Lo scontrino elettronico è una cagata pazzesca

scontrino elettronico

Questo articolo sullo scontrino elettronico segue l’articolo sulla fattura elettronica che, ovviamente, è una cagata pazzesca. Come tutti ben sappiamo, dal 1 luglio 2019 scatta l’obbligo di rilasciare lo scontrino elettronico, ma solo per chi ha un volume di affari superiore ai 400mila euro, mentre dal 1 gennaio 2020 l’obbligo verrà esteso a tutte le partite … Leggi tutto

Le illusioni dell’economia digitale

economia digitale

Quasi ogni giorno leggo di come l’economia stia cambiando e di come stia prevalendo il sistema economico basato sulla produzione di dati rispetto al vecchio modello basato sulla produzione di merci. Ogni giorno leggo che l’industria 4.0 si sviluppa sempre più e sempre più presto sofisticati macchinari, messi in rete e inteconnessi tra loro, sostituiranno il lavoro manuale, mentre il vero valore verrà prodotto dallo scambio e dalla trasformazione di dati.

I big data sono quindi il vero capitale diffuso nell’economia digitale, di cui ognuno di noi ne detiene una parte e che solo attraverso la loro raccolta, catalogazione, trasformazione, interpretazione, riduzione in sintesi, generano valore, un valore enorme. Già, perché il tuo indirizzo di casa, i tuoi gusti gastronomici, i film che ti piace guardare, i libri che ti piace leggere o la musica che ascolti, persino le conversazioni che fai sui social, vengono raccolti e ti viene creato un profilo che diventa un profilo comune ad altri quando gli stessi gusti coincidono, quindi vieni, appunto, profilato, interpretato e rivenduto agli inserzionisti o alle holding che detengono buona parte delle app che utilizzi.

Di questo ne sei più o meno consapevole e più o meno consapevolmente clicchi su accetto quando, prima di usare il servizio, ti vengono presentate le condizioni d’uso. Chiaramente tu hai bisogno di ordinare su Amazon o di prenotare la pizza su Just Eat, quindi accetti a occhi chiusi, tanto sai che oggi funziona così, che i tuoi dati li raccolgono, e sai anche che tutto ciò non ti crea pregiudizio, anzi, sai benissimo che queste soluzioni tecnologiche fanno bene alla società, perché facilitano la vita.

Ma per rendere facile quel servizio, qualcuno dietro ci deve lavorare: deve scrivere codici, produrre, impacchettare e consegnare la merce. Per rendere sempre più economico ma al contempo di qualità il servizio, l’azienda che lo offre deve pur risparmiare su qualcosa. Su cosa? Sui fornitori e sui lavoratori. E i fornitori, a loro volta, risparmieranno sui propri lavoratori. L’illusione della meccanizzazione e dell’efficienza si basa su un semplice concetto: sfruttare.

Per convincerti ancora di più e per distogliere l’attenzione sullo sfruttamento ti diranno che tutto ciò è un bene, che tu crei valore e fai crescere l’economia, che i lavori faticosi e umilianti presto verranno sostituiti dalle macchine, da sofisticatissimi robot che si occuperanno di tutto: di impacchettare e consegnare merci, di raccogliere pomodori e verdura, o di gestire i tuoi ordini in tempo reale. E credi sia un bot che risponde alle tue mail inviate alle 2 di notte? O credi sia un algoritmo che automaticamente ti fornisce i risultati di ricerca sulla SERP di Google?

Quante volte alla tv hai visto gli esperimenti di Amazon di consegnare i pacchi con i droni? O i tentativi di Google di far guidare le auto da sole? Quante volte ti hanno detto che le sofisticate catene di montaggio non hanno più bisogno di operai? E ti fanno vedere anche come si possono coltivare ettari di terreno solo con un trattore guidato da una sola persona. Figo, no?

Peccato che son tutte cazzate. Tutte.

Nel sottobosco dove pochi coraggiosi s’avventurano, nei degradati bassifondi dove al solo pensiero di imboccarli cambiamo strada, nelle puzzolenti fogne della più tecnologica delle smart city, dove tutto appare perfetto e automatizzato, insomma, nelle periferie della civiltà c’è un umanissimo esercito in carne e ossa di sfruttati dall’economia digitale, tenuti ben nascosti nelle proprie camerette, in magazzini gestiti come caserme, in aperta ma recintata campagna o mischiati tra la chiassosa gente cittadina in sella a bici e scooter, che fanno il lavoro sporco e ci regalano l’illusione dell’automatismo. E quando noi vediamo i rider girare come pazzi in bici, diamo più importanza all’aspetto ambientale e salutistico (non inquinano e si mantengono in forma) più che allo sfruttamento che ci sta dietro.

Noi clicchiamo su conferma ordine, paghiamo e vediamo il nostro pacco arrivare a casa, senza curarci che nei magazzini di Amazon si consuma lo stesso orrore delle catene di montaggio di fordiana memoria, con persone che hanno i passi e i minuti contati, con algoritmi anonimi che impongono loro determinate performance, con ranking che li collocano in alto o in basso alla classifica in base a quanto sangue e sudore buttano su un pacco e che pregiudicano l’entità del loro stipendio. Lo stesso avviene per le app che consegnano il cibo (Fedora, Just Eat, ecc.), le quali si basano su una larga fetta di lavoratori, spesso assunti con contratti di collaborazione occasionale o con P.IVA il ché permette loro di sfruttarli senza riconoscere i diritti minimi sindacali (salario minimo, ferie, malattia, tredicesima, ecc.) e riconoscendo uno stipendio ancorato al lavoro svolto: più lavori e più ti pago. Insomma, un cottimo, ma 2.0 (per approfondire V. quest’articolo sulla gig economy).

Per addolcire la pillola e farci accettare lo sfruttamento, chiamano questi lavori con un nome evocativo: gig economy, ossia economia dei lavoretti. In pratica vogliono illuderci che si tratta di semplici lavoretti, giusto per arrotondare. Ma dalle parti mie uno arrotonda quando ha già un lavoro e ha bisogno di un’entrata extra, mentre per questi qui è un lavoro a tempo pieno, però pagato come fosse un lavoretto. Qualcosa, quindi, non quadra.

Un lavoro a tempo pieno, ma svolto di nascosto, senza l’ingombro delle tutele sindacali e senza il fastidio del rapporto diretto tra padrone e operaio.

In un mio vecchio articolo questo sistema basato sull’economia digitale l’ho chiamato turco capitalismo, rievocando il turco meccanico, una complessa scacchiera che dava l’illusione di essere automatica, ma in realtà era gestita da un essere umano nascosto al di sotto di essa (approfondisci). Curiosamente questo vecchio modello è stato applicato dai big della rete, tra cui Amazon e Google.

Prendiamo, ad esempio, i lavoratori di Google.

Google ha un esercito di sviluppatori, analisti, segretari, revisori sparsi per il globo, che lavorano da casa. Ti illudono che l’immenso mondo Google sia concentrato nella maestosa sede di Mountain View e che ognuno di loro sia contrattualizzato, ma le cose non stanno così. Da soli non riuscirebbero a gestire tutto quanto, ecco che entrano in scena i turchi meccanici.

Ognuno di questi turchi meccanici ha il compito di analizzare le ricerche che facciamo ogni giorno, adattare i risultati alle ricerche, moderare i contenuti, scrivere codice per migliorare l’algoritmo che gestisce i risultati, gestire la miriade di prodotti creati da Google (maps, calendar, task, drive, ecc.ecc.), il tutto da casa, davanti al proprio PC. E’ un lavoretto? No, è un lavoro vero e proprio che spesso richiede ore, giorni o addirittura mesi di lavoro, ma è pagato pochissimo ed è governato dalla solita legge del ranking: se il tuo lavoro è apprezzato dagli utenti, ti pago, sennò ciccia. Quindi se ti sbatti per 12 ore al giorno davanti a un codice, ma gli utenti valutano male il servizio di Google su cui hai lavorato, addio soldi. E’ chiaramente un pretesto, ma è basato su un ranking e un algoritmo obiettivo, inseriti in una piattaforma digitale con cui lo sviluppatore (o, più in generale, il lavoratore autonomo) s’interfaccia.

Se proprio vogliamo dirla tutta, la nuova frontiera dell’economia digitale non è tanto l’automazione, quanto il rapporto tra l’umano (il lavoratore) e una macchina, un algoritmo, una piattaforma. Se quest’ultima ti dice che non ti paga, perché sei in basso in un ranking impostato automaticamente (ma i cui criteri sono decisi dall’azienda), con chi te la prendi? Almeno una volta ci si interfacciava con il capo reparto o con il quadro, oggi con chi ci si interfaccia? Con il proprio cellulare o PC? Una volta potevi avere il gusto di prendere a sberle il tuo capo, ma oggi non ti conviene prendertela con i tuoi dispositivi: che fai? t’incazzi perché non ti pagano e li sbatti contro a un muro? E poi ti tocca pure ricomprarli.

Ci illudiamo che presto le macchine, nell’economia digitale, sostituiranno il lavoro umano, ma sono solo cazzate. Lo gestiranno, sì, ma non lo sostituiranno mai.

Solo ci illuderanno di farlo, ci diranno che il capitalismo classico sarà sostituito dall’economia digitale, che lo sfruttamento non esisterà più, perché le macchine faranno il lavoro sporco. Ma saranno solo illusioni. Nel sottobosco, nelle fogne della fiorente civiltà degli automatismi, nelle periferie dell’impero tardo capitalista, ci sarà sempre un esercito di lavoratori sfruttati, ma tenuti ben nascosti. Tuttavia, in fondo, si tratta di lavoretti, dai. E se la pizza arriva fredda o il pacco di Amazon arriva rotto e valutiamo negativamente il servizio, chi ci rimetterà i soldi? L’azienda o il lavoratore? Ma in fondo a noi che c’importa? E’ solo un’app e il rapporto umano è limitato ad una consegna. Chi se ne fotte del sottobosco, tanto se il servizio non mi soddisfa, lascio una valutazione negativa. Io la lascio ad un’app, mentre l’algoritmo la scaricherà sul lavoratore. Nessun rapporto diretto, niente di umanamente percepibile. E’ l’approccio perfetto per concretizzare l’alienazione diffusa, per eliminare ogni forma di umano allaccio, per rafforzare il rapporto tra umano e dispositivo e far credere che dietro quel dispositivo ci siano processi di tecnologia avanzata. Sì, ma basati su sangue e sudore.

Che differenza c’è tra destra e sinistra oggi?

Renzi, Di Maio e Salvini destra e sinistra

La differenza tra destra e sinistra in Italia? Nessuna sul piano del reale. Alcune, ma solo sul piano dell’immagine.

Già dagli anni Settanta, con il progressivo imporsi nello Stato italiano (Stato da intendersi non in senso istituzionale ma come complesso di classi, ceti, Istituzioni, organizzazioni, mercato, ecc.) del capitalismo di stampo americano e della società dei consumi, anche grazie alla scelta politica del partito egemone, ossia la DC, di schierarsi con il Patto Atlantico, il PC ha dovuto giocoforza adattare la sua politica ai nuovi scenari. Così ha cercato di mantenere un precario equilibrio tra la fedeltà ad un partito che aveva adottato il modello del socialismo in una sola nazione, sciolto la III internazionale comunista, fatto fuori gli oppositori e instaurato un regime dispotico.

Chiaramente in questo quadro il PC italiano, consapevole del suo ruolo politico in Occidente, non avrebbe mai potuto appoggiare apertamente il regime sovietico e, a causa del proliferarsi al suo interno di correnti moderate e miglioriste (ossia quella che vedeva un adattamento dei principi socialisti e comunisti al capitalismo) cercò di adattarsi ai nuovi scenari, con l’obiettivo – dati i consensi ottenuti – di arrivare al governo.

Cosa che non accadde mai, nonostante il compromesso storico, a causa dell’uccisione di Aldo Moro, che aveva ormai messo a punto il compromesso per arrivare al governo con i comunisti.

Dagli anni Ottanta, soprattutto dopo la morte di Berlinguer, il PC non riuscendo mai a governare, nonostante lo storico (seppur momentaneo) superamento elettorale sulla DC, iniziò a frammentarsi fino alla fatidica svolta della bolognina nel 1990, quando l’allora segretario Achille Occhetto decise di concretizzare quella cosa di cui si parlava da tempo e aderire ai principi del capitalismo e del liberismo in chiave riformista. Fu quindi fondato il PDS (Partito dei democratici di sinistra) che, con D’Alema, divenne DS per poi arrivare, nel 2006, al PD, racchiudendo in sé anche pezzi di ex democristiani (Margherita, ecc.).

I liberisti sono di destra e sinistra!

romano prodi privatizzazioni

Tra l’avvento di Berlusconi (1994) e il suo decennio egemonico (2000-2010 circa, a parte un paio d’anni di governo Prodi dal 2006 al 2008), i DS hanno portato avanti una linea di smantellamento dello Stato sociale a tutto vantaggio del liberismo (ne ho parlato più diffusamente qui), attraverso le privatizzazioni, le liberalizzazioni (volute da D’Alema, Prodi e Bersani) e lo smantellamento delle tutele sul lavoro.

Prodi, D’Alema, Bersani che oggi vengono considerati di sinistra e quindi molti sostenitori del PD storcono il naso ad un loro possibile ingresso sono quelli che hanno privatizzato il paese, liberalizzato i servizi essenziali e fatto guerra all’ex Jugoslavia per fare un favore agli amici imperialisti. Cos’hanno di sinistra se rappresentano gli interessi dell’alta borghesia e del capitalismo e sono i naturali predecessori di Renzi?

Renzi e la destra e sinistra che si fondono

Renzi ha svolto la sua purificazione (o rottamazione, come lui la chiama) del PD solo per questioni di potere, dato che la sua politica è improntata all’ultraliberismo e, quindi, a fare favori ai rappresentanti dell’establishment europeo. Il jobs act è la prosecuzione di un programma, iniziato con Treu negli anni Novanta, per precarizzare sempre più il mondo del lavoro e consentire al capitale di accedere alla forza lavoro a costi più contenuti, di garantire la concorrenza al ribasso tra i lavoratori e di avere un ricambio della forza lavoro sempre maggiore. Il jobs act, unito ad una sempre maggiore debolezza del sindacato (che ha molte colpe, soprattutto nell’aver svenduto la classe lavoratrice per mantenere un brandello di potere) ha portato condizioni di vita peggiore alla classe lavoratrice.

La buona scuola è stato un progetto volto a ridurre sempre più i finanziamenti all’istruzione pubblica a vantaggio di quella privata. Non c’è molta differenza con le politiche del governo Berlusconi che, con le riforme Moratti e Gelmini, ha inteso destrutturare l’istruzione pubblica e rafforzare quella privata, sia nella scuola che nell’Università. La privatizzazione dell’istruzione di ogni ordine e grado, tipica di un sistema liberale e liberista, è un processo che si sta realizzando tutt’oggi e che ha coinvolto tutti i governi, da destra a sinistra.

Il ruolo del Parlamento

parlamento

Il parlamento ha la funzione di discutere le leggi e di dettare la linea politica che il Governo ha l’obbligo di realizzare. Più è ampio il Parlamento, più è rappresentativo dell’elettorato e più, in teoria, questa funzione può essere esplicata e i provvedimenti normativi sono adottati nell’interesse della Nazione. Ma se il Parlamento viene esautorato della sua funzione, il ruolo di scrivere le leggi e di adottarle nell’interesse della Nazione chi ce l’ha? Dal Governo Berlusconi ad oggi stiamo assistendo ad una costante e continua azione di esautoramento del Parlamento, il quale oggi è svuotato della sua intima funzione e fa solo da passacarte. Due sono gli strumenti più lampanti:

1. Lo strumento della fiducia. In questo modo il Governo chiede al Parlamento di votare in blocco un provvedimento, senza discussione, senza emendamenti. E’ chiaro che con un Parlamento a vocazione maggioritaria e deframmentato è più facile far passare provvedimenti senza discussioni, senza emendamenti (che, in teoria, servono a migliorare il testo), senza, cioè, far decidere ad una platea ampia e rappresentativa dell’elettorato.

2. Lo strumento della decretazione d’urgenza. I Decreti Legge sono uno strumento che consentono al Governo di adottare provvedimenti urgenti, ma in questi ultimi decenni sono stati massicciamente utilizzati per tutto: finanza, istruzione, lavoro, infrastrutture, ecc., perché consentono l’immediata efficacia ed una successiva ratifica da parte del Parlamento, il quale, di fatto, non fa altro che prendere atto di quanto deciso dal Governo.

Queste tecniche parlamentari unite al tentativo di riforma della legge elettorale e della riduzione del numero dei parlamentari serve a dare maggiore potere al Governo ed eliminare le minoranze scomode.

Destra e sinistra d’accordo per ridurre la rappresentatività popolare

Dunque i tentativi di ridurre il numero dei parlamentari e le leggi elettorali di stampo maggioritario sono esattamente funzionali a quest’obiettivo: rendere inutile il Parlamento, ridurre il numero dei parlamentari, sbarrare l’accesso alle minoranze fastidiose e rendere la maggioranza conforme alla volontà del Governo e, quindi, ai veri sostenitori di destra e sinistra liberisti: le lobby economiche.

La seconda Repubblica, iniziata dopo il crollo della DC e l’ascesa dei partiti populisti (Berlusconi è il padre di tutti i partiti populisti, M5S incluso) è caratterizzata proprio da questa funzione: aumentare il potere del Governo e ridurre il potere del Parlamento, svuotando di fatto il dettato costituzionale che vuole la centralità del Parlamento. Ecco perché Renzi ha voluto la riforma costituzionale, per sacralizzare nel testo una situazione di fatto. Ecco perché oggi il M5S vuole ridurre il numero dei parlamentari: con la scusa che così si risparmia (ma ignorando le spese pazze dei suoi parlamentari), vuole portare a compimento un percorso iniziato con Berlusconi e portato avanti da Renzi.

Il maggioritario unisce destra e sinistra. Altro che proporzionale!

Non appena terminate le elezioni europee, nel caso in cui il Governo dovesse reggere alle elezioni e dopo che il M5S avrà realizzato pienamente qual è la sua forza elettorale, si tornerà a parlare di legge elettorale e scoprirete il vero volto del M5S, che si è sempre detto favorevole al proporzionale, ma cambierà idea, coerentemente con la scelta di ridurre il numero dei parlamentari e di accentrare i processi decisionali nelle mani di pochi (e quei pochi, si sa, sono controllati da un soggetto economico, privato, inserito a pieno titolo nel sistema liberista e capitalista).

Reddito di cittadinanza e salario minimo, due cose che non cambiano la sostanza

Il reddito di cittadinanza è un contentino elettorale che non influisce sul mercato del lavoro e che grava su di esso (viene preso dai redditi dei lavoratori e dal debito pubblico), inoltre piace molto ai fautori della società dei consumi.

L’attuale “battaglia” sul salario minimo è anch’essa un contentino elettorale che però porterà i datori di lavoro ad aumentare il numero di ore di lavoro, diminuire il numero di lavoratori oppure optare per forme di lavoro più flessibili (contratti a tempo determinato, false P.IVA, ecc.).

Già da queste brevi informazioni si può capire che oggi tra Destra e Sinistra (di centro, chiaramente), Lega, M5S (e altri) non c’è alcuna differenza, se non nei toni utilizzati o in sporadici e singoli temi trattati, che però non influenzano minimamente le linee politiche dei rispettivi partiti volte a mantenere lo status quo e impedire ai ceti più poveri della popolazione di progredire.

Sabotare i lavoratori per mantenere lo status quo

La crisi economica del 2007 (che si ripeterà a breve) ha mostrato tutte le debolezze del sistema capitalista attuale, oggi accentrato nelle mani di pochi e che si mantiene vivo grazie alla speculazione finanziaria, che, estremizzata al massimo profitto, ha portato alla crisi economica. Gli scenari futuri, anche considerando il ruolo che la Cina sta giocando nel complesso scacchiere geo-politico, ci riserveranno nuove crisi economiche in quanto l’attuale assetto capitalista non è minimamente scalfito.

Il ruolo dei partiti politici in Italia è stato lineare e trasversale tra essi, ossia quello di sostenere l’alta borghesia a tutto svantaggio delle classi lavoratrici, non solo di quella operaia, ma anche di tutti quei piccoli imprenditori, quelle micro imprese, quei professionisti che oggi soffrono per l’eccesso di offerta, la concorrenza spietata dei grandi gruppi di capitali e per l’erosione del potere d’acquisto, per cui il mercato viene sbarrato e ci si deve accontentare delle briciole.

Iniquità fiscale

Sappiamo tutti quanti che la pressione fiscale in Italia rende difficile ad una micro impresa di crescere. Chiunque, oggi, si immette nel mercato con una propria idea, soprattutto sul web, si trova davanti gli sbarramenti di tasse e imposte, mancanza di infrastrutture (specie al Sud), concorrenza sleale dei big della rete, ecc.

Nonostante la Lega abbia fatto suo il cavallo di battaglia della flat tax, ingraziandosi numerosi piccoli imprenditori e professionisti, questo provvedimento va a tutto vantaggio dell’alta borghesia, ossia di quegli imprenditori e professionisti che guadagnano molto e investono poco, preferendo invece speculare i propri profitti.

Contrariamente a quanto sostiene la Lega, i risparmi derivanti dalla flat tax per le grandi imprese (e i grandi professionisti) non saranno mai reinvestiti per la crescita o per l’occupazione, anzi, saranno investiti in attività speculative.

Quest’ottimo servizio di Milena Gabanelli dimostra, numeri alla mano, quanto la flat tax sia iniqua, soprattutto per i piccoli. Personalmente lo so benissimo, essendo una P.IVA, che la flat tax mi avrebbe penalizzato e infatti non vi ho aderito, nonostante faccia redditi da fame.

L’iniquità fiscale tra piccoli e grandi

Se salto una rata dei contribuiti INPS o un pagamento IVA, lo Stato attende un certo numero di anni (max 5, per evitare la prescrizione) affinché aumentino gli interessi e, con le sanzioni, la mia rata o il mio pagamento raddoppia o triplica. Così vengo strozzato e indotto al fallimento. E poi, per ripagare i debiti fiscali, dovrò accedere al credito, ipotecare la casa e, quando sarò entrato nel vortice del debito, perderò tutto. E’ accaduto così tante volte che è inutile stare qui ad approfondire.

Questa cosa, però, non accade con i big.

Amazon

Amazon realizza utili per 11,2 miliardi di dollari (e un fatturato di 233 miliardi di dollari), ma negli USA non paga un centesimo di tasse.

Dopo una lunga indagine della GdF, dal 2011 al 2015, si è scoperto che Amazon non avrebbe versato un centesimo di tasse nemmeno in Italia, avendo preferito spostare gli utili in Lussemburgo, dove vige una tassazione più favorevole, nonostante avesse in Italia “una stabile organizzazione” che, per il fisco italiano, è sufficiente affinché l’azienda paghi le tasse nel bel paese.

Non sappiamo quanto guadagna Amazon in Italia, perché i suoi fatturati in molti paesi europei sono segreti, ma sappiamo che la sua strategia è quella di aggredire il mercato europeo, operando in perdita, per eliminare ogni forma di concorrenza sia sul web che dei negozi tradizionali, forte dei continui finanziamenti da parte dei suoi azionisti, e sappiamo che nel periodo 2016-2018 il fatturato è aumentato del 71,26% (v. qui), eppure in Italia, dopo il controllo da parte della Finanza, pagherà all’Agenzia delle Entrate solo 100 milioni di euro per gli anni 2011-2015 (ossia 2,5 milioni ad anno, a fronte di un fatturato globale che arriva a 233 miliardi. Fate le giuste proporzioni).

Google

Anche Google ha fatto un accordo accomodante con il fisco italiano. A fronte di un fatturato globale di 67,6 miliardi di dollari nel 2015 (saliti a 82 miliardi nel 2016) pagherà in Italia appena 306 milioni di euro, dopo anni di contenziosi. Anche Google, forte del fatto di avere la sede legale europea in Irlanda (dove la fiscalità è esigua) e forte di essere una multinazionale del web, non ha mai pagato un centesimo di tasse in Italia, dove però offre i suoi servizi di pubblicità e dove, quindi, ha un mercato stabile. Eppure è arrivata ad un accordo che le ha consentito forti risparmi fiscali rispetto alla totalità delle aziende che operano e hanno la sede fisica in Italia.

Apple

Apple è stato il primo big a giungere ad un accordo col Fisco italiano. Nel 2015 ha pagato 318 milioni di euro per sanare una evasione fiscale di 5 anni che sfiora il miliardo di euro.
Apple è quella che ha pagato di più, ma per un semplice motivo: ha numerosissime attività commerciali fisiche nel territorio italiano, a differenza di Amazon che ha solo uno stabilimento a Castel San Giovanni e Google che ha una sola sede in Italia (a Milano).

I colossi pagano piccolissime somme (che arrivano, solo nel caso di Apple, a circa il 30%) per sanare le loro posizioni con il fisco mentre i professionisti, le PMI, le micro imprese e i lavoratori arrivano a pagare oltre il 70% tra fiscalità diretta e indiretta, senza contare i contenziosi e l’enorme burocrazia che blocca gli investimenti.

Favorire i grandi, penalizzare i piccoli

Ogni governo che si è succeduto in questi anni ha adottato la medesima politica di favore nei confronti dei big e non ha mai messo mano né alla fiscalità né al mercato del lavoro per correggere le numerose storture che coinvolgono sia gli imprenditori che i lavoratori.

In conclusione, per sintetizzare quanto detto finora, ritengo che la discussione tra destra e sinistra, oggi, in Italia, sia solo un mero esercizio stilistico, sia formalismo linguistico che non trova alcuna corrispondenza con la realtà.

Tutti, da destra a sinistra, sono rappresentanti di poteri forti (attenzione a non fraintendere e considerare quest’espressione di mero complottismo. Tutt’altro), solo di diversa natura: se il PD è naturalmente orientato a preservare i rapporti con l’establishment europeo, mentre il M5S cerca altri “padroni”, la Lega è orientata a rappresentare l’alta borghesia interna. Ma si tratta sempre di poteri, più o meno forti, che però sono accomunati da un unico intento: preservare il capitale, gli interessi economici, i rapporti di forza nel mercato.

Mercato e profitto

Nel mercato, si sa, si fa tutto secondo la logica del profitto: ci si scambia favori, ci si fonde, si fa concorrenza, si creano e disfano alleanze, sempre in nome del denaro. E in questi giochi la politica italiana fa gli interessi del mercato, non della Nazione. In altre parole, se Confindustria si schiererà con i cinesi, anche la Lega sarà a favore della Via della Seta (qui un approfondimento sul tema), così come il PD cambierà padrone se l’Europa e la BCE dovessero crollare nei nuovi rapporti di forza che s’ingenereranno tra Occidente e Oriente.

Detto in estrema sintesi: la politica di oggi è lo specchio del mercato, non del popolo. Il concetto di popolo è solo uno specchietto per le allodole per confondere le acque, convincere la gente che l’interclassismo ha sostituito il conflitto tra le classi e tenersi buoni gli strati più umili della popolazione, quelli che si sentono oggi rappresentati principalmente da Lega e M5S ma che da loro prendono solo calci nel sedere.

Destra e sinistra?

Se vogliamo invertire la rotta e ridare dignità a chi lavora, a chi è sfruttato (siano essi lavoratori, imprenditori, giovani professionisti, P.IVA, ecc.) bisogna lasciar perdere la diatriba tra destra e sinistra e ricostruire un socialismo di fatto che parta dagli ultimi, dai territori e che disegni un manifesto politico in grado di scalfire un sistema capitalistico ormai allo sbando, che si sta mostrando sempre più aggressivo e sempre più squilibrato (alla prossima crisi, imminente, mi darete ragione). Un soggetto che faccia comprendere la realtà nella sua razionalità, nella sua necessità, ovvero in modo scientifico e crei concetti e azioni che possano razionalizzare l’esistente. Pare difficile, ma non lo è. Lo sarà quando tutte quelle persone “di buona volontà”, anziché farsi la guerra sui particolari, metteranno insieme le proprie forze per un obiettivo unico. Stoico, se vogliamo, ma non impossibile.

La Via della Seta ovvero pesce grande mangia pesce piccolo

xi jinping e mattarella via della seta

Senza retorica e con i piedi ben piantati nella realtà, posso affermare che oggi si sta decidendo il futuro del Mondo e i nuovi equilibri geo politici che, se mal gestiti, porteranno a squilibri i cui effetti si riverberanno nei prossimi secoli. L’Italia è debole se fa accordi da sola e rischia di diventare una … Leggi tutto

Gig economy, chi sono i big che comandano il mercato del food

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Per molti la Gig economy è un’opportunità e un’innovazione, per altri, come il Ministro Di Maio, un settore da regolamentare con contratti collettivi o concertazioni con le Aziende. In realtà è solo una nuova veste di un modello che punta allo sfruttamento e che porterà l’economia reale alla stagnazione e a nuovi e sempre maggiori … Leggi tutto

Le Aziende italiane e la lenta digitalizzazione

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Oggi tutti parlano di Industria 4.0, ma molte Aziende sono ancora ferme a vecchi modelli di business. La digitalizzazione? Per molti è solo una pagina su Facebook e messaggiare con i clienti tramite WhatsApp.

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Quello che vedete in foto è Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico sotto il Governo Gentiloni. L’ultima sua iniziativa a favore della digitalizzazione delle imprese italiane è stata l’istituzione di un voucher a fondo perduto finalizzato all’adozione di interventi di digitalizzazione dei processi aziendali e di ammodernamento tecnologico. Con quest’iniziativa il Ministero intende finanziare tutte le imprese italiane, che ne facciano richiesta, per attività volte a:

  • migliorare l’efficienza aziendale;
  • modernizzare l’organizzazione del lavoro, mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici e forme di flessibilità del lavoro, tra cui il telelavoro;
  • sviluppare soluzioni di e-commerce;
  • fruire della connettività a banda larga e ultralarga o del collegamento alla rete internet mediante la tecnologia satellitare;
  • realizzare interventi di formazione qualificata del personale nel campo ICT.

Il voucher copre la metà dell’investimento, fino a un massimo di 10.000 euro. E’ scaduto a metà febbraio e pochi giorni fa è stato pubblicato l’elenco delle aziende finanziate.

A fare richiesta del voucher digitalizzazione sono state quasi 95.000 imprese.

Questo dato mi ha fatto riflettere.

L’Italia conta 4.400.000 imprese attive (fonte ISTAT). Cioè, quasi 4 milioni e mezzo di imprese che funzionano (perché di imprese inattive ce ne sono molte di più). Ciò significa, all’incirca, un’impresa ogni 13 abitanti, anziani e bambini inclusi. Un così alto numero d’imprese è sempre un buon segno, perché – nonostante la crisi economica degli ultimi anni – dimostra che da Nord a Sud ci sono tanti italiani che hanno voglia di fare impresa e di mettersi in gioco. Ma il dato delle Aziende che hanno partecipato al bando è significativo di quanto siano ancora poco avvezze al concetto di digitalizzazione. E attenzione, perché il bando non imponeva alcun tipo di vincolo, quindi poteva partecipare chiunque.

Ora, a parte l’ovvia considerazione che molte imprese abbiano rinunciato a partecipare al bando per via del misero importo finanziato (solo 100 milioni di euro) oppure per evitare le solite rogne burocratiche legate all’ottenimento del voucher, c’è però da dire che il 2,2% delle imprese attive che hanno partecipato al bando è un dato estremamente basso rispetto alle aziende sconfortate e quindi va letto in un’ottica diversa, ossia che le aziende italiane, soprattutto quelle vecchie e quelle B2B (ossia imprese che si rivolgono solo ad altre imprese), sono ancora solidamente ancorate a stantie logiche di business.

Basta farsi un giro tra i siti web di imprese B2B, che, per esempio, hanno come business la produzione di macchinari per altre imprese. Siti vecchi e statici, lenti, con immagini minuscole e chiaramente non adatti alla navigazione mobile. Se provi a contattarli dal form (quando c’è), non ti rispondono mai. Segno che non guardano la mail oppure non fanno manutenzione al sito web.

Insomma, molte grandi Aziende B2B guardano a internet come a una semplice vetrina, senza curarsi dell’interazione con vecchi e potenziali nuovi clienti.

La mail, questa sconosciuta

Le mail sono il mezzo più veloce ed economico per comunicare con un’Azienda. Eppure ci sono moltissime aziende che non le usano, perché preferiscono i vecchi metodi di contatto con i clienti: telefono e appuntamenti dal vivo. Chiedere loro di farti mandare un listino via mail è cosa impossibile. Ti diranno: fissiamo un appuntamento. Se tu vivi a Torino e l’Azienda è di Napoli, qual è il vantaggio in termini economici e di tempo? Tu o loro spenderete inutilmente soldi e tempo per un appuntamento dal vivo che si sarebbe risolto con l’invio di una mail.

Ultimamente, però, con l’avvento di WhatsApp, le Aziende hanno saltato a piè pari i mezzi canonici del web rappresentati dalle mail, passando direttamente al sistema di messaggistica tramite smartphone. Molti però ne fanno un uso così promiscuo da inviarti, insieme al materiale lavorativo, anche le foto dei loro figli o le meme più stupide che ricevono da amici e parenti. Anche questo è un segno di quanto molte Aziende, anche grosse, non hanno idea delle potenzialità della rete e non sanno distinguere la realtà lavorativa da quella personale.

Il commercio e il manifatturiero

Il maggior numero di imprese attive in Italia fanno parte di queste due categorie: commercio e manifatturiero. Le prime sono circa 1 milione, mentre nel manifatturiero (che comprende il famoso e celebrato Made in Italy) sono attive più di 300 mila Aziende. Se nel settore del commercio si registra un più vivace utilizzo dei canali web (in particolare siti di e-commerce e vetrine social), il manifatturiero soffre ancora di un abisso mostruoso in termini di innovazione. Gran parte delle Aziende hanno attivo solo un canale social e un sito web realizzato con vecchie metodiche e aggiornato solo (e forse) nell’aggiunta di nuovi prodotti. Il mobile-friendly, per queste Aziende è ancora un concetto sconosciuto e le comunicazioni avvengono solo tramite WhatsApp. Altro che digitalizzazione.

Il famoso “cuggino”

L’idea che internet sia un qualcosa che “forse funziona, ma boh?” è esplicitata dal fatto che numerosissime Aziende si rivolgono a improbabili e improvvisati sviluppatori per farsi fare il sito web, nell’ottica del maggior risparmio possibile e con l’idea che “il sito ce l’hanno tutti, me lo faccio anch’io, ma voglio spendere poco”. Se uno sviluppatore serio, consapevole del lavoro che c’è dietro la creazione di un sito web efficace, arriva a chiedere anche 10.000 euro per realizzare un lavoro fatto ad arte, un Imprenditore poco avveduto penserà che tale richiesta è una truffa, in quanto il cuggino (o l’amico o lo sviluppatore paesano, che ha aperto un’agenzia improvvisata) ha chiesto solo 500 euro. Ed è così che ci si ritrova con siti fatti in 5 minuti con Joomla o WordPress, senza alcuna ottimizzazione, senza alcun lavoro sul SEO e senza curarsi nemmeno di cambiare la favicon. Alla lunga, quando il nostro Imprenditore si accorgerà di non vendere nulla su internet, dirà che internet non funziona, che il suo prodotto non funziona sulla rete e che è inutile spendere soldi per il web-marketing. Non penserà che il cuggino ha fatto un lavoro da schifo e ha solo fatto perdere 500 euro all’Imprenditore.

Forse è anche per questo motivo che molte Aziende hanno snobbato il voucher per la digitalizzazione, perché pensano che internet non funziona.

Non credo nelle sponsorizzazioni e su Facebook ci sto solo perché mi hanno detto che serve, ma non vendo

Tra le Aziende presenti in rete, molte hanno deciso – ultimamente – di aprire una fan page su Facebook, perché boh? lo fanno tutti e pure io. Chiaramente, senza una strategia, senza una visione di ciò che l’utente del web cerca, senza budget e senza misurazioni dei risultati, non si va da nessuna parte. Ecco che ti ritrovi brand famosi (o comunque radicati nella realtà produttiva di un territorio e noti in zona) con 400 like o pagine che hanno speso un mucchio di soldi per promuoversi su Facebook, con 10.000 like ma zero interazioni.

E’ chiaro che con queste politiche di marketing non venderai. Perché in rete l’utente cerca informazioni, divertimento, coinvolgimento. E se tu, Azienda, pensi di comunicare usando vecchi sistemi di marketing, non otterrai mai un lead, ossia una conversione da utente a potenziale cliente. E’ il meccanismo ad essere diverso da come lo si interpretava fino a un decennio fa e non è così difficile da interpretare, basta solo pensare che la gente, su internet, e soprattutto sui social, non è un telespettatore a cui propinare passivamente una pubblicità, ma un utente attivo, che cerca, che confronta, che si informa e chiede rassicurazioni. Sarà per questo che Facebook ultimamente dà importanza al tempo di risposta dei messaggi o che Google propone i risultati più pertinenti alle ricerche degli utenti.

Giusto per concludere…

Con un paradigma da web 1.0 o da “al massimo uso WhatsApp per comunicare con i miei clienti”, non si va da nessuna parte.

Quindi, sì, internet funziona, per quasi tutte le categorie merceologiche. Insomma, puoi vendere di tutto. Però va usato con approcci diversi dal vecchio sistema di marketing e soprattutto va usato secondo metodiche nuove, più rivolte alla comunicazione, alla personalizzazione, al rapporto diretto con gli utenti. Ma mi rendo conto che questo tipo di approccio sarà adottato dalle nuove generazioni di imprenditori, perché quelli attuali sono ancora presi dal dare colpa alla crisi, mentre inviano ai propri clienti, su WhatsApp, l’ultimo video del criceto affamato e non immaginano quanti vecchi e potenziali clienti li bloccano, erodendo quote di fatturato e reputazione on-line. L’unica che oggi conta.

 

Trump e i dazi. Ha fatto bene o no?

trump dazi

Ogni mattina, quando mi sveglio, corro a leggere il giornale per scoprire – oltre alle divertenti news riguardanti l’intricata matassa della politica interna – le ultime trovate di Donald Trump. Mi diverte troppo. Tuttavia l’ultima sua trovata, quella di imporre dei dazi doganali alle importazioni di acciaio e alluminio, rispettivamente del 25 e del 10%, … Leggi tutto

5 buoni motivi per evitare i centri commerciali

centri commerciali

Alzi la mano chi non hai mai fatto la spesa nei centri commerciali. Ok, ci siamo tutti. In effetti per molti di noi andare a fare la spesa in un centro commerciale spesso diventa il pretesto per farsi una passeggiata, soprattutto domenicale, cazzeggiare, incontrare gente, prendersi un caffè o un gelato e, tra un negozio e l’altro, spendere parte dello stipendio in cose più o meno utili.

Il vantaggio dei centri commerciali è che ci trovi tutto, e anche qualcosa in più. Quelli grandi e moderni, poi, hanno al loro interno negozi monomarca o negozi specializzati (in articoli sportivi, scarpe, abbigliamento, ecc.) che si trovano solo lì, e per questo spesso la visita al centro commerciale diventa una tappa obbligata. Alla fine ti ci abitui così tanto che ogni volta che ti serve qualcosa, non pensi di andare in qualche negozio in centro, magari vicino casa, ti fiondi direttamente al centro commerciale. Non è così?

Personalmente da giovane ci andavo pazzo. Un po’ perché il centro commerciale più vicino a casa mia (che distava circa 30 km) praticava prezzi particolarmente vantaggiosi rispetto al supermarket sotto casa e un po’ perché rappresentava una novità e una comodità assoluta: trovavi tutto, a prezzi vantaggiosi ed era comodo girare col carrello tra vari negozi, per non parlare del wi-fi gratuito, un’altra delle principali attrattive che mi spingeva ad andare lì ogni volta che potevo, in un periodo in cui internet in casa era un lusso per pochi.

Ma poi col tempo qualcosa è cambiato. Se da un lato sono diventato sempre più insofferente ai posti affollati, dall’altro ho consapevolizzato il fatto che ormai i centri commerciali non sono più quelli di una volta, non sono più convenienti, sono diventati fonte di stress (che aumenta con l’aumentare della gente), sono pericolosi per l’ambiente e, soprattutto, sono la prima causa della morìa del piccolo commercio, cioè l’anima dell’economia reale italiana.

Insomma, i motivi per evitare i centri commerciali ci sono. Ne elenco solo 5, quelli che per me sono i principali.

1. I centri commerciali creano ansia e fastidio soprattutto nei giorni prefestivi

folla ai centri commerciali

C’è una regola che pervade la mia vita in fatto di relazioni con il centro commerciale. Se da un lato so che andando lì troverò tutto quello che mi serve (o almeno l’illusione di trovarlo), dall’altro lato so che quando uscirò avrò sicuramente dimenticato qualcosa.

Senza una rigorosa lista della spesa, il rischio che corro ogni volta tra quegli immensi scaffali è di non sapere più di cosa ho bisogno e di prendere cose a casaccio.

In effetti, passeggiando per quei grandi spazi mi avranno nel frattempo rincoglionito tra migliaia di prodotti, offerte speciali, fastidiose luci fredde, il nervoso crescente nel non trovare subito quello che sto cercando e lo stress da folla di gente, che si attenua solo se ci vado nei giorni feriali o negli orari di minore affluenza. Cioè, se ho un lavoro con orari standard, praticamente mai.

L’ingresso

Lì iniziano le bestemmie sin dalla ricerca del parcheggio. Sì, perché appena varchi con la tua auto la soglia del centro commerciale, nei giorni prefestivi o in una qualsiasi domenica, ti accorgi di aver fatto un’enorme stronzata: dal cavalcavia già vedi i parcheggi pieni e preghi iddio affinché ti faccia trovare uno stallo libero vicino all’ingresso. Ovviamente non lo troverai e ti toccherà lasciare l’auto chissà dove, sperando di ricordarti l’impossibile combinazione di lettere e numeri che rappresentano le uniche coordinate per ritrovare la tua auto in quella sterminata radura di asfalto tutta uguale. Dopo 3 minuti di camminata verso l’ingresso ti starai già chiedendo: “ma il parcheggio era il B2 o il P9?”.

Il carrello

I guai non sono certo finiti. Perché è domenica e siamo in orario di punta, in un giorno in cui tutta la città pare essersi riversata nel centro commerciale e chiaramente non ci sono carrelli. L’unico che trovi è quello che tutti hanno snobbato, perché ha le ruote bloccate e fa un rumore così stridulo che ad ogni passo tutti si gireranno a guardarti, mentre inizi a sudare e già non vedi l’ora di andartene via.

Tra un “permesso” e un “mi scusi”, avrai già dato una pedata a un vecchietto e una gomitata ad una tizia che ti guarda con fare infastidito. E siamo solo all’inizio. Se non hai una lista, hai già dimenticato cosa prendere. Allora cerchi di fare in fretta, arraffando quello che ti capita a tiro. Ovviamente non guardi le scadenze dei prodotti, ma ti fai abbindolare dalle offerte. Rinunci anche a fare la fila in salumeria. Il numerino che hai preso ti anticipa che a te toccherà quando sarà ormai orario di chiusura. Meglio prendere gli affettati o i formaggi già imbustati, anche se sai che fanno schifo.

Il guanto per la frutta

guanti_frutta

Il peggio, però, non è passato, perché devi prendere la frutta. Lì inizia il bello, già quando proverai a indossare quell’immondo guanto in plastica sulla mano sudaticcia. Romperlo è un attimo e indossarlo una tortura.

L’Italia, chissà perché, è l’unico Paese in Europa che obbliga i supermercati ad avere i guanti in plastica per prendere la frutta, dandoti l’illusione dell’igiene. Quando, per anni (e ancora oggi) palpi la frutta dal fruttivendolo, senza l’obbligo del guanto, sai che mai nessuno ci è morto o ha preso strane malattie, ma se lo fai al supermercato rischi che qualche dipendente ti riprenda, magari sgridandoti ad alta voce, come si fa ad un bambino scoperto con le mani nella marmellata.

La fila in cassa

La fine della spesa segna l’inizio di una nuova fonte di stress: la fila alle casse. Proprio come la fila in autostrada, capiterà sempre di metterti in coda nella cassa che ti sembra meno affollata, ma in realtà, per qualche strano motivo, diventa più lenta di quella accanto, dove c’era più gente. Il cliente che ti precede avrà sicuramente un buono pasto da calcolare, un prodotto che non passa e che bisogna cambiare, oppure difficoltà a contare le monetine. Qualunque sia il motivo, chi dopo di te è andato alla cassa accanto starà già imbustando la roba, mentre tu, ticchettando nervosamente con le dita sul carrello, bestemmi cliente e cassiere che staranno discutendo allegramente infischiandosene di te e della tua fretta.

Certo, qualcuno mi dirà che ci sono le casse automatiche. Sì, solo che lì non ti rendi conto della fila, vedi solo un ammasso di gente, poi per forza di cose ti devi rivolgere al personale, o per una placca antitaccheggio da rimuovere, o perché hai i buoni pasto da usare o perché c’è uno sconto che lo scanner non ha preso e soprattutto perché non è da tutti seguire quella semplice – eppur complessa – procedura che ti porta sempre e comunque a sbagliare qualcosa. Meglio la buona e vecchia cassiera.

L’uscita

Uscito dal supermarket, sempre se ti ricordi da quale ingresso sei entrato (Nord o Sud? Est o Ovest? Boh, mi ricordo che entrando ho trovato la Bata…o forse era la Globo?), non avrai più la forza e il tempo di andartene a spasso per altri negozi. E’ ormai orario di chiusura e tu ricordi vagamente di esserci entrato dopo pranzo, quando ancora fuori splendeva il sole. Dopo aver ritrovato (a fatica) la macchina, ti calerai la mano in tasca e trovando lo scontrino ti chiederai: “come ho fatto a spendere 100 euro per due buste?”. Già.

2. Spesso hanno prezzi più alti rispetto al piccolo supermercato sotto casa

Chi è abituato a fare la spesa seguendo la rigida logica delle offerte da volantino, quindi in grado di frequentare anche due o tre supermercati in un giorno, e mette un po’ di attenzione sui prezzi pieni e non solo sulle offerte, si renderà conto che tra un supermercato e l’altro lo scarto di prezzo è davvero minimo. Se la giocano sui centesimi. Chiaro che questa comparazione non vale tra supermercati e discount. Per i discount, che trattano prodotti sottomarca (ma spesso di qualità uguale alle marche più note) la logica è diversa. Il paragone va fatto tra GDO (grande distribuzione organizzata) dello stesso livello (es. tra Coop e Conad). Quindi se andiamo a paragonare le GDO, scopriremo che molto spesso i prezzi sono uguali, anzi, il piccolo supermercato sotto casa (che spesso appartiene a una GDO) arriva anche a praticare prezzi di poco inferiori rispetto al supermarket del centro commerciale.

Fai una prova

Fai una lista di una decina di prodotti da comparare, stessa marca, stesso peso e di diverso genere (es. pasta, snack, detersivo, vino, olio, ecc.) e vai in un centro commerciale, segna i prezzi e poi vai al supermercato sotto casa. Scoprirai che i prezzi si differenziano di pochi centesimi. Per i prodotti insaccati o venduti a peso è sufficiente calcolare il prezzo al kilo, spesso riportato in piccolo sull’etichetta del prezzo esposto sullo scaffale. Alla fine ti renderai conto che facendo la spesa al supermercato sotto casa avrai fatto un affare: i prezzi sono pressappoco uguali, eviti lo stress da parcheggi, da folla, da fila in cassa e puoi pure scegliere il carrello!

3. I centri commerciali sfruttano i dipendenti

Nota dolente, che è venuta a galla negli ultimi anni quando qualcuno si è reso conto che è inumano far lavorare la gente anche la domenica e i giorni festivi (capodanno, Pasqua, ecc.). I casi di sfruttamento dei lavoratori nei centri commerciali sono all’ordine del giorno. Basta leggere questo interessante reportage dell’Espresso per capirlo. Turni massacranti, aperture straordinarie e diminuzione del personale connesso all’aumento del carico di lavoro rendono la vita in queste moderne cattedrali un vero inferno.

Nel centro commerciale in cui sono andato per anni, per esempio, il personale è passato, in 15 anni, da 120 dipendenti a circa 40, anche a causa dell’introduzione delle casse automatiche. Oggi, su circa 20 casse, solo due sono aperte, tre o al massimo quattro nei giorni prefestivi.

La gestione prettamente familiare dei piccoli supermercati, invece, è certamente più distensiva e rispettosa dei diritti dei dipendenti. Quanti sono i piccoli supermercati aperti anche la domenica? Se lo fanno, probabilmente, è per volontà, non certo per costrizione calata da un lontano e sconosciuto CdA, con cui i dipendenti non possono assolutamente rapportarsi.

4. I centri commerciali sottraggono suolo

Un centro commerciale di medio-piccole dimensioni è grande circa 15.000 mq, ossia un ettaro e mezzo di terra. A Segrate, vicino Milano, sorgerà presto ciò che viene definito il centro commerciale più grande d’Europa, con 185.000 mq, ossia quasi 20 ettari di terra. Moltiplica 15000 mq per 1000 (il numero dei centri commerciali attivi in Italia) e capiremo l’enorme quantità di terra sottratta per creare cattedrali dello shopping di cui, onestamente, possiamo farne a meno. Perché la quantità di terreno sottratto, ossia 1500 ettari (stima al ribasso) sarebbe sufficiente, se coltivata, a sfamare per un anno una Regione grande quanto il Lazio.

Curioso che in Lombardia si saluti con entusiasmo il nuovo centro commerciale (che sorgerà, spero di no, nel 2019), elogiandone la grandezza e il lusso, mentre al contempo il lungimirante Trentino delibera lo stop definitivo a centri commerciali di grandezza superiore a 10.000 mq, per tutelare e favorire il piccolo commercio e la vocazione montana. Il Trentino non è grande quanto la Lombardia, certo, ma dimostra – nel suo piccolo – che la terra è più importante del cemento e che i borghi vanno valorizzati, anche grazie alla vivacità del commercio cittadino.

5. Muore il centro cittadino

Il vero cuore di ogni città italiana sono le attività commerciali del centro che però stanno progressivamente morendo per molte ragioni. Un interessante studio di Confcommercio mostra come dal 2008 al 2015 in Italia, soprattutto al Sud, siano sensibilmente diminuite le piccole attività commerciali del centro contestualmente alla crescita delle attività di ristorazione e del commercio ambulante. Ciò vuol dire due cose: chi prima aveva un negozio molto probabilmente ha optato per l’attività di ambulante, con meno costi (ma più fatica…) e, a causa dell’aumento dei flussi turistici in alcune zone e del conseguente aumento del costo degli affitti, gli unici a potersi permettere un locale in centro sono i gestori di bar, ristoranti e fast food. E’ il caso di Lecce, citato da Confcommercio come città col peggior rapporto popolazione/numero di negozi, ma preda dell’assalto nel centro storico di locali di street food, che esasperano i piccoli commercianti. Ma basta guardare anche il caso di Matera che, come Capitale della Cultura 2019, paradossalmente sta cacciando via attività storiche e librerie per far posto a chi può permettersi affitti da capogiro.

La causa della morìa del piccolo commercio, però, è legata principalmente all’aumento vertiginoso negli ultimi anni dei centri commerciali, che hanno inglobato al proprio interno negozi di ogni genere, costringendo talvolta i negozi in franchising, spesso presenti in centro, a trasferirsi all’interno dei centri commerciali.

Il caso di Trieste

Tuttavia i gestori dei negozi del centro cittadino, spesso aiutati da una lungimirante politica locale, hanno saputo dare una risposta alla morìa del commercio in centro, grazie a innovativi servizi al cliente, tradotti nel concetto di centro commerciale diffuso. Il caso di Trieste è interessante e unico nel suo genere, ma molte città d’Italia – forti della cooperazione tra commercianti e con l’aiuto degli amministratori locali – hanno seguito l’esempio, fornendo servizi tipici di un centro commerciale…ma nel centro città.

Del resto ciò che un centro commerciale, seppur moderno, non è in grado di offrire è proprio il rapporto diretto, e spesso amicale, tra gestore del negozio e cliente: il rispetto delle esigenze del cliente, il servizio pre e post vendita, i consigli e i favori tipici del vecchio rapporto umano basato sulla fiducia, sono elementi che nessun centro commerciale può mai mutuare e che rappresentano la vera forza del negozio sotto casa.

Tra l’altro va sfatato il mito per cui i prezzi dei negozi del centro sono più alti rispetto ai centri commerciali. Al netto di promozioni, sconti speciali e fumo negli occhi, se si guarda bene a fondo, i prezzi non sono poi così diversi, ma l’assistenza, quella sì, non ha prezzo e spesso viene servita gratis dal negoziante sotto casa, insieme agli sconti, che i clienti – in una strana logica di forti con i deboli e deboli con i forti – pretendono dal negozietto del centro ma si spaventano a chiedere nel centro commerciale, anche quando si tratta di un paio di centesimi.

Carpisa ti fa vincere uno stage aziendale!

vinci con carpisa stage aziendale

Lo ammetto, anche se le borse donna di Carpisa mi fanno cacare, ero tentato di acquistarne una solo per partecipare al grande concorso che mi avrebbe dato l’emozione di vincere nientepopodimeno che uno stage presso il loro fighissimo ufficio di Marketing&Advertising della sede di Napoli!

Wow! Non stavo nella pelle!

Poi, dopo la prima euforia mi sono un pochetto ripreso e ho iniziato a rimuginare.

“Un attimo” – ho pensato – “ma uno stage non è una forma di lavoro?”

“Eccheccapperi, certo!” – ho continuato – “è un lavoro, anche se viene spacciato per tirocinio formativo”.

“Quindi” – ho ancora continuato a pensare – “io dovrei comprare i loro prodotti per trascorrere un mese di lavoro aggratiss presso i loro uffici?”.

“Certamente”, ho nuovamente continuato a pensare, mentre l’occhio mi cadeva sul secondo punto del bando: Elabora il tuo piano di comunicazione richiesto (scopri i dettagli del progetto).

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Come fossi travolto da un insolito destino sotto il cielo settembrino nubibondo, frescuccio e odorante di mosto, ho cliccato sul link (scopri i dettagli del progetto) e ho scoperto – nei dettagli – che avrei dovuto predisporre un vero e proprio piano di comunicazione aziendale.

“Aspetta, aspetta” – ho pensato (e cacchio quanto sto pensando ultimamente! Sarà che mi fa male?) – “questi non solo mi fanno comprare una borsa brutta, mi fanno fare uno stage di un mese aggratiss, ma devo pure fare il lavoro del loro fighissimo ufficio di Marketing&Advertising perché, molto probabilmente, non c’hanno più fantasia e idee e quindi si serviranno di queste trovate markettare per infinocchiarmi, farmi lavorare aggratiss e dargli pure degli spunti di idee sotto forma di un vero e proprio piano strategico?”

Dopo tutto sto pensare mi è venuto in mente Marx e la legge dello scambio di equivalenti e ho pensato: “ok, va tutto bene, Carpisa ha solo rispettato le leggi del mercato attuale: il lavoro non conta un cazzo, devi ringraziare iddio se ti fanno entrare in azienda aggratiss, sei solo un consumatore che deve pagare pure per lavorare e le tue idee le devi regalare in cambio di acquisti di merce. Quindi compri per lavorare.

Al ché sono andato a dormire sereno, steso su una brandina sotto un cielo nubibondo rinfrescato dalle leggiadre temperature settembrine e mentre mi addormentavo pensando a quei bei tempi in cui dovevi lavorare per comprare tutto ciò che ti serviva, tutto, tranne le orrende borse donna di Carpisa.

Macron, Merkel e Tsipras: il buono, il brutto e il cattivo

macron merkel e tsipras

Se vogliamo focalizzare le questioni europee degli ultimi anni, le prime parole che vengono in mente sono: migranti e debito pubblico. E sono temi intimamente connessi, su cui l’Europa si gioca il proprio futuro e che i leader dei Paesi membri potrebbero usare come grimaldello per raddrizzare o distruggere un’Europa allo sbando, sempre più serva di Francia e Germania, che – grazie alle proprie politiche imperialistiche e liberali – usano paesi come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo come colonie in cui insediare le proprie Aziende e Multinazionali e in cui far confluire le politiche di austerità in modo da godere, invece, delle politiche di sviluppo. Detto in altri termini, il nostro Paese, insieme ai Paesi del Sud dell’Europa, è nient’altro che una colonia basata sul logiche capitalistiche: è solo grazie agli sfruttati che gli sfruttatori possono ottenere benessere economico.

Ma cosa c’entrano Macron, Tsipras e la Merkel?

Sono i nomi simbolo di queste due tematiche: migranti e debito pubblico. L’aspetto curioso è che nell’immaginario collettivo (e nei salotti della sinistra radical-chic) Macron è il buono, Tsipras è il cattivo e traditore, mentre la Merkel, burattinaia, resta oggettivamente il brutto. Ma andiamo con ordine e iniziamo dal tema migranti.

Berlusconi e Gheddafi, un accordo di partenariato utile all’Italia

Nel 2008 Berlusconi siglò un accordo con Gheddafi per ridurre il numero dei migranti che giungono sulle coste italiane e per ottenere maggiori quantità di gas e petrolio libico, in cambio della concessione di 5 miliardi di dollari da corrispondere in 20 anni, per risarcire il paese libico dall’occupazione coloniale dal 1911 al 1930.  L’accordo fu subito criticato dalla sinistra, che mal tollerava accordi di amicizia con un dittatore.

Già, un dittatore, che però seppe gestire per 40 anni le tensioni etniche e tenne la Libia fuori dalle logiche terroristiche. Nel 2011, però, la Primavera Araba, un movimento di insurrezione popolare contro le dittature mediorientali, foreggiata e alimentata dalla NATO (guarda un po’…), si estese anche in Libia e gli accordi tra Francia, Germania e USA (ma guarda un po’…) permisero la cattura di Gheddafi il quale fu brutalmente e sommariamente ucciso, probabilmente da soldati francesi o americani.

Poco dopo, com’è ovvio immaginare, la Libia sprofondò in una terribile guerra civile, che vide coinvolte 150 tribù, molte di queste in lotta tra loro, fino ad allora rimaste in pace. Da allora s’insinuarono nel territorio gruppi terroristici, i quali hanno contribuito all’acuirsi del conflitto etnico e oggi il Paese ha due governi, in lotta tra loro, uno legittimo (cioè riconosciuto dalla comunità internazionale), presieduto da Fayez Serraj e uno formato dal generale Khalifa Belqasim Haftar, che ha ottenuto la cittadinanza statunitense ed è tornato in patria per contribuire alla caduta del governo di Gheddafi e che, nel 2011, con un colpo di stato, ha preso il controllo di Tripoli. Oggi controlla la Cirenaica ed è in lotta con Serraj.

Per capire meglio la situazione, va detto che la Libia ha i più grandi giacimenti di petrolio e gas naturale dell’Africa (tra i 10 più grandi del mondo) e che è facile immaginare quanto USA, Francia e Inghilterra siano attratti da queste fonti di ricchezza. Probabilmente, però, né Obama né Sarkozy avrebbero immaginato le infauste conseguenze della loro guerra in Libia, cioè la gran confusione, le innumerevoli guerre etniche e l’impossibilità di controllare i giacimenti, tanto che Obama disse candidamente che quello della guerra in Libia fu il suo più grande errore da presidente.

Macron e gli accordi con Serraj e Haftar

Oggi arriva Macron, l’uomo nuovo, l’ex banchiere d’affari di Rothschild (banchieri e finanzieri che controllano il debito pubblico di numerosi Paesi, tra cui USA, Germania e molti Paesi europei), che proprio ieri, a Parigi, ha aperto un vertice con i due nemici: Serraj e Haftar, facendosi interlocutore per trovare un accordo tra i due. Ovviamente l’interesse di Macron è quello di mettere pace tra i due per ottenere, subito dopo, il controllo dei giacimenti di petrolio (un po’ come fece Berlusconi con Gheddafi) e per gestire i flussi migratori come meglio crede. Infatti sappiamo qual è la sua politica, lo disse pochi giorni fa al vertice di Trieste: accoglieremo solo richiedenti asilo e non “migranti economici”. Ma a decidere chi è richiedente asilo e chi migrante economico è l’Italia (e non è detto che la Francia sarà d’accordo), che dovrà continuare ad accogliere tutti i migranti e che si vede sbattere le porte in faccia dall’Austria, dalla Germania, da tutto l’Est Europa e dalla Francia, che ci nega continuamente l’accoglienza delle navi di migranti e le dirotta verso l’Italia. Macron, a dispetto delle scelte della Commissione Europea e della comunità internazionale, ma soprattutto alla faccia dell’Italia (primo e unico interlocutore con la Libia, finora), ha intrapreso rapporti privilegiati con Haftar, perché sa che è l’unico che può garantirgli sicurezza negli affari libici grazie al controllo dell’esercito, a differenza di Serraj, che gestisce solo un governo fantoccio. Ma pubblicamente Macron ha bisogno di porsi in veste diplomatica, fosse per lui farebbe accordi solo con Haftar per il controllo dei giacimenti.

La crisi greca

Nel frattempo Tsipras, che sta subendo un calo elettorale in Grecia, ha mostrato all’Europa che occorre battere i pugni sul tavolo per ottenere un minimo di considerazione. A distanza di 2 anni dal suo insediamento e nonostante le critiche ricevute dal popolo greco e da buona parte della sinistra europea per il famoso accordo del 12 luglio 2015, con il quale trovò un’intesa con i creditori europei (andando contro al referendum con il quale il 62% dei greci aveva detto NO alla ristrutturazione del debito), Tsipras ha evitato, di fatto, che la Grecia cadesse totalmente nelle mani dei tecnocrati europei e ha più volte minacciato l’Europa che la Grecia non avrebbe pagato i debiti con i creditori (i primi dei quali sono, guardacaso, i Rothschild, padri di Macron) se fossero state inasprite le regole di austerità. Tale atteggiamento non è mai sceso alla Merkel, la quale, già nel 2012, aveva provato a far trasferire completamente la sovranità monetaria dalla Grecia a Bruxelles. Le innumerevoli minacce di far entrare in default la Grecia, sempre quasi concretizzate e successivamente smentite, non hanno mai spaventato il povero e impopolare Tsipras che, anzi, l’8 aprile 2015 volò a Mosca per incontrarsi con Putin e definire un piano di partenariato. E’ interessante riportare le parole del Ministro Panagiotis Lafazanis dopo l’incontro di Tsipras con Putin “potrà segnare una nuova epoca nei rapporti energetici, economici e politici di entrambe le nazioni. Un accordo greco – russo potrebbe anche aiutare la Grecia nei suoi negoziati con l’UE, in un momento in cui l’UE si rapporta con il nuovo governo greco con incredibile pregiudizio, come se la Grecia fosse una semi-colonia. Le istituzioni europee, continuano a incarnare la linea dura della CDU tedesca nei confronti della Grecia, esigendo “riforme” di piena austerità, mentre la stampa anglo-tedesca conduce una campagna affinché Tsipras liberi il Parlamento greco dell’ala sinistra di Syriza e la sostituisca con rappresentanti dell’opposizione!”.

Ora, tale prospettiva fece rizzare i capelli a Merkel, Hollande e Obama, tanto che ripresero gli accordi tra Grecia ed Europa, formalmente per rivedere le politiche greche volte a ripagare il debito pubblico, ma di fatto volte a capire se Tsipras avrebbe rotto gli equilibri europei alleandosi con Putin. Tant’è che il furbo leader greco si presenta oggi, a distanza di soli due anni, in posizione di relativa parità con Francia e Germania (e non, come il suo collega italiano Gentiloni, in posizione di minorità nei confronti di Francia, in tema di migranti, e Germania in tema di debito pubblico). Tsipras, in una recente intervista al Guardian, ha dichiarato che il peggio è alle spalle e che la crescita in Grecia si attesta, nel 2017, intorno al 2%. La stima è prudenziale, visto che la Commissione europea è ancora incerta circa l’esecuzione dell’accordo di salvataggio internazionale, che prevede, in caso di successo, un piano di salvataggio di 86 miliardi di euro. Ma la verità di quest’incertezza è che la Merkel non vuole essere disturbata fino alle prossime elezioni di settembre. Dopo settembre si tornerà a parlare di crisi greca. Tsipras è riuscito comunque ad ottenere credibilità internazionale per aver ottenuto un avanzo primario del 3% (l’avanzo primario è la differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi), nonostante le politiche interne di austerity siano state nettamente inferiori a quelle imposte dall’UE e dal Fondo internazionale. Probabilmente Tsipras pagherà lo scotto degli accordi con l’UE perdendo le prossime elezioni, ma lui rappresenta la differenza con Macron, cioè la differenza tra forma e sostanza. In altre parole la differenza tra chi lavora per il proprio popolo, nella consapevolezza dell’impossibilità di uscire dall’Europa (almeno per ora), ma risulta inviso alla popolazione e chi invece lavora per la finanza europea, ma gode di prestigio e credibilità.

Francia e Germania colonizzano tutto

La Germania della Merkel è la principale esportatrice di…debito pubblico! Ebbene sì, la Germania ha circa 1300 miliardi di debito acquistato da stranieri, mentre il debito interno è del 15%, quindi ben contenuto nei limiti europei. E come ha fatto? Guarda caso approfittando della crisi greca e grazie alla partecipazione dei grandi gruppi industriali e finanziari tedeschi in molti paesi extra-UE. Con questi soldi e approfittando della crisi greca, la Germania ha praticamente acquistato tutta la Grecia (la compagnia telefonica Ote, i principali scali aeroportuali, diversi porti turistici, aziende farmaceutiche, chimiche, meccaniche ed elettroniche) al pari della Francia, che non solo controlla numerose attività nel mondo, ma ha anche approfittato della crisi italiana per acquistare banche (CariParma e Bnl), assicurazioni (Nuova Tirrenia), ma non solo: Galbani, la grande distribuzione (Carrefour, Castorama, Auchan e Leroy-Merlin sono francesi), la moda, con Lvmh che detiene Bulgari, Fendi e Loro Piana, mentre Kering ha acquistato Bottega Veneta, Pomellato, Sergio Rossi, Brioni e Gucci. Ma l’elenco è lungo e comprende anche aziende di bici da corsa (Pinarello) e altre piccole e medie aziende del manifatturiero.

In tutto questo desolante quadro i premier che hanno attraversato la crisi economica, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni si sono dimostrati incapaci di fare la voce grossa, anzi, servi della svendita dell’Italia in Europa, hanno messo Tsipras all’angolo e oggi inneggiano a Macron, come il grande leader che valorizzerà l’Europa. E questo servilismo ci ha portati non solo a svendere tutto, anche le imprese fiore all’occhiello d’Italia, ma ad essere trattati come riserva di migranti, senza speranza di poterli ripartire in Europa e senza ricevere in cambio nemmeno un soldo. Quindi a noi i problemi, a loro i soldi. Se questa non è colonizzazione…