentre oggi il Razionale s’identifica con altro, che la demologia ancora non ha saputo (o voluto) individuare e gli Intellettuali si tengono ben lontani dal comprenderlo, mentre il reale è solo uno stantio ricordo del passato, che si manifesta nell’inconsapevole servilismo di chi, quella cultura popolare, pretende di esternarla senza sapere che, in realtà, sta solo perpetrando le istanze del potere egemonico.

 

9 maggio 1993

antonio verri
Quando sei grande, ma dalla storia destinato ad essere un piccolo, che vive in una provincia piccola, alla periferia delle periferie, lontano dal mondo che conta e umile tra gli umili intellettuali (perché gli intellettuali, quelli veri, sono umili), sei destinato a morire due volte: la prima è la morte corporea, quella a cui tutti siamo destinati. La seconda è la morte della memoria, quella a cui gli intellettuali – per loro natura – non dovrebbero essere destinati, ma lo sono, per quelle ragioni che – per chi mi conosce – conosce perfettamente.
Ma si muore una terza volta, quando un intellettuale ha la sfiga di morire il 9 maggio, giorno in cui son morti due personaggi illustri: Aldo Moro e Peppino Impastato, il primo fu il più grande statista della DC, ucciso dai suoi stessi compagni di partito, il secondo, invece, fu ucciso dalla mafia (ossia quella che fece gli accordi con quello stesso stato che fece uccidere Moro. Curioso, no?). In un anniversario così triste e illustre allo stesso momento, il nostro intellettuale muore una terza volta.
Muore soffocato da quelle commemorazioni stantie che tentano di ricordare i due personaggi sopra citati tra canzoni e citazioni tratte dai film, muore nell’indifferenza di chi, ormai, non ricorda nemmeno Pasolini, figurati se può ricordare un umile visionario di provincia, per giunta morto in un semplice incidente stradale, muore come morirebbe chiunque, nella vita, non ha lasciato traccia del proprio cammino, muore schiacciato da quella provincia opprimente, che produce esteti e piccolo-borghesi, che mentre – noncuranti – gettano un mozzicone di sigaretta acceso nella sterpaglia sotto il sole d’agosto, professano amore eterno verso il territorio in cui sono nati.
Un intellettuale di provincia muore così.
Antonio Verri è morto così.
antonio_verri
Chiudo con le sue parole, tratte da Il pane sotto la neve.
Provincia è innanzitutto la risultante di numerosissimi e diversissimi elementi, più o meno scoperti, che in essa e da essa prendono forma; provincia è quel paese strano e disperato, attraversato da altrettanto strane, disperate e meravigliose energie. Provincia è anche l’oggetto di una violenza, di uno sfruttamento intellettuale perpetrato da chi ha interesse che sia così e solamente così: violenza e sfruttamento sulla cultura locale, che è mortificata e degradata da una sempre continua concentrazione di potere culturale. Tutto questo, ed anche qualcosa di più, è la provincia. Per noi salentini vi è una mortificazione in più: la rarefazione della nostra espressione, della nostra cultura, delle nostre idee. La nostra provincia è diversa. Siamo tutti ricercatori, esteti e letterati fin dalla nascita. Siamo tutti forensi ed ognuno di noi ha avuto almeno uno zio, un parente fra i componenti le Storie Patrie o le Patrie Lettere. Possibile che noi intellettuali, noi politici, noi economisti non riusciamo a vedere quel che ogni giorno di più diventa macroscopico, sempre più visibile?
Perché continuiamo a proporre, a dar mano a teorie che ci lasciano e lasciano tutti nel vago? Tutti siamo tutti.
D’accordo. Ma per arrivare dove? È molto facile di questi tempi dirci meridionalisti. Però molti tra di noi sono falsi meridionalisti. Il primo verbo della meridionalità dovrebbe essere l’umiltà, quello della salentinità (permettetemi il termine) dovrebbe essere solo questo: rimbocchiamoci le maniche… Abbiamo davanti una brutta gatta da pelare: la nostra provincia. La nostra provincia con tutte le sue cose sane ed autentiche (credetemi, ne sono rimaste) ma anche col suo corpus discontinuo, complesso. Il nostro compito è identificare, è essere chiari. Tutti noi, per dirla con Tommaso Fiore, abbiamo una responsabilità storica precisa: non tradire e operare…

Il Mercato degli Eventi e l’egemonia sul Folklore

Antonio Gramsci egemonia e folklore

Il Folklore (o cultura popolare) rappresenta il sapere, stratificato in migliaia di anni e trasmesso oralmente dalle classi subalterne ed è l’unico strumento che il Popolo ha per difendersi dall’egemonia culturale delle classi dominanti. E’ un Patrimonio ricco di musiche e canti, detti e racconti, saperi e tecniche, fiabe e leggende che rappresenta l’architrave del Patrimonio immateriale dell’Italia de le molte genti. E’ talmente importante e delicato che personaggi come Antonio Gramsci, Ernesto de Martino, Alberto Mario Cirese, Gianni Bosio, Rina Durante e tanti altri hanno dedicato una vita per ridargli dignità e studiarlo con metodologie scientifiche in modo da comprenderne l’importanza nella costruzione di una cultura europea e nella consapevolezza del rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, nella negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture e nel rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Lo sforzo compiuto da questi intellettuali è stato immane, perché per secoli – e in parte ancora oggi – la cultura popolare è stata vista come un aspetto pittoresco proveniente da una sub-cultura povera, frutto di concezioni parziali e incolte del mondo e retrograda perché espressa da strati sociali privi di istruzione. Gramsci invece capovolge completamente questa concezione e rinviene, nella cultura popolare, il leit-motiv per riattribuire al Popolo quella dignità perduta, per ridare importanza a quella filosofia spontanea che, come scrive lo stesso Gramsci, si rinviene nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; nel senso comune e buon senso; nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folklore”.

Antonio Gramsci fu quindi il primo intellettuale a occuparsi del folklore in modo scientifico e a trattare la Cultura popolare come un elemento critico e alternativo alla cultura dominante, non in chiave conservativa, come mera teca da museo, ma in chiave progressista, come elemento essenziale per la comprensione del Popolo e per la sua rappresentatività socio-culturale, infatti nelle sue osservazioni sul folklore, scriveva che quest’ultimo non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. In altre parole Gramsci studiò la Cultura popolare, tra cui i canti, le musiche, la poesia vernacolare, il linguaggio e tutti gli altri aspetti che compongono il folklore e lo riannesse all’interno della Società, spostandolo da un terreno estetico-letterario a uno socio-culturale, oppure etno-antropologico, quindi contestualizzando la Cultura popolare in chiave storicistica e sociale. La sua operazione di attribuzione della dignità alla cultura popolare fu innovativa e aprì numerosi scenari alla scienza antropologica negli anni a venire.

Insomma, il folklore è importante perché rappresenta una diversa concezione del Mondo, spontanea e lontana da quella cultura egemonica che viene imposta e che il popolo non sente come propria, ma subisce l’inculturazione attraverso l’istruzione scolastica (il ché sarebbe il male minore), i media, le mode e l’appiattimento culturale globale studiato a tavolino al fine di attuare politiche commerciali di massa.

Il folklore ha appunto, secondo Gramsci, questa funzione di contrapposizione: grazie ad esso gli «strati inferiori» della piramide sociale si rendono parzialmente in grado di resistere alle influenze delle filosofie «superiori» e di formularne una critica «rozza». Attraverso il folklore si esprime ciò che potremmo chiamare una pre-coscienza o una coscienza «diffusa» degli elementi incolti della società, costituita da strati sovrapposti formatisi nel corso della storia e dalla giustapposizione di elementi di attualità (ogni strato è una resistenza che viene opposta alle diverse filosofie che si sono succedute nel corso dello sviluppo storico). Di qui, la fisionomia spuria, arcaica e incoerente con cui il folklore si presenta e con la quale gli studiosi si scontrano.

Del resto anche Carlo Levi e Ignazio Silone scrissero che la storia ufficiale, quella cultura dominante che impone ai contadini e ai cafoni regole incomprensibili e lontane da quelle regole della Natura e della Storia tipiche della Cultura popolare, sono storie altrui, che nulla c’entrano con la millenaria storia di popoli vissuti da sempre – e per sempre – seguendo regole cicliche e naturali, rispettando le leggi di una tradizione persa nel tempo e ragionevole e comprensibile, perché immutabile e naturale. Come si può comprendere ciò che non si conosce, ciò che rispetta regole opposte? I cafoni osservano da tempo regole che i cittadini non sentono proprie, perché lontani dallo scorrere regolare delle stagioni, dagli asti dovuti al naturale susseguirsi degli eventi, così come i cittadini osservano leggi positive, che comprendono perché ragionevoli in base a ciò che i sovrani – o gli stati, le dittature o le democrazie rappresentative – impongono e diffondono. Sono due culture inconciliabili, ma non per questo una è superiore all’altra.

L’UNESCO e la tutela del Patrimonio Culturale Immateriale

UNESCO_logo

Gramsci non ha vissuto l’epoca della globalizzazione, ma il suo pensiero è ancora attuale e si adatta anche alla concezione del local inteso come contrapposizione al modello globalista ed espressione viva delle identità locali, quindi, in ultima analisi, quale espressione culturale subalterna al pensiero dominante, a quel pensiero che appiattisce le diversità e impone le uguaglianze. La stessa operazione – appunto per salvaguardare le diversità – è stata fatta, per decenni, dall’UNESCO, che, sin dal 1989, con la Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura e del folklore, ha espresso preoccupazione per la progressiva scomparsa del Patrimonio Culturale immateriale – cioè il folklore, e ha chiesto agli Stati firmatari di porre in essere tutte le misure idonee e necessarie al fine di salvaguardare le espressioni culturali folkloriche perché fanno parte del patrimonio universale dell’umanità e che sono un potente mezzo di riavvicinamento dei diversi popoli e gruppi sociali e di affermazione della loro identità culturale.

Poi, a partire dal 1997 l’UNESCO è andato sviluppando una particolare attenzione per il patrimonio culturale immateriale (Intangible Cultural Heritage), per il quale ha costituito, all’interno della Divisione del patrimonio culturale, una sezione appositamente dedicata (Section of Intangible Heritage). A partire dal 1998 l’UNESCO ha intrapreso una serie di azioni concrete in questo settore con il progetto Preserving and revitalizing our Intangible Heritage, articolato in diverse azioni: Masteripieces of Oral and Intangible Heritage of Humanity riguarda i patrimoni orali e immateriali dell’umanità meritevoli di riconoscimento; Living Human Treasures promuove i depositari di saperi e tecniche trasmesse oralmente (artigiani, artisti, etc.); Endangered Languages pone l’attenzione sulle lingue a rischio di estinzione; Traditional Music of the World pubblica i dischi dedicati alle culture musicali mondiali.

Nel novembre 2001, inoltre, l’UNESCO ha adottato la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, affermando che la diversità culturale è essenziale per l’umanità come lo è la biodiversità per la natura. Anche in questo caso, l’UNESCO ha ribadito la necessità di approntare gli strumenti più adeguati, da parte degli Stati aderenti, per la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale, sia materiale che orale, nonché il rispetto e la protezione dei saperi tradizionali.
Nel 2003, poi, l’UNESCO ha emanato la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale in cui ha consacrato la necessità di salvaguardare le espressioni culturali immateriali popolari in modo più maturo e preciso, definendo patrimonio culturale immateriale “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana (…)”.

E’ evidente, da questa sommaria analisi, l’importanza che assume il Patrimonio Culturale immateriale del folklore per lo sviluppo delle Culture mondiali (il plurale è d’obbligo) e per il naturale svolgersi delle formazioni sociali in cui le personalità individuali si dipanano e trasmettono alle generazioni future quel know-how ricco di storia stratificata e di conoscenze naturali ma sempre a un passo dall’estinzione, schiacciato com’è dalla cultura egemonica, mondialista e globalista, cultura foraggiata e sostenuta dai media e dal mercato globale.

Gli anni d’oro del folklore

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Rina Durante, intellettuale salentina, ricercatrice e fondatrice di uno dei pochi gruppi oggi rappresentativi della concezione folklorica di gramsciana memoria: il Canzoniere Grecanico Salentino (attivo dal 1975)

E’ evidente che in un secolo di attività etno-antropologica la cultura popolare è riemersa e gli è stata attribuita quella giusta dignità come elemento non solo di memoria del passato, ma anche di espressione viva del presente in antitesi alla cultura dominante e piatta tipica del modello global.

Sin dagli anni Cinquanta, mentre si sviluppava la Questione Meridionale, numerosi antropologi, etnomusicologi ed intellettuali ponevano le basi per la creazione di una coscienza popolare attraverso il riaffiorare di musiche e canti, in chiave anti-sistema o, per meglio dirla, in chiave pro-diversità. Erano gli anni in cui, attraverso la musica, si creava una coscienza di classe, una coscienza popolare, un modo come un altro per attribuire al Popolo quella dignità perduta e nascosta sotto le ceneri di una cultura dominante che beffeggiava gli ignoranti, i cafoni, i contadini, quella fetta di popolo priva di cultura accademica ma ricca di cultura del vivere. In quegli anni si cercò di rimettere in vita quella filosofia spontanea di gramsciana memoria. E ci riuscirono. Difatti per tutti gli anni Sessanta e Settanta intellettuali come Gianni Bosio, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Diego Carpitella ripresero i canti popolari italiani e gli attribuirono quella dose di culturalità che avevano smarrito negli anni precedenti.

Il canto

Cantori_di_Carpino
I Cantori di Carpino

Il canto rappresenta la più alta forma di espressione culturale immateriale. E’ il modo più veloce e compiuto di diffondere concetti, storie, notizie, una coscienza collettiva e un fare comunità che nessun’altra forma immateriale può esprimere.

Se torniamo a Gramsci, possiamo capire esattamente cos’è il canto popolare. A scanso di equivoci, soprattutto per coloro che ritengono che popolare (o folk) è solo il canto creato dal popolo per il popolo o quello che si completa solo nelle musiche locali, va invece detto che il canto popolare è quello in cui il popolo stesso si riconosce, al di là della lingua utilizzata (dialetto o lingua nazionale) o della melodia (non importa se locale o classica o, ancora, priva di accompagnamento musicale). Secondo Gramsci, seguendo una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri, troviamo questi canti:

  • i canti composti dal popolo e per il popolo;
  • quelli composti per il popolo ma non dal popolo;
  • quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.

“Mi pare che tutti i canti popolari, aggiunge Gramsci, si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione”.

Grazie alle chiarificazioni concettuali espresse da Gramsci e allo sviluppo della scienza antropologica, numerosi intellettuali iniziarono una raccolta metodologica di tutti i canti popolari, indipendentemente dal valore artistico-musicale, che poi, negli anni, diffusero nel mondo musicale italiano. Erano gli anni d’oro perché cantautori come Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giovanna Marini, Caterina Bueno e tanti altri aderirono a tale concezione e costruirono un’intellighenzia basata sulla diffusione del canto popolare e sullo studio metodologico delle musiche, tonalità, tecniche corali, ossia un’impressionante mole di diversità musicali che persino personaggi come Tito Schipa, già prima di loro, vollero approfondire perché i canoni musicali popolari erano lontanissimi da quelli canonici e ufficiali. Nei decenni a venire – e siamo già negli anni Ottanta e Novanta – la musica popolare si strutturò nel Meridione, precipuamente nel Salento, dove trovò terreno fertile grazie a intellettuali come Rina Durante che, sin dagli anni Settanta, s’impegnò nella riemersione del canto popolare. Quelli erano anche anni in cui – in tutta Italia – iniziava l’interesse, da parte del mercato culturale, verso gli eventi folk. Non a caso nel 1986 nacque il festival di musica popolare di Forlimpopoli, nel 1991 l’Isola Folk di Bergamo e nel 1998 la Notte della Taranta.

La Notte della Taranta nel 1998. Che differenza c’è rispetto a quella attuale?

Fino alla fine degli anni Novanta il folk revival (così fu definito da numerosi intellettuali) si sviluppò al punto tale da stuzzicare l’interesse di numerosi antropologi e studiosi di tutto il Mondo che – attratti dall’imponente rinascita del folklore locale – iniziarono una fiorente letteratura sul tema, tanto che, fino ai primi anni Duemila, si scrisse tanto e si discusse tanto sui motivi per cui – soprattutto nel Meridione – la musica popolare riscosse tanto successo non solo tra gli operatori del settore, ma anche nel grande pubblico. I motivi erano al contempo complessi e banali: la riscoperta delle origini, del Patrimonio sepolto, dei saperi antichi andavano di pari passo con la prepotente espansione del modello globalista, quasi in una sorta di antitesi e resistenza popolare al dilagare di una cultura che il popolo non sentiva propria e che, indagando nella propria storia, si riconosceva in ciò che il territorio, per secoli, ha trasmesso e ha lasciato in eredità: storie, tecniche, saperi, racconti, proverbi, cucina, ma soprattutto musiche e canti.

Il modello globalista ed egemonico del mercato degli eventi e del turismo di massa

Nell’ultimo decennio, però, qualcosa è cambiato. Il mercato degli eventi ha incontrato la musica popolare e, sotto gli occhi distratti degli appassionati e dei riscopritori, ha iniziato un lento ma inesorabile processo di disgregazione del Patrimonio culturale immateriale. Ad accorgersi di ciò, com’è prevedibile, sono stati gli intellettuali che, sin da subito, hanno lanciato allarmi circa l’importanza di procedere alla tutela del Patrimonio immateriale per evitare che possa estinguersi sotto i colpi del crescente turismo di massa e del sempre più pressante mercato degli eventi.

In effetti ciò che, fino a pochi anni prima, veniva definito turismo etnico o culturale, fatto di gente che si recava nei luoghi vivi della tradizione al fine di assistere a manifestazioni pulsanti di musiche e canti popolari, in pochi anni si è tramutato in turismo di massa, fatto di gente a cui non interessa affatto l’aspetto culturale, ma solo il divertimento quotidiano e feroce e che – per passione, moda o diletto – pretendeva di assistere quotidianamente a manifestazioni musicali divertenti e ballerecce. Le comunità locali, da un lato impreparate all’invasione e dall’altro poco propense a strutturare l’offerta turistica perché frammentate e storicamente tendenti ad approfittare del momento in ottica epicurea e poco lungimirante, si divisero tra chi (pochi) non accettava la svendita del Patrimonio Culturale e chi (i più), invece, propendeva per facili guadagni con pochi investimenti. Del resto il mercato globale degli eventi è ben capace di raggirare chi non ha il giusto humus culturale per potervi resistere.

E infatti negli anni si sono moltiplicati gruppi di riproposta, corsi improvvisati di musiche e balli popolari in tutta Italia, ballerini, nonché sagre e festival, spesso nati dal nulla e spacciati come tradizionali, tutto al fine di accontentare il mercato turistico di massa. La presenza di numerosissimi musicanti e insegnanti di musiche e balli (spesso improvvisati e senza formazione culturale) ha chiaramente aumentato la curva dell’offerta con conseguente riduzione del valore, portando quindi ad una forte concorrenza basata su bassi compensi e alta presenza di musiche e canti ballabili.

Le conseguenze sono state numerose, tra cui:

  • la progressiva inumazione dei canti tipicamente popolari, ossia di quei canti che il popolo riconosce nella propria concezione del mondo e dell’attualità, quindi scomparsa di canti di denuncia, di storie e racconti attuali, di canti di lavoro, di protesta, di canti volti a diffondere una coscienza sociale. Non è un caso – faccio una breve digressione, poi ne parlerò più diffusamente avanti – che spettacoli come la Notte della Taranta non diano voce alle pressanti richieste del territorio di denunciare gli scempi ambientali e di raccontare la realtà attuale;
  • l’aumento eccessivo di ballatori (non ballerini) e musicanti (non musicisti) che, basandosi non sulla memoria, ma su arrangiamenti che funzionano e che vendono, propongono cover ormai prive di senso di canti e musiche ballabili, fatte da altri gruppi di riproposta, come una fotocopia di una fotocopia di una fotocopia dell’originale (sempre se si possa parlare di originalità nella cultura popolare);
  • l’aumento eccessivo di ritrovi e feste popolari, secondo lo schema imitativo di grandi eventi che funzionano e che attraggono gente, quindi sagre o feste inventate di sana pianta che spesso si accavallano a quelle tradizionali (quelle che, ricordo, secondo l’UNESCO devono essere tutelate) e che ne disgregano la funzione e il contenuto;
  • la concezione per cui la musica popolare non è un bene comune, ma un elemento commerciale come qualsiasi altro, da sfruttare. In base a tale concezione si verificano, poi, casi come quello per cui diversi musicanti e ballatori snobbano le feste tradizionali, vive (che necessitano di tutte le energie possibili per restare tali) per suonare in contesti avulsi, sotto spinte commerciali.
  • l’evidente aumento di suonatori spontanei (causati da corsi di musicanti improvvisati) che, in eventi orizzontali (cioè senza palchi), ossia l’anima pulsante delle musiche popolari, ne rovinano l’esecuzione impoverendone gli stili e le tecniche.

Tale fenomeno ha schiacciato in qualche modo le poche feste e i pochi ritrovi rimasti vivi, tanto da suscitare l’indignazione e l’accorato appello alla tutela dei ritrovi musicali tradizionali.

Così scrive Roberta Tucci, in Come salvaguardare il patrimonio immateriale? Il caso della scherma di Torrepaduli: “A Montemarano i suonatori della tarantella non permettono a chiunque di unirsi a suonare con loro durante il carnevale: se mai, concedono tale “onore” solo a persone scelte da loro stessi, con le quali hanno da tempo costruito un rapporto personale e di cui si fidano sul piano musicale. Del resto, a chi verrebbe in mente di inserirsi, con il proprio strumento musicale o con la propria voce o con il proprio corpo, in un contesto culturale “ufficiale”, quale può essere un concerto (di un’orchestra, di una banda, di un gruppo rock), o uno spettacolo di danza e di teatro? Perché, invece, gli spazi della cultura “popolare” possono venire tranquillamente occupati, senza neanche chiedere il permesso?” 

Il caso del Salento ha quindi allarmato gli operatori del settore in quanto la crescente attenzione turistica non solo ha rovinato la tradizione viva, congelandola e impedendone la naturale evoluzione, ma ha creato modelli intimamente globalisti imitati anche da altri territori, con conseguente depauperamento delle espressioni folkloriche locali. E’ il caso di alcune zone della Sicilia, dove – per imitare festival come la Notte della Taranta – si oscura il ricco patrimonio musicale locale.

Caso emblematico: il folklore e La Notte della Taranta

Notte della Taranta e folklore

Quando il Festival della Notte della Taranta compì i primi passi volti a diffondere la musica popolare salentina nell’incontro con musiche altre, si progettò – accanto al festival – la creazione dell’Istituto Diego Carpitella, il quale aveva il compito di raccogliere, tutelare e valorizzare il complesso Patrimonio folklorico locale. Inutile dire che ha funzionato solo negli anni d’oro (pochi, a cavallo tra la fine del Novanta e i primi del Duemila). Anche con l’istituzione della Fondazione Notte della Taranta, le finalità di salvaguardia furono ribadite solo a parole, ma ad oggi non si conoscono le finalità culturali della Fondazione se si escludono pochi studi fatti in collaborazione con alcune Università, non sull’aspetto culturale ma sull’aspetto economico del Festival (è sufficiente dare un’occhiata al sito web, dove di cultura non v’è menzione), tant’è che, dopo numerose richieste sempre inascoltate, l’antropologo Eugenio Imbriani lasciò la Fondazione.

Ad ogni modo il merito della NdT è stato quello di diffondere globalmente la musica popolare salentina (per lo più quella ballabile, trascurando il resto), ma ha contribuito – in apparenza paradossalmente – all’appiattimento culturale del Patrimonio folklorico, incanalando le espressioni musicali folkloriche nel mercato globale degli eventi. In altre parole, tutti gli sforzi compiuti in un secolo di scienza antropologica volta a riattribuire al popolo la propria musica, in chiave antisistema e identitaria, sono stati sconfessati da grandi festival (la NdT in primis) che invece hanno, a piè pari, consegnato alla cultura egemonica le diversità musicali, impoverendole e congelandole in teche da museo, anzi, in disco-teche.

L’importanza che assumono i gruppi di riproposta nella salvaguardia, valorizzazione e promozione del Patrimonio del folklore locale

La colpa (se di colpe si può parlare) però, non è solo della NdT, la quale deve necessariamente rispondere a logiche commerciali e fare numeri, per potersi inserire nel mercato globale degli eventi; la colpa è anche degli operatori del settore, ossia di gruppi di riproposta, appassionati e intellettuali che – oggi – non sono in grado di riannodare i fili col passato e riprendere, con coraggio e consapevolezza, il ricco patrimonio culturale, facendolo proprio ed evolvendolo. A parte poche eccezioni, molti operatori del settore diventano così inconsapevoli schiavi del sistema degli eventi, quindi schiavi della cultura egemonica e, per pochi soldi, acconsentono a svendere il proprio patrimonio musicale.

Sia chiaro, non è un problema di cachet. Ogni musicista può scegliere di farsi pagare come vuole, è un problema di paternità. La cultura popolare è la cultura del Popolo, è la conoscenza trasmessa dai nostri avi e che bisogna custodire e tramandare, non appartiene a chi la suona. Chi la suona ne è custode e non proprietario. Ed è per questo motivo che i primi responsabili dell’affossamento delle culture popolari e della consegna del popolo alla cultura dominante e globalista sono gli stessi che suonano inconsapevolmente sui palchi, per quattro spicci, tradendo così la propria storia.

Parafrasando R. Tucci, bene fanno coloro i quali sono gelosi custodi del proprio Patrimonio, bene fa quella popolazione che impedisce a chiunque di inserirsi in contesti musicali, se privo di consapevolezza o se sconosciuto, per rovinarne l’esecuzione e soprattutto bene fa quella popolazione che acconsente di suonare sui palchi la musica popolare se non col contagocce, se non dopo un percorso di presa di coscienza dell’importanza di tali musiche. Il punto, attenzione, non è se sia bene o meno suonare sui palchi (anche se la musica popolare è in antitesi con tale concezione), ma come lo si fa, con quale spirito e con quale livello di conoscenza, ma soprattutto con quale intenzione di raccontare, spiegare e diffondere il significato di tali musiche e canti.

Le questioni sociali e la musica popolare

Quello che Gramsci ha messo maggiormente in evidenza nei suoi studi sul folklore è la funzione del racconto popolare, soprattutto attraverso il canto. Nel canto si raccontano storie e si trasmette, criticamente, la propria concezione del mondo, in modo da partecipare attivamente alla storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità. Dunque la funzione del canto è di trasmettere storie, informazioni e creare una coscienza popolare.

A ben vedere, tutti i canti popolari hanno avuto, in passato, questa funzione che Gramsci ha lucidamente riconosciuto e ha fatto riemergere al fine di costituire una cultura sub-alterna contrapposta a quella dominante. Ma negli ultimi anni pochissimi sono stati gli esempi di musicisti (o meri appassionati) che hanno riscritto la musica popolare e adattata ai tempi attuali. Il caso del Salento – ancora una volta – è emblematico di questa dicotomia tra memoria stantia e adattamento concettuale di musiche e canti popolari. Molti – forti dell’esempio della NdT – hanno concentrato la propria attenzione sul rinnovamento degli arrangiamenti, in modo da adattare la musica del folklore locale ad altri stili musicali, quasi in una sorta di complesso di inferiorità per cui la musica popolare, di per sé, alla lunga può stancare. E infatti stanca a tal punto che è sopravvissuta – evolvendosi – per migliaia di anni.

Altri artisti hanno invece, con fatica, adattato l’impianto musicale tradizionale ad esigenze nuove, in forma di denuncia, riscatto, racconto di storie attuali, ma gli viene impedito, in grandi eventi, di professare le proprie idee. E infatti non si può sottacere che – ormai da diversi anni – manifestazioni come la Notte della Taranta, accanto a molti organizzatori di eventi, osteggiano quei gruppi sociali che vorrebbero ottenere voce da eventi mediatici così importanti per porre all’attenzione del grande pubblico tematiche sociali attuali e scottanti, quali lo scempio ambientale, denunciando opere impattanti sul territorio quali il gasdotto TAP, l’avvelenamento delle falde acquifere, la presenza di petrolchimici, acciaierie e centrali elettriche che deturpano l’ambiente e danneggiano la salute pubblica e tante altre tematiche che – secondo una legge naturale e storicistica – sarebbero proprie delle culture popolari e che ne rappresentano l’intima essenza.

Se Gramsci fosse vivo oggi direbbe che il folklore è regredito di nuovo a mera spettacolarizzazione pittoresca di fantasmi del passato ormai morti e privi di senso, che la cultura dominante ha sotterrato la cultura popolare, piantando il proprio vessillo sulle ceneri fumanti di memorie ormai stantie e prive del loro significato più vivo e che la tradizione, così com’è ora, è solo mero servilismo a logiche egemoniche, nell’illusione per cui la tradizione è l’espressione di un’identità locale ma dominata da un’unica cultura globale.

Forse Gramsci non userebbe parole così banali, ma il concetto resta: la tradizione e le espressioni musicali del folklore attuale non rappresentano più alcuna concezione del ruolo del popolo nella storia e nell’attualità. Il popolo, oggi, si è asservito alla cultura egemonica e chi canta sui palchi nemmeno se n’è accorto.

Emigrante

emigrante

Una poesia sull’emigrazione. Da Sud a Nord. Perché si è sempre più meridionali di qualcuno.

Emigrante

Valigia di cartone

e sguardo ramingo

tu poni le tue speranze

in terre nuove,

ricche di sogni

e di lavoro,

in americhe ostili

o fredda Europa.

Come quel nero africano

che, da Sud

sbarca su meridionali,

italici, lidi

alla ricerca di futuro

e dignità

tu volgi a Nord

la tua fiduciosa vista

e guardi con disprezzo

chi

più meridionale di te

solca sabbia

dalla tua giovinezza

calpestata

che tu, indifferente e grave,

lasciasti all’avverso destino.

Il Nord sognato e mai visto

ti si palesò ostile

tra strade ignote

e ignari soccorsi.

E mentre sguardi glaciali

e biondi capelli

ti schivano, schifati

tu, schiavo tra i servi,

in anni dominio,

di servitù vessato

al tuo loco tornato

tessi affrettati

e ingiusti giudizi

su chi, come te,

lasciò domestici lidi

per avventurarsi

in terre ostili

vagheggiando di lavoro

e dignità.

Fragile

Nastro Fragile

Flusso di coscienza, parole che escono così, senza un senso apparente. Fragile, come quel nastro che avvolge i pacchi di cartone, destinati a persone che – forse – non troveranno altro che cocci. Fragile, come quel nastro che nessuno legge, ma è lì, a dirci di fare attenzione. Però, sai, nessuno lo legge quel nastro.

Fragile

come quel nastro adesivo

che avvolge l’ondulato cartone

contenente fragili adorni

dai corrieri trascurato

ormai privo

del suo significato.

Ho scritto “fragile”

sulla mia vita

ma nessuno se ne cura

e, noncurante, tra tanti pacchi

nei camion della vita

io viaggio.

Sballonzolo su per le strade

allibite e crepate

mentre il mio contenuto

pian piano s’affligge

e si crepa

rompendosi talvolta

e chi mi aprirà

troverà cocci

di una vita passata

di un viaggio malconcio

e chiederà rimborsi

per non aver goduto

del mio essere in viaggio,

del mio fragile, avverso destino.