Alcoltest. Facciamo chiarezza

alcoltest

Premesso che non sopporto chi si mette alla guida dopo essersi ubriacato, perché, come sappiamo e come la cronaca purtroppo ci racconta ormai ogni fine settimana (e durante l’estate quasi ogni giorno), sono tanti – troppi – gli incidenti provocati dalla guida in stato d’ebrezza, per cui l’alcoltest è una naturale conseguenza.

Però non possiamo sottacere nemmeno che molto spesso è facile superare il limite legale di 0,5 grammi/litro di alcool nel sangue pur essendo consapevoli di essere perfettamente lucidi. Difatti chi di noi non ha mai bevuto un paio di birre o un paio di bicchieri di buon vino rosso per poi mettersi alla guida? Sapevamo benissimo di essere in grado di guidare, ma forse non eravamo perfettamente consapevoli del fatto che quelle due birrette o quei deliziosi bicchierini di vino ci avrebbero fatto superare il limite legale, con conseguenze spesso disastrose in termini economici e di normale vita quotidiana. Già, perché vedersi comminare un verbale (spesso) molto salato o vedersi ritirare la patente pregiudica non solo l’aspetto economico, ma anche la propria autonomia.

Cosa dice la legge sull’alcoltest?

Gli articoli 186 e 186/bis del Codice della Strada stabiliscono che, in caso di superamento del tasso di alcolemia di 0,5 g/litro si può entrare nel penale, ma con sanzioni diverse in base alla quantità di alcool nel sangue:

  • Guida con tasso alcolemico tra 0,5 e 0,8 g/l: ammenda da 500 a 2000 euro e sospensione della patente da 3 a 6 mesi.
  • Guida con tasso alcolemico tra 0,8 e 1,5 g/l: ammenda da 800 a 3200 euro e arresto fino a 6 mesi. In più è prevista la sospensione della patente da 6 mesi ad 1 anno.
  • Guida con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l: ammenda da 1500 a 6000 euro; arresto da 6 mesi ad un anno; sospensione della patente da 1 a 2 anni; sequestro preventivo del veicolo; confisca del veicolo (salvo che appartenga a persona estranea al reato).
  • In caso di recidiva biennale (cioè se la stessa persona compie più violazioni nel corso di un biennio) la patente di guida è sempre revocata. La revoca avviene anche quando il conducente, con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l o sotto l’influenza di droghe, ha provocato un incidente.

E se il conducente si rifiuta di sottoporsi all’accertamento alcolimetrico, ossia all’alcoltest?

Anche il rifiuto di sottoporsi all’accertamento è considerato reato ed è punito con la perdita di 10 punti della patente di guida, con l’ammenda da 800 a 3200 euro e con l’arresto fino a 6 mesi. In più, anche in questo caso, è prevista la sospensione della patente da 6 mesi ad 1 anno.
Inoltre va detto che per i neopatentati (primi 3 anni dal conseguimento) e per i conducenti di età inferiore a 21 anni c’è il divieto assoluto di assumere alcolici (art. 186/bis CdS).
Inoltre, per poter riavere la patente, occorre effettuare delle visite mediche e delle analisi per dimostrare che il conducente non è un alcolista abituale. Oltre ai costi elevati delle analisi (200-300 euro), vi è anche la beffa di doversi sottoporre a visite presso la Commissione Medica provinciale, ossia i SERT, dove – a seguito di numerose visite – viene rilasciato (non in tutti i casi…) un certificato che dimostra l’idoneità a riottenere la patente di guida.

Come faccio a sapere se rientro nei limiti consentiti?

Non è facile saperlo, perché tutto dipende da molti fattori, quali sesso, peso, capacità di assorbimento dell’alcool da parte del fegato, metabolismo, eventuale presenza di patologie, ecc. Tuttavia il Ministero della Salute ha più volte emanato delle linee guida per capire – in linea di massima – qual è la capacità di assorbimento dell’alcool e, quindi, la presenza dello stesso nel sangue. Di seguito una tabella riassuntiva che, però, va ribadito, è assolutamente generica. Del resto molti locali notturni si sono attrezzati, negli anni, con test alcolemici o gratuiti o a pagamento, che possono dare risultati più precisi.

tabella_alcolemica

Limiti alcolemici in Europa

In Italia, come detto, il limite è di 0,5 grammi/litro di alcool nel sangue, sostanzialmente nella media europea. I Paesi che hanno limiti più alti sono Malta e Inghilterra (0,8), mentre i Paesi meno tolleranti sono quelli dell’Est Europa (0,0) e la Svezia (0,2). La tabella seguente riassume i limiti. Nella prima colonna sono rappresentati i limiti generici, nella seconda quelli per chi esercita professionalmente l’attività di trasporto di persone o cose e nella terza quelli per i neopatentati.

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La Sentenza n. 567/17 del GdP di Reggio Calabria sulla nullità dell’alcoltest

La nullità dell’Alcoltest in caso di mancata indicazione della facoltà di farsi assistere da un legale di fiducia

Prima di commentare la recentissima Sentenza in oggetto tengo a precisare che questi non devono essere considerati degli escamotage per evitare le conseguenze dell’alcoltest, ma mere affermazioni di diritto, per cui il rispetto della Legge deve valere sia per i cittadini che per gli operatori di Pubblica Sicurezza.

La Sentenza (depositata in cancelleria il 30 giugno 2017) muove dal fatto che a un giovane reggino fu comminato nel 2016 un verbale di infrazione al CdS e ritirata la patente per presunta positività all’alcoltest. Il giovane, tramite l’avvocato Giuseppe Ravenda (che ringrazio per aver pubblicato la sentenza sul sito di Studio Cataldi) propose ricorso al GdP avverso al verbale di accertamento e al decreto prefettizio di ritiro della patente. Il Giudice, richiamando due note Sentenze della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 2/2015 e n. 5396/2015) ha stabilito che la mancata indicazione al presunto trasgressore (sia a voce che sul relativo verbale) della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia comporta la nullità degli accertamenti. Quindi, dato che l’accertamento del tasso alcolemico costituisce un atto di polizia giudiziaria urgente e indifferibile, durante il suo svolgimento l’indagato ha diritto di farsi assistere da un difensore di fiducia e di essere avvisato di tale facoltà, in base all’art. 114 disp. att. cpp.

La mancanza di tale avviso, quindi, produce la nullità degli atti (verbale di accertamento e decreto prefettizio).

L’affermazione del diritto all’assistenza legale è importante perché tali accertamenti non sono da considerarsi meri atti amministrativi (come può essere un verbale per eccesso di velocità), ma sono prodromici ad un’eventuale azione penale, quindi il diritto di difesa si estende, ovviamente, al momento in cui iniziano tali atti di indagine.

Multa per grattino scaduto? Non va pagata

parcheggi strisce blu

Sono tante le Amministrazioni Comunali che scelgono di istituire i parcheggi a pagamento, ossia le cosiddette strisce blu, nelle proprie città, soprattutto nelle città turistiche, in quanto rappresentano un facile guadagno per le sempre più povere casse comunali. Ma dato che si tratta per l’appunto di soldi facili e veloci, molti Comuni tendono ad abusare dello strumento, forti anche del fatto che il Codice della Strada, su questi temi, è lacunoso e offre svariati spunti interpretativi. E’ per questo che ho deciso di scrivere quest’articolo, nonostante il problema sia annoso e affrontato lungamente sulle riviste giuridiche, ma spesso con linguaggio tecnico e di difficile comprensione da parte del grande pubblico. Quindi voglio affrontarlo con un linguaggio (spero) semplice e voglio che la gente sappia tutelarsi da quest’ennesimo balzello.

Le tre tecniche che i Comuni usano per i parcheggi a pagamento

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Ci sono tre modi per cui un Comune può massimizzare le entrate derivanti dai parcheggi a pagamento. Uno è legittimo (anche se ingiusto), l’altro rasenta l’illegittimità mentre l’ultimo è illegale.

Determinare tariffe esose dei parcheggi

Un Comune è libero di scegliere le tariffe dei parcheggi a pagamento, sulla base della classificazione delle aree urbane (centro storico, semi-centro, area di pregio, area industriale, ecc.) coerentemente con le tabelle pubblicate dal Ministero, e quindi può stabilire, per esempio, che nel centro storico si paga 1,50 €/ora, mentre nel semi-centro si paga 0,90 €/ora e che nelle zone industriali gli stalli di parcheggio siano liberi.

Data questa libertà dei Comuni nel determinare le tariffe, molte zone a vocazione turistica scelgono di applicare tariffe alte (per esempio in Costiera Amalfitana o a Portofino si arriva a pagare anche 10,00 € l’ora) o di estendere la durata del parcheggio a pagamento a tutto il giorno (la maggior parte dei Comuni fa pagare nelle ore mattutine e pomeridiane). Questo è un comportamento che può sembrare ingiusto ed esoso, ma rientra nella discrezionalità amministrativa e nei confini di legge.

Estendere le strisce blu in ogni zona del centro e del semi-centro

Alcuni Comuni, per ottenere più entrate, decidono di estendere le strisce blu in tutte le zone del centro e in moltissime zone del semi-centro, quindi trovare, in queste città, parcheggi liberi (e non soggetti a durata limitata della sosta) è impossibile. Questo è un comportamento che rasenta l’illegalità. La rasenta, però. Perché l’art. 7 comma 8 del Codice della Strada dice che se i Comuni decidono di adottare i parcheggi a pagamento, devono prevedere, nelle vicinanze, anche un numero adeguato di parcheggi liberi (e privi di controllo di durata della sosta, cioè non soggetti a disco orario). La norma è chiara, però prosegue dicendo che quest’obbligo non sussiste per alcune zone di pregio o di particolare rilevanza urbanistica, opportunamente individuate e delimitate dalla giunta nelle quali sussistono esigenze e condizioni particolari di traffico. Dato che la norma è molto vaga e lascia ampio spazio alla giunta comunale di decidere se una certa zona è o non è di pregio oppure è o non è di particolare rilevanza urbanistica, allora è chiaro che questi Comuni diranno che tutto il centro è di particolare rilevanza, quindi escludendo ogni sorta di parcheggio libero! Ma quest’atteggiamento è stato censurato più volte dalla Corte di Cassazione, per cui potrebbe rappresentare un valido motivo di ricorso (Vedi Cass. civ. Sez. II, 20-01-2010, n. 927; Cass. civ. Sez. I, 07/03/2007, n. 5277; Cass. civ. sez. VI-2, ordinanza 03/09/2014 n. 18575).

Fare una multa per ticket scaduto

verbale

Qui viene il bello. Quando torni alla macchina e trovi una multa per “grattino” scaduto, sappi che quella multa è illegale, completamente. Spesso il Ministero dei Trasporti si è espresso sul tema, dicendo che i Comuni non possono sanzionare gli automobilisti a cui è scaduto il ticket di pagamento della sosta. Punto. Lo ha ribadito più volte, per ultimo con nota n. 53284 del 12 maggio 2015 in cui ha ribadito che nella sosta limitata o regolamentata è possibile incorrere nelle seguenti violazioni che sono sanzionate dal Codice della Strada:

  1. Ove non venga posto in funzione il dispositivo della sosta, ovvero non venga indicato l’orario di inizio della sosta, si incorre nella sanzione prevista dall’art. 157 co. 8 del CDS;
  2. Ove la sosta si protragga oltre l’orario per il quale è stata corrisposta la tariffa, si incorre nella sanzione prevista dal comma 15 dell’art. 7 del CDS;
  3. Con riferimento inoltre alla sola protrazione della violazione, quale requisito costitutivo della fattispecie illecita, si incorre nella sanzione prevista dal comma 15 dell’art. 7 del CDS in presenza di una reiterazione della condotta.

Quindi il protrarsi della sosta oltre il termine per il quale è stato effettuato il pagamento non si sostanzia in una violazione di obblighi previsti dal Codice, ma si configura come una inadempienza contrattuale che comporta per l’Amministrazione creditrice un recupero delle tariffe non riscosse previa le procedure coattive previste ex lege e l’eventuale applicazione di una penale secondo quanto previsto nella regolamentazione ex art. 7 comma 1, lett. f).

Cosa significa? Che il Comune dovrà richiedere solo il pagamento del residuo ed applicare una penale solo se è stata determinata dalla Giunta. Quindi facciamo un esempio. La Giunta comunale di Roccapriora delibera che per ogni ora dal termine del pagamento della sosta si dovrà applicare una penale di 3,00 € più il costo del parcheggio, pari a 1,00 €/ora. Io vado con la mia pandina a Roccapriora, ma c’ho solo 50 centesimi e quindi pago il parcheggio per mezz’ora. Vado a fare un giro e poi trovo un amico che non vedo da tanto tempo. Tra n’aperitivo e l’altro ho passato con lui 3 ore. Alla fine del bel pomeriggio torno alla macchina e non troverò una multa, bensì un avviso bonario che mi inviterà a pagare 3,50 euro di parcheggio scaduto più 9,00 € di penale. Questa modalità è legale, la multa, invece no.

Quante città si sono adeguate?

ausiliario traffico parcheggi

Nel 2015 l’unico Comune che ha contestato le note ministeriali è stato il Comune di Lecce, tutti gli altri si sono adeguati. Ma attenzione! Molti Comuni, pur essendosi adeguati alle direttive ministeriali, continuano a fare multe per grattino scaduto, e sono tutte multe contestabili. Inoltre sono pochissimi i Comuni che hanno deliberato in materia di recupero del residuo e applicazione dell’eventuale penale. Se manca la delibera di Giunta, non potranno recuperare alcuna somma.

Come posso tutelarmi?

ricorso prefettura parcheggi a pagamento

L’unico modo per tutelarti è di proporre ricorso al Prefetto territorialmente competente (quindi al Prefetto della tua Provincia di residenza), perché è gratuito e si può inviare anche a mezzo PEC (risparmiando pure sul costo della raccomandata A/R). Sconsiglio il ricorso al Giudice di Pace, perché le spese di giustizia superano di gran lunga l’ammontare della multa. Il Prefetto di solito accoglie questo tipo di ricorsi (tranne se non sono scritti con i piedi o mancano gli elementi minimi di un ricorso amministrativo), perché è un rappresentante del Governo e quindi deve adeguarsi alle decisioni ministeriali.

E’ vero che da oggi se paghi la multa entro 5 giorni dalla notifica del verbale hai diritto a uno sconto del 30%, ma è anche vero che sono tante le multe ingiuste che vengono fatte ogni giorno per ticket scaduto e sono tutte illegittime.

Da sanzione amministrativa a inadempimento contrattuale

Ci sarebbe da argomentare su un altro punto. Se è vero che il mancato rinnovo del pagamento non è sanzionabile è anche vero che diventa un inadempimento contrattuale, quindi la società a cui il Comune ha affidato il servizio può intimare il pagamento attraverso le ordinarie procedure (avviso bonario, messa in mora, citazione a giudizio, ecc.) e può decidere, insieme al Comune, importi alti a titolo di penali. Ciò comporterebbe che l’ammontare della somma richiesta potrebbe essere più alta rispetto alla multa. Ma staremo a vedere, perché ad oggi, a due anni dalla pubblicazione della nota interpretativa, solo pochi Comuni si sono adeguati e quindi ancora non sappiamo come si evolverà la vicenda. Però una cosa la sappiamo: il Comune e la Società partecipata dovranno dimostrare esattamente la durata della sosta, da quando scade il ticket fin quando l’auto non viene spostata dallo stallo blu. E siamo sicuri che questa prova sarà fornita? L’unica prova che possa dar vita alla richiesta integrativa e all’eventuale penale (“eventuale” si fa per dire, lo dice la legge, ma tutti i Comuni la prevederanno…). Perché se è vero che noi cittadini dobbiamo ubbidire alla legge, è anche vero che le Amministrazioni devono fare altrettanto.

Conclusioni e curiosità sui proventi dei parcheggi a pagamento

A breve ho intenzione di pubblicare un vademecum e un modello di ricorso amministrativo, in modo da facilitare la presentazione di un ricorso al Prefetto. Ce ne sono tanti sul web, ma molti modelli, secondo me, lasciano a desiderare.

Infine, una curiosità. L’art. 7 comma 7 del Codice della Strada dice che i proventi dei parcheggi a pagamento sono destinati alla installazione, costruzione e gestione di parcheggi in superficie, sopraelevati o sotterranei, e al loro miglioramento nonché a interventi per il finanziamento del trasporto pubblico locale e per migliorare la mobilità urbana. Ora, secondo voi, tutti i soldi che entrano ai comuni dai parcheggi a pagamento vengono davvero usati per questo? No, perché altrimenti dovremmo avere strade in marmo di Carrara, parcheggi con strisce oro 24 carati e autobus volanti a energia solare. Invece come vengono usati questi soldi? Chiaro: sono i profitti delle Società partecipate che gestiscono i parcheggi a pagamento. Di ciò dobbiamo ringraziare il prode Prodi e il mitico D’Alema, che hanno voluto privatizzare tutto.

Roma: era mafia o non era mafia?

mafia capitale sentenza

Ieri, 20 luglio, nell’aula bunker di Rebibbia, il presidente della X sezione penale del Tribunale di Roma Rosaria Ianniello, dopo 3 ore e mezza di camera di consiglio, ha pronunciato la sentenza che chiude il primo capitolo giudiziario di Mafia capitale.

I fatti relativi a mafia capitale

Secondo la Procura di Roma, Massimo Carminati (ex terrorista nero e membro della banda della magliana) e altre 44 persone sono accusate di aver creato un’organizzazione mafiosa per controllare e manipolare l’assegnazione di appalti pubblici e la gestione dei migranti, tramite una serie di legami tra associazioni di stampo mafioso, affaristi, funzionari pubblici e politici.

Nello specifico l’ex capo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine avrebbe, in qualità di componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, gestito i flussi dei richiedenti asilo, dirottandoli verso la Capitale, per far guadagnare il sodalizio di mafia capitale, in particolare le cooperative di Salvatore Buzzi, che si occupavano della gestione dei migranti. Solo con la gestione di uno dei campi rom di Roma, il sodalizio avrebbe guadagnato più di 2 milioni di euro.

Ma non basta, perché l’imputato Franco Testa, Ex cda Enav, si occupava di proporre “amici” nei posti più importanti dell’amministrazione comunale, mentre Franco Panzironi, l’ex amministratore di Ama, si occupava di gestire i proventi illeciti, inoltre Luca Gramazio, ex consigliere prima del Comune di Roma (capogruppo PD) e poi della Regione Lazio, attraverso una serie di atti amministrativi, favoriva i componenti dell’associazione criminale di mafia capitale. Questa, a grandi linee, è la ricostruzione dei fatti compiuta dalla Procura della Repubblica di Roma.

Mafia capitale era associazione a delinquere semplice

Da quanto emerge dal dispositivo della Sentenza (in attesa delle motivazioni) a Roma, fino al 2014, hanno agito due associazioni per delinquere, non di stampo mafioso: una che fa capo a Massimo Carminati, Riccardo Brugia, Matteo Calvio e Roberto Lacopo; l’altra riconducibile agli stessi Brugia e Carminati insieme con Salvatore Buzzi, Claudio Caldarelli, Nadia Cerrito, Luca Gramazio, Franco Panzironi e altri. Quindi, nonostante le pene severe inflitte a numerosi componenti dell’associazione a delinquere, i giudici non hanno ritenuto di applicare la norma dell’art. 416/bis, “associazione di tipo mafioso”.

La norma

Ma cosa dice la norma dell’art. 416/bis?

Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni.
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma.
L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono e furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. [Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare].
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

Quindi i criteri per riconoscere un’associazione di tipo mafioso sono:

una pluralità di figure criminose

di carattere alternativo ed autonome, ognuna delle quali deve possedere la consapevolezza di contribuire con la propria condotta alla sussistenza dell’associazione e al raggiungimento dei suoi obiettivi sia personali che di gruppo;

una forma organizzativa stabile e continuativa

non per forza di lunga durata e non necessariamente immutabile.

un ruolo apicale

(o una posizione dirigenziale) di uno dei membri.

una carica intimidatrice

idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengono a contatto con l’organizzazione, nonché concreta (e non astrattamente esercitata) che si sostanzia in violenze, anche di carattere psicologico e atti tesi a costringere qualcuno ad eseguire un’azione pur contro la sua volontà, non per forza attraverso l’uso delle armi.

l’assoggettamento

cioè l’attività di coercizione psichica (e talvolta fisica) finalizzata a creare una percezione interiore dell’inferiorità del soggetto a cui sono rivolte le intimidazioni ed a sottomettere quest’ultimo alla volontà di chi intimidisce, generando un concreto timore per la propria incolumità e per quella della propria famiglia qualora il soggetto intimidito non acconsenta alla volontà del soggetto che genera le intimidazioni.

l’omertà

consiste nell’atteggiamento tenuto dal soggetto intimidito, in conseguenza dell’assoggettamento, e cioè il rifiuto di collaborare con le Autorità nella repressione del sodalizio criminale.

Le sentenze

La prima e più importante Sentenza della Corte di Cassazione sul tema è la n. 1709/1974 per cui è associazione mafiosa “ogni raggruppamento di persone che, con mezzi criminosi, si proponga di assumere o mantenere il controllo di zone, gruppi o attività produttive attraverso l’intimidazione sistematica e l’infiltrazione di propri membri in modo da creare una situazione di assoggettamento e di omertà che renda impossibili o altamente difficili le normali forme di intervento punitivo dello Stato”. Tale Sentenza precede di 10 anni la discussione politica sul tema e pone le basi per il successivo inserimento dell’art. 416/bis nel corpus del Codice Penale.

Si è a lungo dibattuto se per la configurazione dell’associazione mafiosa occorra o meno un legame con le consorterie tradizionali (cosa nostra, ndrangheta, camorra) e la Giurisprudenza di legittimità ha chiarito che anche se ci fosse un sodalizio con la mafia organizzata, non è detto che la nuova organizzazione sia da considerarsi associazione mafiosa, perché, affinché avvenga ciò, occorre che la nuova consorteria mutui il metodo mafioso e operi con un’effettiva capacità di intimidazione, non rilevando penalmente il riconoscimento o meno da parte della “casa madre” (Cass. Pen., sent. n. 13635/2012).

Difatti, perché si parli di associazione mafiosa, occorre che “gli elementi qualificanti del sodalizio criminoso riferito dall’art. 416/bis attengono essenzialmente al modus operandi dell’associazione e alla specificità del bene giuridico leso. Il primo consiste nell’avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell’organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell’ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. Il secondo consiste nel fatto che, attraverso lo strumento intimidatorio, l’associazione si assicura la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo oltre che per l’ordine pubblico in genere, anche per l’ordine pubblico economico. La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forma intimidatrice dell’associazione, e che se è invece introdotta da altri fattori, si avrà l’associazione per delinquere, ex art. 416 c.p., non quella di tipo mafioso. Ne discende che l’associazione di tipo mafioso si caratterizzi non tanto per la sua struttura, quanto per una certa intensità e stabilità del vincolo sodale, perché solo in relazione ad un forte vincolo può determinarsi quell’efficacia intimidatrice, che scaturisce dalla consapevolezza dell’esistenza stessa dell’associazione” (Cass. Pen., Sent. n. 16464/1990 e succ.).

Di Sentenze del genere ce ne sono a centinaia e, al netto di numerosi contrasti giurisprudenziali sulle forme, il ruolo soggettivo e sulle finalità dei sodalizi criminali, la giurisprudenza è ormai concorde nell’affermare che l’associazione di tipo mafioso si caratterizza quando sono presenti i sei criteri citati sopra, in particolare la carica intimidatrice, l’assoggettamento e l’omertà.

Conclusioni

Qualsiasi giurista ci dirà che nel diritto civile il fatto è certo ma la norma è incerta (e va ricercata), mentre nel diritto penale avviene l’esatto contrario: la norma è certa, è il fatto, invece, ad essere incerto (e va accertato). Quindi è certo che, nel caso in specie, l’art. 416/bis detta regole chiare su come identificare il sodalizio mafioso, interpretate e chiarite negli anni, ancor di più, dalla Giurisprudenza di merito e di legittimità, ma i fatti, così come accertati dalla Procura, non sempre sono chiaramente identificati e analizzati. Ecco perché, prima di commentare sull’esistenza o meno della “mafia” a Roma, è necessario leggere le motivazioni della Sentenza su mafia capitale e non uno striminzito dispositivo (a proposito, chi, tra gli innumerevoli commentatori dell’ultim’ora ha letto il dispositivo della Sentenza? Credo nessuno…), e credo che ciò non basti, perché per mettere il punto sulla questione ho paura che dovremmo attendere la Sentenza d’appello e, sicuramente, quella della Cassazione (mi auguro a Sezioni Unite, in modo da evitare ulteriori contrasti giurisprudenziali).

Perché siamo certi che i soggetti condannati dal Tribunale di Roma abbiano usato intimidazioni e si siano avvalsi di un’aura diffusa di omertà? E’ certo che abbiano approfittato dello stato di assoggettamento di coloro che si trovavano in contatto con il sodalizio criminale piuttosto che di uno stato di corruzione volontaria e sistematica? Sappiamo per certo che l’organizzazione era stabile e deteneva il controllo delle attività economiche servendosi della forza intimidatrice o più che altro della propensione ad elargire e far ottenere facili e ingiusti profitti?

Tutte queste domande avranno una risposta e mi auguro che i commentatori leggano la Sentenza con la stessa solerzia con cui sentenziano (è il caso di dirlo): è mafia capitale! No, non è mafia capitale!

Lo Stato privato

romano prodi privatizzazioni

La crisi economica scoppiata nel biennio 2006-2008 ha messo in luce le debolezze del Sistema-Italia e la capacità delle Istituzioni di far fronte all’indebolimento economico della classe media, ormai pressoché scomparsa. La crisi ha rappresentato la batosta finale, ma i presupposti c’erano ed erano sotto gli occhi di tutti: le privatizzazioni.

Quando uno Stato detiene il controllo dei servizi fondamentali e attua politiche tese a calmierare i prezzi dei servizi offerti, anche le peggiori crisi economiche possono essere superate, perché i cittadini possono comunque sempre contare su uno Stato Sociale che li tutela nei bisogni primari e nei servizi essenziali quali acqua, sanità, trasporti, energia, gas, ecc.

L’Italia, invece, ha scelto la strada dello smantellamento dello Stato Sociale e della privatizzazione di tutto, anche di ciò che compete ad uno Stato, come la Sanità e la Giustizia. Ma perché oggi ci troviamo a pagare (salato) qualsiasi servizio pubblico e a vederci negato persino l’accesso alla Giustizia e ai servizi minimi essenziali?

Facciamo un salto indietro.

La Storia delle privatizzazioni

Siamo agli inizi degli anni Novanta. Uno spudorato Romano Prodi, presidente dell’IRI, inizia lo smantellamento di un Ente che contava 500.000 dipendenti. Dovete sapere che l’IRI gestiva Alitalia, Autostrade, Finmeccanica, Fincantieri e Aeroporti di Roma, i quali saranno poi immessi sul mercato ad uno ad uno. L’IRI, ormai svuotato di ogni suo ramo, verrà messo in liquidazione il 28 giugno 2000.

Ora sapete perché Alitalia è in crisi (ma viene comunque “salvata” da contributi pubblici) o perché il pedaggio costa così tanto (ma le strade sono cantieri eterni): vengono gestiti in modo privato, ma – dato che le gestioni sono fallimentari – le SpA vengono poi aiutate dallo Stato.

Dopo è la volta del Credit (Credito Italiano), che godeva di ottima salute, dell’IMI e della Banca Commerciale Italiana (Comit), tutto tra il 1993 e il 1994. L’idea di Prodi era quella di “smantellare il Paese pezzo per pezzo” (così disse il 17 gennaio 1998 in un celebre discorso in provincia di Lecce). E infatti ci è riuscito. Nel luglio 1996 iniziano le prime privatizzazione dei servizi pubblici locali grazie alla costituzione di società per azioni in cui i Comuni possono partecipare solo con quote minoritarie.

Il 16 aprile 1997 viene privatizzato l’Istituto San Paolo di Torino.

Nel 1999 Massimo D’Alema prosegue il disegno staticida di Prodi approvando un disegno di legge che privatizza definitivamente i servizi pubblici locali. Tutte le aziende municipalizzate che erogano in regime di monopolio acqua, gas, elettricità, trasporti urbani, rifiuti urbani vengono trasformate in imprese private.

Nel gennaio 1998 il Parlamento liberalizza il commercio abolendo licenze e regole sugli orari. Poi è la volta della liberalizzazione della telefonia fissa (febbraio 1998) e dell’energia elettrica, fino alla privatizzazione dell’ENEL (1999).

A maggio del 2000 si provvede a liberalizzare il commercio del gas.

Poi è la volta delle TV. La legge Maccanico apre alla privatizzazione della RAI e di fatto salva le reti televisive di Berlusconi.

Infine, sempre nel 1998 le Ferrovie dello Stato vengono smembrate per poi costituire RFI (Rete ferroviaria italiana, pubblica) e Trenitalia (privata). Stessa sorte toccherà alle Poste, che diventeranno SpA.
D’Alema, non contento, si sbarazza anche di molti beni pubblici, tra cui il Foro italico e lo Stadio olimpico, passati nelle mani dei privati.

Le privatizzazioni così realizzate non si avvicinano nemmeno minimamente a quelle poste in essere dal governo Thatcher e dal governo Blair in Inghilterra (criticati per le politiche eccessivamente liberal). Tutto è in nome di un alleggerimento dello Stato che – invece – a distanza di 20 anni non è avvenuto e che, anzi, è sempre più indebitato ma privo degli Enti che, invece, avrebbero garantito ai cittadini molteplici oneri economici in meno. Insomma, se avessimo avuto ancora le Poste, i trasporti, l’energia, il gas e i servizi comunali ancora pubblici, non pagheremmo le tariffe esose che paghiamo oggi.

La Sanità privata e gli Ospedali chiusi

Il sistema sanitario nazionale, così com’è impostato oggi, non può essere soggetto a privatizzazioni, ma dato che il disegno di alleggerimento dello Stato è ancora in corso (prova ne è il fatto che Prodi, D’Alema e Bersani non sono ancora stati cacciati a calci nel sedere dalla politica), si deve comunque ridurre la spesa. E come? Semplice, costringendo le Regioni (oppure favorendo le Regioni) a chiudere gli Ospedali, nel nome dell’ottimizzazione delle risorse. Ecco che numerosi centri ospedalieri, anche di recente costruzione, vengono o chiusi o trasformati in centri di lungo degenza oppure in laboratori di analisi gestiti privatamente.

Se poi ci metti le liste d’attesa lunghissime, che arrivano anche a un anno, e i medici che ti “suggeriscono” la visita privata o l’analisi di laboratorio con pochi giorni d’attesa, allora la privatizzazione della sanità è un dato di fatto.

privatizzazioni sanità
Gli ospedali chiusi dal 2013. Articolo de La Stampa

La giustizia privata. Tribunali periferici chiusi. Mediazione

Nemmeno la Giustizia è esente da questo percorso di alleggerimento e privatizzazioni. La riforma della geografia giudiziaria, iniziata nel 2011, ha portato alla soppressione di 30 tribunali, alla chiusura dei tribunali periferici e a un drastico taglio degli Uffici del Giudice di Pace. Oggi è in discussione anche la chiusura dei Tribunali per i minorenni e del taglio di competenze per i Giudici di Pace. A questo disegno giustizicida va aggiunto un altro tassello: la creazione e l’incentivazione della mediazione, addirittura obbligatoria per legge per molte materie (persino per materia di risarcimento danni da circolazione stradale, cioè il 50% del carico giudiziario), ossia una branca delle privatizzazioni.

Cos’è la mediazione? è l’attività professionale svolta da un privato, in veste di arbitro terzo e imparziale, che cerca di far trovare un accordo tra le parti in lite. Insomma, il mediatore è un privato e la mediazione è una forma (oggi obbligatoria per molte materie) di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziaria. Inutile dire che in questi anni le Agenzie di mediazione si sono moltiplicate a dismisura e che spesso il costo dell’accesso alla giustizia è più elevato rispetto alla mediazione. Questa, dunque, è una forma sottile di smantellamento del sistema giudiziario in Italia che, unita alla chiusura dei tribunali e allo svuotamento di funzioni del Giudice di Pace, mostra apertamente quale strada sta percorrendo lo Stato italiano in materia di giustizia.

I Trasporti privati

privatizzazioni trasporti

Se prima, per andare da Torino a Taranto, pagavi 40.000 lire oppure 25,00 € nei primi anni Duemila, oggi con quella cifra non esci fuori regione. E’ colpa dell’euro? No, è merito delle privatizzazioni. Trenitalia è il soggetto privato (ma aiutato dallo Stato quando i bilanci sono in passivo) che gestisce i trasporti su rotaia. Le rotaie sono ancora di proprietà degli Enti Pubblici, ma i treni non più. Le liberalizzazioni servivano a creare concorrenza, ma a distanza di 20 anni quanti imprenditori hanno investito nei trasporti su rotaia in Italia? Escludendo Italo (che fa poche tratte e i cui costi sono pressoché simili a quelli di Trenitalia), nessuno. Ecco servita la liberalizzazione: aumento spropositato delle tariffe e tagli indiscriminati delle tratte economicamente meno vantaggiose. Infatti prima i treni arrivavano ovunque, perché l’obiettivo non era la massimizzazione del profitto, ma l’offerta di servizi necessari, mentre oggi il Sud soffre i tagli delle tratte dovuti alle privatizzazioni, perché l’obiettivo di Trenitalia non è offrire un servizio, ma massimizzare il profitto. Quindi chi vive al Sud o in zone disagiate avrà sicuramente apprezzato la privatizzazione di un servizio così necessario.

Le Poste privatizzate

privatizzazioni poste

Poste Italiane SpA non ha grande interesse a continuare il servizio di consegna della posta, anzi, si sta concentrando soprattutto sui servizi finanziari, insomma, vuole diventare una banca, perché così i profitti sono più alti e i costi minori. Tra l’altro quello della corrispondenza è l’unico settore dove si è sviluppata una minima forma di concorrenza, con le poste private che svolgono gli stessi servizi a costi inferiori. Però, sapete, le pensioni le pagano ancora in posta, ma oggi i pensionati sono costretti a ricevere la misera pensione su un conto corrente e i bollettini, nonostante l’apertura degli sportelli Lottomatica di molti tabacchi convenzionati, continuano ad essere pagati in posta da molti utenti, sì, ma con commissioni che arrivano a 1,50 €.

Dunque mettiamo una famiglia che deve pagare il bollettino di: luce, acqua, gas e telefono. Solo di commissioni pagherà 6,00 €. E non parliamo del costo delle bollette. Anzi, ne parliamo ora ora.

Le privatizzazioni di energia, telefonia e il mercato libero

Con lo smantellamento dell’ENEL e di SIP sono nati, come ben sappiamo tutti, ENEL distribuzione (maggior tutela), ENEL Energia (mercato libero) e Telecom Italia (oggi venduta agli spagnoli), con l’intenzione di creare un mercato concorrenziale, ma nei sistemi capitalistici nostrani “concorrenza” è sinonimo di “fregatura”.

Oggi, rispetto ai primi anni 2000, paghiamo il 20% in più sia di corrente elettrica che di telefonia. Vero è che oggi si è aggiunta la voce “internet” alle spese telefoniche, ma è anche vero che in molti Paesi europei il costo dell’ADSL (o della fibra) è nettamente inferiore.

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Confronto prezzi ADSL in Europa. Fonte: SOS tariffe

Le compagnie telefoniche in regime di concorrenza in Italia sono diverse, ma se spulciamo le offerte, al netto del fumo negli occhi, sono pressoché uguali in termini di costi e si differenziano minimamente in termini di servizi offerti e di qualità del servizio. Per non parlare poi delle numerose fregature che si annidano nei caratteri minuscoli dei contratti, spesso sottoscritti senza essere letti e che riaffiorano solo all’arrivo delle prime fatture.

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Contratto telefonico e ADSL. Tra spese e spesucce, le iniziali 40,00 € a bimestre promesse dall’operatore telefonico diventano 61,80 €.

In materia energetica, poi, abbiamo raggiunto l’apice della fregatura con un regime di concorrenza basato su una componente minima e insignificante in fattura: la materia energia. Tutte le compagnie energetiche ci martellano la testa con sconti e offerte sulla materia energia, senza ovviamente specificare che il grosso da pagare in bolletta non è la materia energia, ma: trasporto, gestione contatore, oneri di sistema. Voci che in fattura risultano incomprensibili ma che rappresentano la maggior somma da pagare. Hai voglia a cambiare fornitore, i costi resteranno sempre altissimi!

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Notare il costo della materia energia e il costo delle “altre spese”. Lo sconto promesso dall’operatore è solo sulla materia energia, quindi un nonnulla.

Le privatizzazioni dell’acqua

Se l’acqua è un bene primario e comune, la sua gestione è privata. E se è vero che le Regioni possono controllarne la gestione, è anche vero che non possono legiferare sulla sua forma giuridica (quindi non possono rendere gli acquedotti Enti pubblici). La competenza spetta allo Stato. Lo stesso Stato che in questi anni ha privatizzato ogni cosa, ha privatizzato anche il bene più prezioso che abbiamo, con conseguenti aumenti di tariffe, tanto che in alcuni casi gli aumenti sono arrivati anche oltre il 200%.

Acqua bene comune. In Italia non più.

Lo Stato risparmia e ci guadagna (come fosse un privato)

Lo smantellamento dello Stato Sociale voluto da Prodi, D’Alema, Bersani e compagnia bella ha una duplice funzione: da un lato ha permesso di risparmiare sui costi degli Enti controllati dallo Stato, dall’altro ha favorito introiti maggiori sotto forma di IVA, contribuzione, imposte di bollo e altri emolumenti che ora queste aziende private versano allo Stato. Quindi oggi lo Stato da un lato ci risparmia e dall’altro ci guadagna. A rimetterci, chiaramente, sono i cittadini e gli utenti che hanno visto lievitare le tariffe, chiudere i servizi necessari e peggiorare, talvolta, gli stessi servizi a fronte di oneri maggiori.

Addio allo Stato Sociale

E’ ovvio che, con le privatizzazioni selvagge e rinunciando ad erogare tali servizi, lo Stato italiano ha smantellato lo Stato Sociale in favore di uno Stato liberista di stampo capitalista. Ma si tratta di una forma di capitalismo truccato, perché se è vero che nel capitalismo l’unico vantaggio che hanno i consumatori è rappresentato dalla concorrenza, è anche vero che in Italia la concorrenza è truccata, perché le aziende che si sono accaparrate i servizi pubblici fanno cartello (cioè si mettono d’accordo) oppure sono controllate dalle stesse persone, seppur con nomi diversi. Quindi si tratta di monopoli di fatto mascherati da regimi di concorrenza.

In questo quadro, l’unico “rimedio” predisposto dallo Stato è stato quello dell’istituzione del Garante della Concorrenza, un Ente che in Italia non ha alcun potere se non quello di comminare multe di lievissima entità a grandi aziende che non rispettano la concorrenza, che pagano volentieri le multe, tanto rappresentano una misera percentuale rispetto al fatturato.

Questa è stata l’unica concessione fatta dallo Stato a noi cittadini che, oggi, siamo costretti a pagare tanto per servizi pessimi in una realtà che andrà sempre peggio, visto che l’opera di smantellamento dello Stato Sociale sta continuando e presto ci vedremo negato persino il diritto a farci una passeggiata al mare o in campagna o in montagna senza pagare il pedaggio a Paesaggi per l’Italia SpA. Ma tranquilli, c’è pur sempre l’abbonamento annuale e se ti iscrivi alla newsletter avrai diritto a uno sconto del 5% sull’eccedenza dei passi consentiti.

 

Lo Stato di Polizia è un’altra cosa, ciucci!

Stato di Polizia

Leggo spesso in vari blog, articoli di giornale, post e commenti sui social, che oramai noi viviamo in uno Stato di Polizia, in quanto il potere ci controlla e ci soggioga grazie all’uso delle forze dell’ordine che soffocano e reprimono le libertà dei cittadini anziché tutelarle e proteggerle. Giusto, no? Leggi anche tu queste boiate, vero?

Non voglio certo negare che spesso le Istituzioni usino le forze dell’ordine per controllare e reprimere le forme di disobbedienza civile e che spesso lo facciano in modo autoritario ed eccedendo nei loro ruoli. Ma questo non vuol dire che viviamo in uno Stato di polizia! Lo Stato di Polizia è un’altra cosa, completamente diversa.

Ma per capirlo bisogna capire la differenza tra forme di Stato e forme di Governo, distinzioni elaborate dalla scienza costituzionalista per indicare le diverse forme che possono assumere uno Stato e un Governo.

Forme di Stato

Uno Stato, inteso come sintesi di tre elementi, cioè territorio, popolo e governo, può assumere diverse forme, a seconda delle influenze storiche, filosofiche e politiche di un dato territorio. Nella storia abbiamo avuto:

STATO UNITARIO

E’ una forma di Stato costituita da un solo popolo su un unico territorio e sotto un unico potere sovrano.

STATO FEDERALE

E’ una forma di Stato che racchiude in sé più Stati, i quali possiedono tutti gli elementi costitutivi tipici dello Stato unitario (popolo, territorio, potere sovrano). Si basa su una Costituzione federale e più atti costitutivi, ognuno del singolo Stato, nonché vengono imposte regole proprie per ogni Stato e regole comuni. L’esempio tipico sono gli USA.

STATO ASSOLUTO

Nello Stato assoluto tutti i poteri (potere legislativo, esecutivo e giudiziario) vengono concentrati nella persona del Monarca. La popolazione è composta da sudditi (non cittadini) che rispondono solo al Re e a nessun altro potere.

STATO PATRIMONIALE

E’ una forma di Stato assoluto in cui il Re dispone del Regno come fosse proprietà privata e fonda i suoi rapporti su un modello di tipo privatistico. Anche in questo caso la popolazione è composta da sudditi.

STATO DI POLIZIA

E’ una forma più evoluta dello Stato assoluto, in cui il Sovrano, pur esercitando sempre il potere assoluto, nel contempo deve assicurare un certo benessere ai sudditi, per cui diviene un “Sovrano illuminato”. Del resto “polizia” deriva dal greco “polis” e, secondo questa forma di Stato, i sudditi hanno diritto a vivere in serenità e sicurezza, per cui il Sovrano deve garantire sicurezza da possibili attacchi esterni nonché benessere diffuso.

STATO DI DIRITTO

Nasce con la scomparsa dello Stato assoluto, per cui i “sudditi” divengono “cittadini” titolari di diritti, che rispondono solo alla legge, come anche il Sovrano (principio di legalità”). Nasce, in questo contesto, la Carta costituzionale nonché il principio della “Separazione dei poteri”.

STATO SOCIALE

E’ una forma evoluta dello Stato liberale, per cui vanno garantiti al cittadino i servizi primari (sanità, istruzione, occupazione, previdenza sociale, trasporti, ecc.), indipendentemente dal proprio reddito, al fine di rimuovere le disuguaglianze sociali.

STATO SOCIALISTA

E’ una forma più “estrema” dello Stato Sociale, per cui lo Stato si fa capo dei mezzi di produzione e garantisce ogni genere di servizio ai cittadini, in modo pressoché uguale per tutti.

Forme di Governo

A differenza delle forme di Stato, dove lo Stato si conforma in base a territorio, popolo e potere, le forme di Governo sono modelli organizzativi tipici del potere stesso, per cui si possono avere diversi modelli in base a come vengono conformati i tre poteri tipici del Governo di uno Stato: Potere decisionale, Potere esecutivo e Potere giudiziario, oltre al Potere di controllo e garanzia tipico del capo dello Stato.
Le forme di governo classiche sono:

MONARCHIA

Il potere in mano ad una sola persona. Qui distinguiamo tra Monarchia costituzionale (i poteri del Monarca sono limitati dalla Costituzione) e Monarchia assoluta (il Monarca prende tutte le decisioni e non risponde ad alcun altro potere).

ARISTOCRAZIA

Il potere in mano a poche persone (nobili o comunque “migliori”).

DEMOCRAZIA

Il potere in mano al popolo.
Poi abbiamo ulteriori forme di Governo le cui caratteristiche di base sono comunque simili alle forme di Governo classiche, ma che hanno alcuni elementi diversi, spesso patologici.

AUTOCRAZIA

Il potere in mano a una o a poche persone, che controllano la formazione delle leggi, il potere giudiziario, l’esercito e i mezzi di informazione. In questo termine ritroviamo la dittatura, la dittatura militare, la plutocrazia, la teocrazia, ecc.

ANARCHIA

In questo caso non esiste un governo organizzato e il potere è autoregolato dai membri di una comunità.

SOCIALISMO

E’ una forma di governo tipica dello Stato Socialista.

REPUBBLICA PRESIDENZIALE

Come quella francese o americana, per cui il Presidente (capo dell’esecutivo) detiene maggior potere rispetto ad altri organi e assume anche i poteri tipici del capo dello Stato.

DEMOCRAZIA DIRETTA

E’ una forma di democrazia senza intermediazioni tipiche della rappresentanza parlamentare. Spesso si associa ad altre forme democratiche e si sostanzia nella decisione, da parte del Popolo, su tematiche rilevanti, a mezzo referendum.
Esistono tante altre forme di governo, ma sia chiara una cosa: se volete parlare di quanto in Italia la libertà sia limitata e controllata da parte del Governo, prendete ad esempio una delle forme di Governo, parlate pure di dittatura di fatto, di autarchia, di democrazia totalitaria, ma lasciate perdere lo Stato di Polizia, che è un’altra cosa. Fino a prova contraria la nostra è ancora una forma di Stato di diritto.