L’Italia dei Patrimoni e il turismo Low cost

turismo

L’Italia, si sa, è il Paese dei mille Patrimoni: arte e artigianato, Natura, paesaggi incontaminati, luoghi storici, tradizioni musicali ed enogastronomiche, borghi medievali, chiese, cripte, palazzi e tanto altro sono l’architrave del Patrimonio storico-culturale di tutta Italia. Come si dice spesso, l’Italia potrebbe vivere esclusivamente di turismo, di arte e di produzione e commercio di prodotti enogastronomici, ma questi comparti stentano a decollare, per tanti (e ovvi) motivi.

Il Patrimonio culturale trascurato

Perché nella classifica del turismo internazionale troviamo al primo posto la Spagna, seguita da Francia, Germania, USA, Regno Unito, Svizzera (persino!), Australia e poi, al decimo posto, l’Italia? (fonte: World Economic Forum (2015), The Travel & Tourism Competitiveness. Report 2015. Growth through Shocks, Geneva). Perché la Francia o la Spagna, che hanno 1/10 del nostro Patrimonio Culturale, sono le prime mete turistiche mondiali? La risposta è semplice, perché questi Paesi investono in media il 2,2% del PIL in cultura, beni e attività culturali, mentre l’Italia, con il suo 1,1% di investimenti, è all’ultimo posto tra i 27 Paesi europei. Ci supera pure la Slovenia con il suo 2,5%.

Ma non è solo un problema di investimenti in cultura. Il problema è che l’Italia non investe nemmeno in infrastrutture, servizi e tutela dell’Ambiente che favoriscono la presenza turistica nel Paese. Difatti secondo le stime del Country Brand Index 2014-2015 (FutureBrand) l’Italia, in termini di global reputation, si colloca al 18° posto in riferimento alla percezione internazionale di viaggio in termini di accoglienza, ospitalità, mobilità, ecc.

Dunque il Paese con il maggior numero di Beni Culturali al Mondo (ne abbiamo l’85%) viene superato in termini di presenze turistiche e di appeal internazionale da Paesi con Patrimoni Culturali minori in termini numerici e qualitativi.

Del resto, se leggiamo la storia politica d’Italia, l’unico momento in cui il nostro Patrimonio Culturale è stato preso in considerazione e sottoposto a tutela risale al 1974, grazie a Giovanni Spadolini, che ha voluto fortemente l’istituzione del Ministero dei Beni Culturali. All’epoca il Ministero era competente anche in materia di Ambiente, poi nel 1984 divenne Ministero per i Beni e le attività culturali per poi divenire, nel 2013, Ministero dei Beni, delle attività culturali e del turismo. Da allora ad oggi solo Spadolini e pochi altri Ministri (durati, purtroppo, pochi anni) hanno preso sul serio il compito del Ministero. Se pensiamo che dal 1998 ad oggi i Ministri sono stati Veltroni, Melandri, Urbani, Buttiglione, Rutelli, Bondi (!), Galan (!) e oggi Franceschini, non ci possiamo stupire del fatto che i Beni culturali crollano, vengono venduti e non ci sono investimenti seri in materia di cultura, tutela e valorizzazione dei Beni culturali.

I più attenti tra voi avranno notato che ho omesso di citare due nomi di Ministri: Lorenzo Ornaghi (ministro solo nel 2013 col Governo Monti) e Massimo Bray (ministro dal 2013 al 2015 col Governo Letta). Negli ultimi anni sono stati gli unici Ministri che, seppur in un lasso di tempo limitatissimo, hanno approntato piani e risorse per la tutela e la valorizzazione dei Beni Culturali e per il potenziamento del sistema turismo in Italia. A Ornaghi si deve un piano strategico di sviluppo del turismo (gennaio 2013) ben congegnato e ben strutturato, poi soppresso e sostituito dal Piano strategico di sviluppo del turismo 2017-2022 elaborato dal Dicastero di Franceschini, che sembra più un libro dei sogni scritto da ragazzini trendy che un piano vero e proprio, elaborato con un linguaggio più che discutibile e metodologie che sembrano uscire da un social network, incapace, dunque, di rappresentare un piano di sviluppo credibile, partendo da dati certi, criticità, analisi e soluzioni. Potete leggere il piano qui.

Il Piano strategico di sviluppo del turismo e le forme di turismo che l’Italia può attrarre

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Un piano di sviluppo del turismo non può solo incentrarsi sul marketing territoriale e su fumose forme di partecipazione aperta tra soggetti pubblici e privati (che spesso nascono e muoiono nel giro di pochi mesi), ma deve passare necessariamente attraverso la salvaguardia dei Beni Culturali (necessariamente gestiti in forma pubblica e non privata) e dell’Ambiente. Un Ministro che nel piano strategico parla di generica “tutela dell’Ambiente” ma poi acconsente alla realizzazione di opere, in tutta Italia, che impattano negativamente con l’Ambiente, non può essere credibile, e quindi i suoi piani fatti di belle parole e dichiarazioni d’intenti, si sciolgono come neve al sole. Ancora, un Ministro che apre alla privatizzazione e alla sponsorizzazione per i Beni Culturali è una persona che non ha capito che la Cultura non può essere mercificata, ma deve essere a tutti gli effetti pubblica. Inoltre, un piano che mette al centro la partecipazione, ma pone come obiettivo quello di riportare la materia “turismo” nella competenza statale, modificando il Titolo V della Costituzione, dimostra ancora una volta l’incapacità di dialogo tra Enti centrali e periferici e, se avviene ciò, figuarsi come si può improntare la collaborazione tra lo Stato e le piccole attività produttive, tanto decantate all’interno del Piano.

Ora, se manca una seria analisi e un piano strategico credibile, volto a salvaguardare il Patrimonio Culturale, l’Ambiente e il Paesaggio nonché volto a incentivare e mettere in rete gli operatori del settore turistico, nonché gli altri attori che ruotano intorno (aziende dell’agroalimentare, artigianato, associazionismo, ecc.) è chiaro che non ci sarà mai alcuno sviluppo. Inoltre un Ministero che è incapace di leggere la realtà e di approntare misure adeguate volte a tutelare l’Ambiente dall’invasione del turismo di massa (che porta pochi soldi e tanti danni), allora è evidente che non è ancora chiaro, ai vertici, quale forma di turismo l’Italia è chiamata ad attrarre.

Insomma, detta in altre parole, se non ci sono direttive chiare e univoche, imposte dall’alto e si lascia fare agli operatori del settore, il cui scopo è ovviamente quello di attuare profitti, è ovvio che in questo quadro “liberal” le uniche forme di turismo che gli operatori attraggono sono il turismo di massa e il turismo balneare, ovviamente nazionale o, al più, proveniente dai paesi europei più vicini (Francia e Germania in primis). E’ tutta una questione di “forza attrattiva”. Gli operatori del settore balneare e dell’industria del divertimento hanno più mezzi e più risorse per attrarre la massa, per lo più giovanile, alla ricerca di momenti di divertimento e di sballo. Il settore museale o gli operatori dei Beni culturali, siano essi pubblici o privati, di converso, non avendo risorse, non saranno in grado di approntare misure atte ad attrarre il turismo culturale, l’unica forma di turismo capace di spendere e di rispettare il genius loci.

Tra le funzioni del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo c’è anche quella di ridurre le disparità economiche e di mezzi tra gli operatori turistici e garantire lo sviluppo di forme turistiche adeguate al delicato eco-sistema ambientale e culturale italiano, cioè forme di turismo capaci di apprezzare e scoprire il ricco Patrimonio Culturale e, ovviamente, capaci di generare ricchezza diffusa. Ma è proprio questa la funzione che fino ad oggi non ha avuto, lasciando gli operatori in balia delle acque.

Ma ci sono molte altre forme di turismo che generano ricchezza nel rispetto dei territori: il turismo etnico, il turismo enogastronomico, il turismo religioso, il turismo termale, il turismo sportivo, ecc. Ora, se non ci sono politiche univoche capaci di strutturare queste forme di turismo, permettendo offerte turistiche integrate, sistemi di mobilità pubblica e infrastrutture capaci di accogliere il turismo (parchi pubblici, porticcioli, aeroporti, stazioni termali, o, più semplicemente, mezzi di trasporto regionali e interregionali), ogni azione promessa resterà solo un bel sogno su carta.

Il turismo low cost danneggia l’immagine dell’Italia nel Mondo

turismo trash gallipoli
Il Samsara beach a Gallipoli. Forse tra quello con la maglia bianca e la tizia con gli occhiali c’è un centimetro quadrato per ballare.

Ogni estate è la stessa storia. Orde di turisti low cost invadono le coste di tutta Italia, generando confusione, degrado e spesso problemi di ordine pubblico. Accade ogni anno a Gallipoli, per esempio. I tour operator, i gestori dei lidi, di bar, ristoranti e persino di B&B sono contenti e si sfregano le mani. Tutti gli altri no, incluso il Sindaco di Alassio, che pochi giorni fa ha rilanciato il problema davanti all’opinione pubblica, chiedendo persino l’accesso alle spiagge libere a numero chiuso. Davanti a un quadro così desolante, con orde di turisti che non portano ricchezza, ma degrado, che immagine riesce a trasmettere l’Italia nel Mondo?

Lasciar fare al mercato (cosa che finora ha fatto il Ministero) significa incentivare il turismo di massa, l’unica forma di turismo che interessa agli imprenditori del settore balneare e del divertimento, perché ciò che conta nel mercato sono i numeri e non la tutela e la valorizzazione del delicato Patrimonio Culturale materiale e immateriale. Per fare un esempio, la Notte della Taranta, che si svolge ogni anno nel Salento, non ha come primario obiettivo quello di salvaguardare la memoria storico-coreutico-musicale del Patrimonio culturale locale, ma quello di fare numeri e di portare quanta più gente possibile. Non importa che poi si perda la memoria, importa sfruttare un elemento di moda (la musica popolare salentina) per portare gente. Ciò avviene un po’ dappertutto e il fatto che il turismo di massa crea disagi e non genera ricchezza (anzi, contribuisce al consumo delle risorse pubbliche e all’eccessiva produzione di immondizia, onere che ricade sulle comunità locali) non sembra rappresentare un problema, visto che nel Piano di sviluppo del turismo non c’è traccia di questa tematica.

I trasporti, il vero problema

treno

Poniamo che sono un turista americano e che ho una settimana di vacanze che voglio trascorrere in Italia. In una settimana voglio vedere le cinque città principali (Roma, Firenze, Venezia, Milano, Napoli, Palermo). Arrivo a Milano, poi prendo un treno per Venezia, da lì mi sposto verso Roma e poi a Napoli. A parte il fatto che in ogni città avrò pagato diverse tasse di soggiorno (chiaro segnale che su questa tematica non c’è una linea guida centrale) e spesso nemmeno riesco a saperlo in tempo (giusto per farmi un’idea di quanto spenderò), il problema principale sarà quando scoprirò che per arrivare a Palermo col treno metterò più tempo che per arrivare a Madrid. Quindi desisterò dal visitare la città. Se poi ho la malsana idea di voler visitare le cittadine vicine, scoprirò che non ci sono treni, forse qualche autobus, ma d’estate non si sa che orari facciano. E quindi, per esempio, avrò perso l’occasione di vedere la Ciociaria oppure Salerno o Benevento o la costiera amalfitana.

Lo stesso problema avviene per spostarsi dalle città del Centro-Nord verso il resto del Sud Italia. Il drastico taglio delle tratte ferroviarie a discapito delle città del Sud ha ostacolato lo sviluppo turistico in queste zone, per non parlare dell’emblematico caso di Matera, che – nonostante la sua nomina a Capitale Europea della Cultura 2019 – soffre ancora un isolamento geografico senza paragoni. E, stando all’attuale programmazione regionale e comunale, non sembra che ci siano risorse adeguate per risolvere il problema dei trasporti pubblici verso una meta internazionale così importante. Il Ministero dei Beni Culturali e del Turismo non potrebbe approntare misure adeguate unitamente al Ministero dei Trasporti? E’ così difficile? Oppure è più facile stendere un Piano strategico che non verrà mai attuato e che resterà solo su carta? Questo ci dimostra quanto gli attuali governi siano più propensi a gettare fumo negli occhi che a risolvere fattivamente i problemi.

Dunque, stando così le cose, credo che per molti anni vivremo il dramma del turismo low cost e che il turismo internazionale tenderà maggiormente a scegliere altre mete più “facili” in termini di servizi e di accoglienza, con buona pace degli operatori balneari e delle discoteche, gli unici che si sfregano le mani nel sentire le dichiarazioni d’intenti del Ministro Franceschini e, forse, dei suoi successori (se continua così, il prossimo Ministro sarà Rovazzi…).

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Il Salento delle rievocazioni storte

articolo rievocazione tarantismo galatina 2017

Oggi, 29 giugno, la CNN e la trasmissione “La vita in diretta” erano a Galatina a documentare “la rievocazione storica dell’antico rito del tarantismo”. Tra scorrettezze lessicali e concettuali e impoverimenti culturali, ecco cos’è rimasto della storia, del mito e dei riti di uno dei fenomeni popolari più affascinanti e studiati da numerosi intellettuali, fin dal 1500.

Anzitutto, cos’è il tarantismo?

Il Tarantismo è un fenomeno legato alla figura del ragno; uomini o donne (in prevalenza), durante il lavoro nei campi o in altri momenti della giornata, se morsi da un ragno (lycosa o latrodectus), cadevano in uno stato di prostrazione fisica e psichica. Non esistevano cure mediche. L’unica cura erano i suoni e i canti (e altri rimedi, poi scomparsi nei secoli: acqua, drappi colorati, funi, ecc.), a volte quelli incessanti della pizzica-pizzica, altre volte quelli più neniosi (in questo caso si parlava di “taranta muta”). Dopo giorni di cure con suoni o canti la tarantata “espelleva il veleno” e guariva, salvo essere “rimorsa” l’anno successivo. A volte il rimorso continuava per anni, a volte per tutta la vita. Quello del ragno è – secondo Ernesto De Martino – un elemento simbolico e il “morso” può essere visto come un “male sociale” che ha radici profonde. Il tarantismo è stato conosciuto nel Salento, ma era diffuso anche in molte altre zone del Sud Italia, in Sardegna e persino in Spagna.

Che è successo?

Dagli anni ’80 il Salento – come altre zone del Mondo – ha vissuto un periodo di riscoperta delle tradizioni locali, grazie alle spinte anti-globalizzazione, alla consapevolezza della valorizzazione delle peculiarità locali e alla ri-scoperta del proprio Patrimonio culturale immateriale. Questi fenomeni di ri-scoperta hanno un ampio respiro, tanto che l’UNESCO, sin dal 1987, ha attuato forme di protezione e promozione delle peculiarità locali (Si V. UNESCO, Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura e del folklore, 1989; UNESCO, Dichiarazione universale sulla diversità culturale, 2001; UNESCO, Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, 2003; UNESCO, Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, 2005).
Peccato che poi la ri-scoperta ha incontrato il marketing e il mercato del turismo del divertimento. E’ lungo e complesso spiegare la profonda trasformazione del folk-revival e dell’etnoturismo come complessi fenomeni di scoperta delle tipicità locali passati, in pochi anni, a industria del divertimento. Vi basti sapere che il Salento ha dapprima ri-espresso le proprie tipicità e poi, dopo, sedotto dal mercato (globale) del divertimento, ha svenduto la propria identità, nel giro di un decennio.

Il tarantismo ridotto a spettacolarizzazione

E così qualche anno fa non era difficile imbattersi in gruppetti di musica popolare salentina, appena formati, che riproponevano in chiave divertentistica, il complesso fenomeno del tarantismo, ormai ridotto a mera spettacolarizzazione, solo facendo ballare, sul palco o in mezzo alla gente, una ragazzetta giovane, scosciata e perizomata, in preda a pseudo-convulsioni che si faceva passare per “tarantata”. Insomma, un fenomeno complesso e indecifrabile come quello del tarantismo, ricco di riti e miti, fino a qualche anno fa veniva rappresentato come uno pseudo fenomeno da burlesque sexy e soft-porno.
Poi però questi gruppetti hanno smesso di “rappresentare” il tarantismo da palco, anche perché le critiche erano tante e le capacità di rappresentazione erano limitate.
Poi è arrivata la “rievocazione”.

Galatina e il rito del ricordo

Va fatta una premessa. Intorno al 1700 la Chiesa cattolica ha cercato di inculturare il fenomeno del tarantismo nei meandri del cattolicesimo. Si trattava pur sempre di un fenomeno dai tratti pagani e quindi non poteva non passare inosservato. E così, pensa e ripensa, si introdusse la figura di San Paolo come “guaritore delle tarantate”. San Paolo era il protettore dei morsicati dai serpenti (per via di un morso di serpente velenoso che lo coinvolse durante una delle sue predicazioni e che non gli procurò alcun danno) e quindi ci volle poco prima di estendere la sua protezione alle “morsicate dalle tarante”. Quest’operazione studiata a tavolino dalla Chiesa creò confusione tra le tarantate, che vedevano San Paolo ora come guaritore, ora come causa del morso. Però, tutto sommato, il popolo digerì l’intromissione e ritrovò un equilibrio anche grazie ai pellegrinaggi presso la cappella di San Paolo a Galatina, luogo di ritrovo delle tarantate.

Lo stesso De Martino rilevò che l’inculturazione da parte della Chiesa cattolica contribuì a regredire il fenomeno e a renderlo “confuso”, tanto che ne presagì la scomparsa. Era il 1959 ed ebbe ragione. Da lì a poco il fenomeno e tutti i riti curativi sarebbero scomparsi. Poi è arrivato il folk-revival e la riscoperta del Patrimonio culturale immateriale. Dapprima si iniziò un faticoso percorso di rilettura del tarantismo e delle culture popolari locali, poi arrivò il mercato turistico e l’industria del divertimento e ora ciò che resta dello sterminato Patrimonio culturale immateriale è solo un vago ricordo.

E siamo ai giorni nostri

Ricordo che fino a 20 anni fa, quando ero un giovincello, il 28 giugno era una data importante. Ci si radunava davanti alla cappella di San Paolo a Galatina – luogo di ritrovo delle tarantate sin dal 1700 – per suonare e ricordare in qualche modo la sofferenza e il lungo rituale di guarigione. Infatti le tarantate si radunavano il 28 giugno, sin dalla notte per chiedere la grazia al Santo e il 29 mattina la cappella era sempre piena di donne che – tra isterie e furori – ora invocavano la grazia, ora cercavano sollievo tra le mura della cappella.
E’ giocoforza pensare che il “rito” di ritrovarsi dinanzi alla cappella fosse un modo per perpetrare il ricordo, per rispettare una tradizione, per rievocare un fenomeno complesso quanto affascinante quanto ricolmo di sofferenze e speranze. Insomma, si tratta pur sempre di ricordare e riannodare i fili con il passato.
Ora non è più così. Sono anni che osservo il lento e inesorabile disfacimento di una cultura e di una memoria ormai interrotta dai ludici e sornioni risuoni del divertimento, dello sballo, della moda di suonare i tamburelli (a ritmi volgari e tipici da discoteca) non come ricordo, ma come sberleffo, inconsapevole e irrispettoso verso una sofferenza – quella del tarantismo – che i ragazzi che suonano poco conoscono o non conoscono affatto. Il “rito” di suonare davanti alla cappella di San Paolo – per ricordare il tarantismo – si è tramutato da ricordo a sballo, da rievocazione a mera riproposizione di un disagio collettivo che ritrova nel tamburello lo sfogo sociale di frustrazioni sì simili a quelle delle tarantate, ma di cui non si conserva né il ricordo né la consapevolezza della propria memoria. E così – tra sballi e sberleffi – Santu Paulu viene ignorato mentre si protrae un rito senza nessun senso né alcun ricordo. E’ solo mera conservazione di un qualcosa che si deve fare – nello sballo – ma che non si sa bene perché.

La rievocazione

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E’ in questo quadro che poi, da qualche anno a questa parte, si protrae una simil-rievocazione del “rito del tarantismo” che non ha senso di esistere, se non davanti a inconsapevoli telecamere fameliche nel raccontare riti che ormai non ci sono più e di cui nessuno sa spiegarne il senso.
La CNN e la trasmissione “La vita in diretta” hanno raccontato l’evento di oggi, che si protrae da anni: “la rievocazione storica dell’antico rito del tarantismo”.
Che tristezza. Anzitutto nel termine.
Ciò che si dovrebbe “rievocare” non è l’antico rito del tarantismo, ma il rituale di guarigione dal tarantismo. Il tarantismo non è un rito, ma è un male. E’ il metodo di guarigione ad essere un rituale, non il male in sé. Quindi è già semantica l’ignoranza del fenomeno. La pochezza culturale sta già nel titolo. L’ignoranza sta già in poche parole che descrivono la vuotezza intellettuale e culturale di gente che si fregia – davanti alle telecamere – di saper protrarre una tradizione centenaria.
Poi assisto al giornalista di “La vita in diretta” che esclama: “l’unico a curare le tarantate è San Paolo”. Al ché rifletto sulla pochezza degli “intellettuali” salentini, perché quest’espressione dà il senso del vuoto culturale che gli organizzatori di questa pseudo-rievocazione hanno trasmesso ai giornalisti. Certo, non è facile riassumere la complessità del tarantismo, ma – che cazzo – non si può falsificare la storia, né il mito, né il rito.
Poi vabbè, alle prime scene della “rievocazione”, con una donna che si contrae in preda alle “convulsioni” (segno che la sua cultura sulla materia si sia limitata alla visione di un paio di video su YouTube) e la folla in mise televisiva, persa tra la rigidità da telecamera e le facce finto-stupite, cambio canale, e magari anche città. Il Patrimonio culturale immateriale è una cosa seria e voi povera gente siete capaci di spettacolizzarlo e trasformarlo in moda, senza avere la minima idea su come tutelarlo. Eppure sarebbe più proficuo leggere il passato e acquisire consapevolezza. Ma il mercato vi lusinga e per quattro denari svendete la cultura di un intero popolo.

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