Che fine ha fatto la cultura popolare?

cultura popolare

Breve excursus sulle varie fasi che hanno portato allo studio e all’emersione della cultura popolare e di come oggi sia una mera teca da museo senza più appigli con la realtà che dovrebbe produrla.

Il folklore, inteso come rappresentazione culturale delle tradizioni popolari (cioè gli usi, i costumi, le musiche, la cucina, le tecniche, i saperi, i racconti, le fiabe, ecc.), è stato oggetto di interesse da parte del movimento romanticista, a partire dal 1700, per poi fiorire nel 1800. E’ in questo periodo che nasce, in un certo senso, l’antropologia come studio delle culture popolari.

Il Volksgeist, lo Spirito del popolo era, nell’intenzione dei Romantici, l’elevazione della volontà della Nazione quale legge fondamentale del suo sviluppo sociale, contrapposto al giusnaturalismo, che vedeva come fondamento la legge naturale. Lo Spirito, ossia l’individuo universale, concetto largamente usato da Hegel, corrispondeva, nell’idea dei Romantici, all’Individuo-Popolo o all’Individuo-Nazione che trovava le sue radici nella cultura popolare, la quale venne utilizzata sia per differenziarsi da altri Individui-Nazione sia per accentuare le proprie peculiarità. E’ vero che buone parti del pensiero dei Romantici furono utilizzate per giustificare i nazionalismi e per dare una connotazione filosofico-culturale al regime nazista, ma è anche vero che questa filosofia diede il via all’analisi antropologica, che avrebbe, nel tempo, cambiato per sempre il concetto di Cultura.

La cultura popolare in Italia nell’Ottocento e primi del Novecento

In Italia il primo a porre l’attenzione sulle culture popolari fu Niccolò Tommaseo che, nel suo incontro con la poetessa pastora Beatrice di Pian degli Ontani, nel 1832 scrisse:

Feci venire di Pian degli Ontani una Beatrice, moglie d’un pastore, donna di circa trent’anni che non sa leggere e che improvvisa ottave con facilità, senza sgarar verso quasi mai: con un volger d’occhi ispirato, quale non l’aveva di certo madama De Sade […] Donna sempre mirabile; meno però, quando si pensa che il verseggiare è quasi istinto ne’ tagliatori e ne’ carbonai di que’ monti“.

Quel quasi istinto lasciò germogliare l’idea, tra numerosi intellettuali, che i contadini, i pastori, gli strati più umili della popolazione, avessero spontaneamente e forse inconsapevolmente l’istinto alla poesia, ai versi. Un istinto millenario, capace di produrre versi, musiche, canti, tecniche e saperi che furono oggetto di indagine, ma in chiave positivista, ossia, detta in altri termini, in chiave estetico-letteraria secondo un approccio assolutistico: c’è una cultura superiore, frutto dell’evoluzione degli studi e una cultura inferiore, frutto dell’ignoranza e di disgregate conoscenze delle cose. In quest’ottica il folklore venne sì studiato, ma come espressione pittoresca del popolo delle campagne. E’ con quest’ottica che, per tutto fine Ottocento e fino alla prima metà del Novecento, il folklore veniva catalogato tra le belle cose d’Italia, ma senza mai rientrare degnamente nel concetto di cultura (o di culture, per usare un’espressione del relativismo antropologico).

Gramsci e De Martino

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci

Ma fu proprio un Intellettuale, Antonio Gramsci, che, nelle sue Osservazioni sul Folklore (Quaderni dal Carcere), individuò un nuovo approccio alla cultura popolare: non più un popolo indistinto che produce aspetti pittoreschi e folklorici, frutto dell’arretratezza e dell’ignoranza (com’era nell’approccio positivista), ma l’espressione alternativa di una cultura frutto di classi oppresse dalla cultura dominante. Gramsci, quindi, inserisce la produzione culturale popolare in un contesto sociale, la storicizza e la rende un’alternativa alla cultura dominante.

Il suo approccio sarà poi adottato da studiosi come Ernesto De Martino e Gianni Bosio, che condurranno le loro ricerche consapevoli che l’emersione della produzione culturale popolare favorirà una presa di coscienza delle classi subalterne in chiave anti-borghese.

Senza l’apporto di Intellettuali come Gramsci, De Martino, Bosio e tanti altri, le culture popolari non avrebbero avuto quella dignità tale da essere poi considerate, nei decenni successivi, alla stregua di un Patrimonio intangibile degno di tutela istituzionale (nel bene e nel male), tant’è che le varie Convenzioni UNESCO, sin dal 1989, sono state volte a dare salvaguardia e valorizzazione al folklore, nei suoi aspetti materiali e immateriali. Il loro apporto è stato, quindi, fondamentale, non tanto e non solo nello spostare l’indagine sulle culture popolari da un terreno estetico a uno sociologico-antropologico, ma anche nel capovolgere l’azione dell’Intellettuale, il quale non si pone come docente, dall’alto del suo sapere, ma come allievo nei confronti dei portatori di saperi folklorici.

Tuttavia questi intellettuali, che hanno avuto il pregio di dare rilievo al folklore, hanno vissuto in un’epoca in cui il dualismo cultura egemonica / cultura subalterna si sostanziava in modo netto: da un lato c’era, quindi, il popolo sottomesso e dall’altro lato la borghesia; da un lato la Civiltà contadina, dall’altro la civiltà cittadina. Insomma, netta era la distanza tra i due poli.

Gli anni Sessanta e Settanta

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, però, qualcosa è cambiato. Le emigrazioni di massa, l’industrializzazione, l’emersione della società dei consumi, la diffusione di mezzi di comunicazione di massa come la TV e, in generale, un nuovo modello sociale, basato sul benessere e sull’urbanizzazione, hanno contribuito alla scomparsa della Civiltà contadina e delle sue produzioni immateriali: storie, saperi, musiche e canti vennero travolti da modelli culturali più appetibili e diffusi. Del resto la cultura popolare veniva vista come un’espressione di un cattivo passato da dimenticare, fatto di miseria e fame, mentre la nuova cultura egemonica predicava benessere ed era incompatibile con il vivere povero delle campagne, ormai svuotate a favore del più remunerativo lavoro nelle industrie nascenti.

E’ in questo periodo che molti intellettuali hanno ripreso gli studi di Gramsci e De Martino sul folklore non più e non solo in chiave anti-borghese, ma anche in chiave anti-capitalista, anti-egemonica e, successivamente, anti-globalista e localista, dove il dualismo egemonia/subalternità non rappresenta più la lotta di classe tra chi vive in mondi diversi e in contrapposizione, ma una frammentazione sociale inserita nel contesto dell’interclassismo.

Se è vero che il povero, ormai privo del suo terreno di riferimento, sogna di essere ricco e sogna, come modello del benessere, la Seicento, la casa al mare e uno stipendio sicuro, il suo volersi elevare a borghese (o piccolo-borghese) è l’esempio di una stratificazione sociale frammentata e fittamente segmentata, dove non vi è più una (potenziale e possibile) lotta di classe, ma una lotta a senso unico, volta all’illusorio raggiungimento del sogno del benessere. In questo quadro mutano i c.d. folkways, ossia le abitudini dell’individuo e i costumi della società che sorgono da sforzi intesi a soddisfare i bisogni (William Sunmer, Costumi di gruppo, 1906), non sono più nettamente trasmessi dal gruppo di riferimento, ma si confondono con quei bisogni, indotti o spontanei, propri della civiltà cittadina attraverso le influenze della società dei consumi.

Insomma, la cultura popolare inurbata e rimodellata nei ceti operai di periferia, nell’incontro-scontro tra operai e piccola borghesia, nel mescolamento tra vecchi modelli e nuovi bisogni, produce, tra gli intellettuali di sinistra degli anni Settanta, un nuovo approccio, che è quello dell’analisi demologica non più di matrice gramsciana, ma volta a studiare le culture subalterne e suburbane. Quel poco che resta della Civiltà contadina è oggetto di incessanti studi e ricerche, che oggi rappresentano l’architrave della conoscenza che possiamo avere di ciò che in quel periodo restava ancora autentico. Dico autentico non perché nelle culture popolari possa essere ammesso un termine del genere, ma perché oggi quelle ricerche etnografiche vengono cristallizzate nel concetto di tradizione e fatte passare per espressione di identità culturale, quando altro non sono che un aspetto mutevole di una realtà che di lì a poco sarebbe totalmente scomparsa.

L’opera degli Intellettuali di quel periodo fu quindi di ri-scoperta e ri-proposta contro la massificazione industriale, la produzione egemonica musicale, insomma, il consumismo, l’omologazione e l’industrializzazione che, nel corso degli anni, avrebbe profondamente mutato le matrici culturali e, di conseguenza, le espressioni stesse.

L’intellettuale che più ha messo l’accento sulla disgregazione della cultura popolare ad opera della società dei consumi fu Pier Paolo Pasolini, il quale s’interrogava su come la cultura popolare potesse rimodellarsi all’interno di una struttura sociale ormai profondamente mutata.

Accanto a lui, Alberto Mario Cirese (Cultura egemonica e culture subalterne, 1973) gettò le basi per una riflessione sul rapporto tra egemonia e subalternità non più in chiave gramsciana ma secondo un’indagine che tenesse conto anche della reciproca influenza tra la cultura egemonica e quelle subalterne nonché della circolarità del rapporto tra esse, nell’ottica per cui il folklore si pone come un’espressione di cultura alternativa e implicitamente contestativa che però si rimodella ogniqualvolta i suoi portatori si trovano a cavallo tra l’egemonia e una subalternità che però non è cementificata, ma è inserita in un corpo estraneo ad essa e rimodellabile continuamente.

Del resto è storia recente che la cultura popolare è diventata sempre più appannaggio della massa e di quegli intellettuali piccolo-borghesi inurbati che trovano in essa uno sfogo nei confronti della nevrosi prodotta da modelli omologanti di matrice globale. Ma non solo! E’ anche un pretesto per riaffermare presunte identità locali che, però, non avevano alcun senso nella Civiltà contadina. Il concetto di identità è stato introdotto, anzi, nella riemersione della cultura popolare, come riaffermazione di presunti valori territoriali contrapposti al modello global.

Gli anni Ottanta e Novanta

Difatti gli anni Ottanta e Novanta hanno rappresentato, per la cultura popolare, un periodo sì di rivitalizzazione (frutto anche della conseguente attenzione globale nei confronti delle diversità culturali, come l’es. dell’UNESCO), ma anche di profondo mutamento. Se da un lato si moltiplicavano le attenzioni rivolte alle espressioni culturali e rinasceva l’interesse nei confronti delle loro rappresentazioni (cucina tipica, musiche e canti, in particolare), soprattutto in chiave di promozione del territorio nei confronti del sempre crescente fenomeno turistico, dall’altro si sentiva sempre più pressante l’intrusione del mercato del folklore di matrice, appunto, egemonica. E l’appropriazione del concetto di Patrimonio Culturale da parte delle Istituzioni (si pensi alla creazione di apposite Fondazioni per la sua promozione) unito alla sempre maggiore attività del mercato degli eventi ha di fatto consegnato la cultura popolare, nello specifico musiche e canti, nelle mani della cultura egemonica, la quale, chiaramente, ha tutto l’interesse a spezzettare e sminuzzare le espressioni folkloriche selezionandone gli aspetti più appetibili sul mercato degli eventi e trascurando, di fatto, quelli meno vendibili. Quest’operazione, squisitamente egemonica e omologante, da un lato ha privato di ogni valore la cultura nella sua complessità e dall’altro ha sottratto ai suoi portatori il diritto di usarla e ricontestualizzarla.

Ma, ad ogni modo, ormai questo diritto non c’è più proprio perché non c’è più quel sub-strato culturale che produce espressioni culturali sue proprie. Insomma, ciò di cui si è appropriata la cultura egemonica non è tanto la cultura popolare in sé (quella si è liquefatta e si mescola e confonde nell’interclassismo) quanto l’oggetto dell’indagine etno-demografica di quarant’anni fa, in altre parole un oggetto museale, però immateriale.

Oggi che succede?

Raymond Geuss
Raymond Geuss

Raymond Geuss, classe 1946 e professore emerito all’Università di Cambridge, scrive “la filosofia è morta: i segni vitali prodotti una quarantina di anni fa, l’eccitazione, la creatività, l’inventiva sono sostituite, ormai, da tediose recite e rievocazioni storiche” (qui trovi l’articolo originale). Mi permetto di citarlo perché, in fondo, è essenzialmente ciò che è accaduto alla cultura popolare.

E’ morta sotto la scure della società dei consumi, che ha fatto delle espressioni culturali popolari vive una merce da dare ad uso e consumo di stakeholders, turisti e massa indistinta e indiscriminata che non si riconosce né produce espressioni culturali nuove in quanto non le appartengono.

In altre parole, come ben dice Geuss, la creatività e l’inventiva sono sostituite da rievocazioni storiche, dall’ossessiva ripetizione della tradizione, che però non è rivitalizzata, ricontestualizzata e utilizzata in chiave anti-egemonica, ma ridotta a mera spettacolarizzazione, a ricordo quasi bucolico di un passato che non c’è più e che si ripropone come teca da museo.

In questo quadro la ricerca demologica si è interrotta ed è incapace di scandagliare le rappresentazioni dei sub-strati culturali ormai liquefatti e confusi tra ceti marginali e ceti borghesi. Non c’è più un anti- da proporre (anti-sistema, anti-capitalismo, anti-borghesia, anti-globalizzazione, ecc.) perché la critica che ha sempre sorretto la cultura popolare è scomparsa e il nemico da combattere oggi è talmente invisibile da non esistere.

Insomma, oggi il folklore è più simile a quello guardato con gli occhi del Positivismo ma in chiave moderna, ossia spettacolarizzazione estetico-letteraria di espressioni d’identità locale, mentre però i suoi portatori non esprimono una cultura, ma un ricordo, tenuto vivo solo dal mercato. E’ per questo che ormai da molti anni quei pochi portatori sani, ancora vivi, della Civiltà contadina, hanno abbandonato il campo della ri-proposta, in quanto non gli appartiene più, mentre sul campo sono rimasti quelli che non esprimono più alcunché, se non ciò che il mercato (o la moda del momento) gli impone di esprimere. Una sorta di servilismo che, però, soggiace alla legge del ribasso. Ne ho parlato, in riferimento alla musica, in quest’articolo.

Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale diceva Hegel, a voler significare che Ragione e reale sono la stessa cosa. Questo la cultura popolare, nell’illetteralità dei suoi portatori, l’aveva intuito, come Gramsci aveva intuito che da questa filosofia spontanea potessero trarsi le basi per riaffermare la dignità delle classi popolari, mentre oggi il Razionale s’identifica con altro, che la demologia ancora non ha saputo (o voluto) individuare e gli Intellettuali si tengono ben lontani dal comprenderlo, mentre il reale è solo uno stantio ricordo del passato, che si manifesta nell’inconsapevole servilismo di chi, quella cultura popolare, pretende di esternarla senza sapere che, in realtà, sta solo perpetrando le istanze del potere egemonico.

 

iPhone X e le nuove frontiere del controllo sociale

iPhone-X

Mi chiedo se gli utenti Apple che acquisteranno il nuovo iPhone X sappiano quanto è paradossale spendere tra 1189,00 e 1359,00 € (questo è il range di prezzo imposto da Apple) per comprare un telefono che ha installato una tecnologia per il riconoscimento facciale. Detto in altri termini, davvero ci sarà gente che spenderà uno stipendio mensile (per alcuni anche lo stipendio di 2 mesi…) per dare la possibilità ai giganti dei Big Data di farsi controllare meglio?

Vediamo se così riesco a spiegarmi meglio.

Tutti ormai sappiamo che molte agenzie private o governative e quasi tutti gli hacker più talentuosi possono accedere con molta semplicità ai nostri smartphone e controllare praticamente tutto: gli accessi, i siti visitati, le app utilizzate e tutte le conversazioni fatte, la rubrica, l’agenda degli appuntamenti, le foto e i video e possono persino accedere alla nostra fotocamera e usarla come una sorta di “mezzo di intercettazione ambientale”.

Del resto le Iene, nel 2015 e nel 2016, hanno fatto quest’esperimento e hanno scoperto che è molto facile farsi “infettare” il telefono, anche tramite un messaggino innocuo (o uno script facilmente scaricabile se si visitano siti pericolosi o app non certificate) per cui il telefono può essere controllato senza che noi ce ne accorgessimo.

Sappiamo anche un’altra cosa. Se è vero che normalmente la Magistratura attua forme di intercettazione solo in caso di notizie di reato e in fase di indagini (con tutte le garanzie imposte dalla Legge) è anche vero che le agenzie di sicurezza governative non hanno questi limiti e che le Società di Big Data e gli hacker ne hanno ancor meno. Ognuno ha diverse finalità: i Governi (teoricamente) agiscono per sicurezza nazionale, le aziende di Big Data lo fanno (prevalentemente) per scopi commerciali (anche se ultimamente si stanno orientando verso forme di monitoraggio e controllo sociale…) e gli hacker? Beh, alcuni per finalità politiche, altri, invece, per vera e propria criminalità organizzata, se non peggio (il terrorismo, per esempio, oggi sta inseguendo queste nuove frontiere di controllo). Quindi è evidente che gli smartphone – quegli oggetti in cui ormai abbiamo messo tutta la nostra vita sotto forma di foto e video, contatti, applicazioni, conversazioni – rappresentano l’oro per tutti quei soggetti che – con le finalità più disparate – vogliono accedervi, controllare e, perché no, manipolare.

Ma finora c’è stato un limite. Non era possibile associare un nome e una storia (quella contenuta in ciascuno dei nostri dispositivi) ad un volto. Ora, con il nuovo iPhone X, ciò è possibile.

E’ vero che i vertici Apple hanno dichiarato che FaceId (la tecnologia per il riconoscimento facciale) non conserverà in un database i volti e che l’app, secondo Edward Snowden è robusta, ma è lo stesso Snowden che in un tweet, ha dichiarato che questa tecnologia sarà oggetto di abusi.

Edward_Snowden
Edward Snowden

Edward Snowden era tecnico della Cia e di recente ha pubblicato tutte le tecniche e i programmi di sorveglianza di massa che il governo americano e quello britannico attuavano all’insaputa di milioni di cittadini. Lui, per aver ricondotto questa tematica nell’alveo democratico, è stato costretto ad esiliare in Russia, in attesa di conoscere il proprio destino.

Sembra anche irrisorio il concetto per cui la tecnologia è robusta e non sarà preda facile di attacchi informatici. E’ scontato dire che l’informatica non è una scienza esatta né perfetta e che le falle si trovano sempre. Anche i sistemi più impenetrabili nascondono, nel proprio codice sorgente, qualche bug. Del resto l’informatica è un’attività umana e come tale non è mai esente da rischi.

Tanto non ho nulla da nascondere

Questa è la frase che sento dire più spesso quando parlo di Big Data, privacy e controllo sociale.

In effetti è vero. Queste tecnologie sono utili per finalità di sicurezza, per prevenire e contrastare i crimini o le attività terroristiche. Del resto una tecnologia simile, unita alla tecnologia di riconoscimento delle impronte digitali (e presto vedremo queste due tecnologie su tutti i dispositivi in commercio) è davvero utile per finalità di pubblica sicurezza. Ma dovremmo avere davvero il prosciutto sugli occhi se non dovessimo riconoscere che in questa materia ci sono Società gigantesche e lontane dalle regole democratiche che ne approfittano per mere finalità commerciali e per attuare esperimenti sociali di massa. E’ il caso di Facebook (qui ne ho parlato), di Google e di circa una trentina di altre Società che sfruttano i Big Data per riconoscere le persone, delineare i loro gusti e attuare pratiche commerciali volte a vendere. Ma non solo. Anche a orientare, persino manipolare.

E poi, diciamoci la verità, davvero ci fa piacere sapere che qualcuno di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza ci spia, ci profila, ci controlla e ci manipola? Davvero siamo impassibili davanti all’ipotesi che qualcuno conosca le nostre più intime faccende e le colleghi a un volto? Non parlo solo di banali scappatelle o litigi tra amici e familiari su WhatsApp o su Messenger di Facebook, ma sul nostro stato di salute, sulle nostre conversazioni che riteniamo intime, sui nostri desideri che non confessiamo, sulle nostre inibizioni che riteniamo di custodire nella sfera privata e su tutto ciò che fa parte della nostra interiorità.

Pensa a come questa tecnologia possa rendere facile la vita a un possibile regime dispotico e antidemocratico. Pensa a quanto sarà facile monitorare, associare delle conversazioni a un nome e un volto e poi imbavagliare con i modi più disparati le opinioni diverse dalla “cultura dominante”, pensa a quanto sarà facile controllare le comunità locali che magari lottano contro le decisioni del governo per la tutela del proprio ambiente e della propria salute, pensa a quanto sarà facile egemonizzare le diversità culturali, sociali, individuali, non solo da parte dei governi, ma soprattutto della cultura globalista.

E infatti siamo così convinti che rischiando di mostrare il nostro Io tramite un dispositivo non saremo poi preda dell’omologazione delle nostre individualità? Del resto l’omologazione culturale parte proprio dalla conoscenza delle diversità sociali e individuali e dalla loro lenta erosione. L’erosione che parte proprio da quel dispositivo con cui, forse, starai leggendo quest’articolo.

Il Mercato degli Eventi e l’egemonia sul Folklore

Antonio Gramsci egemonia e folklore

Il Folklore (o cultura popolare) rappresenta il sapere, stratificato in migliaia di anni e trasmesso oralmente dalle classi subalterne ed è l’unico strumento che il Popolo ha per difendersi dall’egemonia culturale delle classi dominanti. E’ un Patrimonio ricco di musiche e canti, detti e racconti, saperi e tecniche, fiabe e leggende che rappresenta l’architrave del Patrimonio immateriale dell’Italia de le molte genti. E’ talmente importante e delicato che personaggi come Antonio Gramsci, Ernesto de Martino, Alberto Mario Cirese, Gianni Bosio, Rina Durante e tanti altri hanno dedicato una vita per ridargli dignità e studiarlo con metodologie scientifiche in modo da comprenderne l’importanza nella costruzione di una cultura europea e nella consapevolezza del rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, nella negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture e nel rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Lo sforzo compiuto da questi intellettuali è stato immane, perché per secoli – e in parte ancora oggi – la cultura popolare è stata vista come un aspetto pittoresco proveniente da una sub-cultura povera, frutto di concezioni parziali e incolte del mondo e retrograda perché espressa da strati sociali privi di istruzione. Gramsci invece capovolge completamente questa concezione e rinviene, nella cultura popolare, il leit-motiv per riattribuire al Popolo quella dignità perduta, per ridare importanza a quella filosofia spontanea che, come scrive lo stesso Gramsci, si rinviene nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; nel senso comune e buon senso; nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni,opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folklore”.

Antonio Gramsci fu quindi il primo intellettuale a occuparsi del folklore in modo scientifico e a trattare la Cultura popolare come un elemento critico e alternativo alla cultura dominante, non in chiave conservativa, come mera teca da museo, ma in chiave progressista, come elemento essenziale per la comprensione del Popolo e per la sua rappresentatività socio-culturale, infatti nelle sue osservazioni sul folklore, scriveva che quest’ultimo non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. In altre parole Gramsci studiò la Cultura popolare, tra cui i canti, le musiche, la poesia vernacolare, il linguaggio e tutti gli altri aspetti che compongono il folklore e lo riannesse all’interno della Società, spostandolo da un terreno estetico-letterario a uno socio-culturale, oppure etno-antropologico, quindi contestualizzando la Cultura popolare in chiave storicistica e sociale. La sua operazione di attribuzione della dignità alla cultura popolare fu innovativa e aprì numerosi scenari alla scienza antropologica negli anni a venire.

Insomma, il folklore è importante perché rappresenta una diversa concezione del Mondo, spontanea e lontana da quella cultura egemonica che viene imposta e che il popolo non sente come propria, ma subisce l’inculturazione attraverso l’istruzione scolastica (il ché sarebbe il male minore), i media, le mode e l’appiattimento culturale globale studiato a tavolino al fine di attuare politiche commerciali di massa.

Il folklore ha appunto, secondo Gramsci, questa funzione di contrapposizione: grazie ad esso gli «strati inferiori» della piramide sociale si rendono parzialmente in grado di resistere alle influenze delle filosofie «superiori» e di formularne una critica «rozza». Attraverso il folklore si esprime ciò che potremmo chiamare una pre-coscienza o una coscienza «diffusa» degli elementi incolti della società, costituita da strati sovrapposti formatisi nel corso della storia e dalla giustapposizione di elementi di attualità (ogni strato è una resistenza che viene opposta alle diverse filosofie che si sono succedute nel corso dello sviluppo storico). Di qui, la fisionomia spuria, arcaica e incoerente con cui il folklore si presenta e con la quale gli studiosi si scontrano.

Del resto anche Carlo Levi e Ignazio Silone scrissero che la storia ufficiale, quella cultura dominante che impone ai contadini e ai cafoni regole incomprensibili e lontane da quelle regole della Natura e della Storia tipiche della Cultura popolare, sono storie altrui, che nulla c’entrano con la millenaria storia di popoli vissuti da sempre – e per sempre – seguendo regole cicliche e naturali, rispettando le leggi di una tradizione persa nel tempo e ragionevole e comprensibile, perché immutabile e naturale. Come si può comprendere ciò che non si conosce, ciò che rispetta regole opposte? I cafoni osservano da tempo regole che i cittadini non sentono proprie, perché lontani dallo scorrere regolare delle stagioni, dagli asti dovuti al naturale susseguirsi degli eventi, così come i cittadini osservano leggi positive, che comprendono perché ragionevoli in base a ciò che i sovrani – o gli stati, le dittature o le democrazie rappresentative – impongono e diffondono. Sono due culture inconciliabili, ma non per questo una è superiore all’altra.

L’UNESCO e la tutela del Patrimonio Culturale Immateriale

UNESCO_logo

Gramsci non ha vissuto l’epoca della globalizzazione, ma il suo pensiero è ancora attuale e si adatta anche alla concezione del local inteso come contrapposizione al modello globalista ed espressione viva delle identità locali, quindi, in ultima analisi, quale espressione culturale subalterna al pensiero dominante, a quel pensiero che appiattisce le diversità e impone le uguaglianze. La stessa operazione – appunto per salvaguardare le diversità – è stata fatta, per decenni, dall’UNESCO, che, sin dal 1989, con la Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura e del folklore, ha espresso preoccupazione per la progressiva scomparsa del Patrimonio Culturale immateriale – cioè il folklore, e ha chiesto agli Stati firmatari di porre in essere tutte le misure idonee e necessarie al fine di salvaguardare le espressioni culturali folkloriche perché fanno parte del patrimonio universale dell’umanità e che sono un potente mezzo di riavvicinamento dei diversi popoli e gruppi sociali e di affermazione della loro identità culturale.

Poi, a partire dal 1997 l’UNESCO è andato sviluppando una particolare attenzione per il patrimonio culturale immateriale (Intangible Cultural Heritage), per il quale ha costituito, all’interno della Divisione del patrimonio culturale, una sezione appositamente dedicata (Section of Intangible Heritage). A partire dal 1998 l’UNESCO ha intrapreso una serie di azioni concrete in questo settore con il progetto Preserving and revitalizing our Intangible Heritage, articolato in diverse azioni: Masteripieces of Oral and Intangible Heritage of Humanity riguarda i patrimoni orali e immateriali dell’umanità meritevoli di riconoscimento; Living Human Treasures promuove i depositari di saperi e tecniche trasmesse oralmente (artigiani, artisti, etc.); Endangered Languages pone l’attenzione sulle lingue a rischio di estinzione; Traditional Music of the World pubblica i dischi dedicati alle culture musicali mondiali.

Nel novembre 2001, inoltre, l’UNESCO ha adottato la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, affermando che la diversità culturale è essenziale per l’umanità come lo è la biodiversità per la natura. Anche in questo caso, l’UNESCO ha ribadito la necessità di approntare gli strumenti più adeguati, da parte degli Stati aderenti, per la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale, sia materiale che orale, nonché il rispetto e la protezione dei saperi tradizionali.
Nel 2003, poi, l’UNESCO ha emanato la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale in cui ha consacrato la necessità di salvaguardare le espressioni culturali immateriali popolari in modo più maturo e preciso, definendo patrimonio culturale immateriale “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana (…)”.

E’ evidente, da questa sommaria analisi, l’importanza che assume il Patrimonio Culturale immateriale del folklore per lo sviluppo delle Culture mondiali (il plurale è d’obbligo) e per il naturale svolgersi delle formazioni sociali in cui le personalità individuali si dipanano e trasmettono alle generazioni future quel know-how ricco di storia stratificata e di conoscenze naturali ma sempre a un passo dall’estinzione, schiacciato com’è dalla cultura egemonica, mondialista e globalista, cultura foraggiata e sostenuta dai media e dal mercato globale.

Gli anni d’oro del folklore

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Rina Durante, intellettuale salentina, ricercatrice e fondatrice di uno dei pochi gruppi oggi rappresentativi della concezione folklorica di gramsciana memoria: il Canzoniere Grecanico Salentino (attivo dal 1975)

E’ evidente che in un secolo di attività etno-antropologica la cultura popolare è riemersa e gli è stata attribuita quella giusta dignità come elemento non solo di memoria del passato, ma anche di espressione viva del presente in antitesi alla cultura dominante e piatta tipica del modello global.

Sin dagli anni Cinquanta, mentre si sviluppava la Questione Meridionale, numerosi antropologi, etnomusicologi ed intellettuali ponevano le basi per la creazione di una coscienza popolare attraverso il riaffiorare di musiche e canti, in chiave anti-sistema o, per meglio dirla, in chiave pro-diversità. Erano gli anni in cui, attraverso la musica, si creava una coscienza di classe, una coscienza popolare, un modo come un altro per attribuire al Popolo quella dignità perduta e nascosta sotto le ceneri di una cultura dominante che beffeggiava gli ignoranti, i cafoni, i contadini, quella fetta di popolo priva di cultura accademica ma ricca di cultura del vivere. In quegli anni si cercò di rimettere in vita quella filosofia spontanea di gramsciana memoria. E ci riuscirono. Difatti per tutti gli anni Sessanta e Settanta intellettuali come Gianni Bosio, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Diego Carpitella ripresero i canti popolari italiani e gli attribuirono quella dose di culturalità che avevano smarrito negli anni precedenti.

Il canto

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I Cantori di Carpino

Il canto rappresenta la più alta forma di espressione culturale immateriale. E’ il modo più veloce e compiuto di diffondere concetti, storie, notizie, una coscienza collettiva e un fare comunità che nessun’altra forma immateriale può esprimere.

Se torniamo a Gramsci, possiamo capire esattamente cos’è il canto popolare. A scanso di equivoci, soprattutto per coloro che ritengono che popolare (o folk) è solo il canto creato dal popolo per il popolo o quello che si completa solo nelle musiche locali, va invece detto che il canto popolare è quello in cui il popolo stesso si riconosce, al di là della lingua utilizzata (dialetto o lingua nazionale) o della melodia (non importa se locale o classica o, ancora, priva di accompagnamento musicale). Secondo Gramsci, seguendo una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri, troviamo questi canti:

  • i canti composti dal popolo e per il popolo;
  • quelli composti per il popolo ma non dal popolo;
  • quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.

“Mi pare che tutti i canti popolari, aggiunge Gramsci, si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione”.

Grazie alle chiarificazioni concettuali espresse da Gramsci e allo sviluppo della scienza antropologica, numerosi intellettuali iniziarono una raccolta metodologica di tutti i canti popolari, indipendentemente dal valore artistico-musicale, che poi, negli anni, diffusero nel mondo musicale italiano. Erano gli anni d’oro perché cantautori come Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Giovanna Marini, Caterina Bueno e tanti altri aderirono a tale concezione e costruirono un’intellighenzia basata sulla diffusione del canto popolare e sullo studio metodologico delle musiche, tonalità, tecniche corali, ossia un’impressionante mole di diversità musicali che persino personaggi come Tito Schipa, già prima di loro, vollero approfondire perché i canoni musicali popolari erano lontanissimi da quelli canonici e ufficiali. Nei decenni a venire – e siamo già negli anni Ottanta e Novanta – la musica popolare si strutturò nel Meridione, precipuamente nel Salento, dove trovò terreno fertile grazie a intellettuali come Rina Durante che, sin dagli anni Settanta, s’impegnò nella riemersione del canto popolare. Quelli erano anche anni in cui – in tutta Italia – iniziava l’interesse, da parte del mercato culturale, verso gli eventi folk. Non a caso nel 1986 nacque il festival di musica popolare di Forlimpopoli, nel 1991 l’Isola Folk di Bergamo e nel 1998 la Notte della Taranta.

La Notte della Taranta nel 1998. Che differenza c’è rispetto a quella attuale?

Fino alla fine degli anni Novanta il folk revival (così fu definito da numerosi intellettuali) si sviluppò al punto tale da stuzzicare l’interesse di numerosi antropologi e studiosi di tutto il Mondo che – attratti dall’imponente rinascita del folklore locale – iniziarono una fiorente letteratura sul tema, tanto che, fino ai primi anni Duemila, si scrisse tanto e si discusse tanto sui motivi per cui – soprattutto nel Meridione – la musica popolare riscosse tanto successo non solo tra gli operatori del settore, ma anche nel grande pubblico. I motivi erano al contempo complessi e banali: la riscoperta delle origini, del Patrimonio sepolto, dei saperi antichi andavano di pari passo con la prepotente espansione del modello globalista, quasi in una sorta di antitesi e resistenza popolare al dilagare di una cultura che il popolo non sentiva propria e che, indagando nella propria storia, si riconosceva in ciò che il territorio, per secoli, ha trasmesso e ha lasciato in eredità: storie, tecniche, saperi, racconti, proverbi, cucina, ma soprattutto musiche e canti.

Il modello globalista ed egemonico del mercato degli eventi e del turismo di massa

Nell’ultimo decennio, però, qualcosa è cambiato. Il mercato degli eventi ha incontrato la musica popolare e, sotto gli occhi distratti degli appassionati e dei riscopritori, ha iniziato un lento ma inesorabile processo di disgregazione del Patrimonio culturale immateriale. Ad accorgersi di ciò, com’è prevedibile, sono stati gli intellettuali che, sin da subito, hanno lanciato allarmi circa l’importanza di procedere alla tutela del Patrimonio immateriale per evitare che possa estinguersi sotto i colpi del crescente turismo di massa e del sempre più pressante mercato degli eventi.

In effetti ciò che, fino a pochi anni prima, veniva definito turismo etnico o culturale, fatto di gente che si recava nei luoghi vivi della tradizione al fine di assistere a manifestazioni pulsanti di musiche e canti popolari, in pochi anni si è tramutato in turismo di massa, fatto di gente a cui non interessa affatto l’aspetto culturale, ma solo il divertimento quotidiano e feroce e che – per passione, moda o diletto – pretendeva di assistere quotidianamente a manifestazioni musicali divertenti e ballerecce. Le comunità locali, da un lato impreparate all’invasione e dall’altro poco propense a strutturare l’offerta turistica perché frammentate e storicamente tendenti ad approfittare del momento in ottica epicurea e poco lungimirante, si divisero tra chi (pochi) non accettava la svendita del Patrimonio Culturale e chi (i più), invece, propendeva per facili guadagni con pochi investimenti. Del resto il mercato globale degli eventi è ben capace di raggirare chi non ha il giusto humus culturale per potervi resistere.

E infatti negli anni si sono moltiplicati gruppi di riproposta, corsi improvvisati di musiche e balli popolari in tutta Italia, ballerini, nonché sagre e festival, spesso nati dal nulla e spacciati come tradizionali, tutto al fine di accontentare il mercato turistico di massa. La presenza di numerosissimi musicanti e insegnanti di musiche e balli (spesso improvvisati e senza formazione culturale) ha chiaramente aumentato la curva dell’offerta con conseguente riduzione del valore, portando quindi ad una forte concorrenza basata su bassi compensi e alta presenza di musiche e canti ballabili.

Le conseguenze sono state numerose, tra cui:

  • la progressiva inumazione dei canti tipicamente popolari, ossia di quei canti che il popolo riconosce nella propria concezione del mondo e dell’attualità, quindi scomparsa di canti di denuncia, di storie e racconti attuali, di canti di lavoro, di protesta, di canti volti a diffondere una coscienza sociale. Non è un caso – faccio una breve digressione, poi ne parlerò più diffusamente avanti – che spettacoli come la Notte della Taranta non diano voce alle pressanti richieste del territorio di denunciare gli scempi ambientali e di raccontare la realtà attuale;
  • l’aumento eccessivo di ballatori (non ballerini) e musicanti (non musicisti) che, basandosi non sulla memoria, ma su arrangiamenti che funzionano e che vendono, propongono cover ormai prive di senso di canti e musiche ballabili, fatte da altri gruppi di riproposta, come una fotocopia di una fotocopia di una fotocopia dell’originale (sempre se si possa parlare di originalità nella cultura popolare);
  • l’aumento eccessivo di ritrovi e feste popolari, secondo lo schema imitativo di grandi eventi che funzionano e che attraggono gente, quindi sagre o feste inventate di sana pianta che spesso si accavallano a quelle tradizionali (quelle che, ricordo, secondo l’UNESCO devono essere tutelate) e che ne disgregano la funzione e il contenuto;
  • la concezione per cui la musica popolare non è un bene comune, ma un elemento commerciale come qualsiasi altro, da sfruttare. In base a tale concezione si verificano, poi, casi come quello per cui diversi musicanti e ballatori snobbano le feste tradizionali, vive (che necessitano di tutte le energie possibili per restare tali) per suonare in contesti avulsi, sotto spinte commerciali.
  • l’evidente aumento di suonatori spontanei (causati da corsi di musicanti improvvisati) che, in eventi orizzontali (cioè senza palchi), ossia l’anima pulsante delle musiche popolari, ne rovinano l’esecuzione impoverendone gli stili e le tecniche.

Tale fenomeno ha schiacciato in qualche modo le poche feste e i pochi ritrovi rimasti vivi, tanto da suscitare l’indignazione e l’accorato appello alla tutela dei ritrovi musicali tradizionali.

Così scrive Roberta Tucci, in Come salvaguardare il patrimonio immateriale? Il caso della scherma di Torrepaduli: “A Montemarano i suonatori della tarantella non permettono a chiunque di unirsi a suonare con loro durante il carnevale: se mai, concedono tale “onore” solo a persone scelte da loro stessi, con le quali hanno da tempo costruito un rapporto personale e di cui si fidano sul piano musicale. Del resto, a chi verrebbe in mente di inserirsi, con il proprio strumento musicale o con la propria voce o con il proprio corpo, in un contesto culturale “ufficiale”, quale può essere un concerto (di un’orchestra, di una banda, di un gruppo rock), o uno spettacolo di danza e di teatro? Perché, invece, gli spazi della cultura “popolare” possono venire tranquillamente occupati, senza neanche chiedere il permesso?” 

Il caso del Salento ha quindi allarmato gli operatori del settore in quanto la crescente attenzione turistica non solo ha rovinato la tradizione viva, congelandola e impedendone la naturale evoluzione, ma ha creato modelli intimamente globalisti imitati anche da altri territori, con conseguente depauperamento delle espressioni folkloriche locali. E’ il caso di alcune zone della Sicilia, dove – per imitare festival come la Notte della Taranta – si oscura il ricco patrimonio musicale locale.

Caso emblematico: il folklore e La Notte della Taranta

Notte della Taranta e folklore

Quando il Festival della Notte della Taranta compì i primi passi volti a diffondere la musica popolare salentina nell’incontro con musiche altre, si progettò – accanto al festival – la creazione dell’Istituto Diego Carpitella, il quale aveva il compito di raccogliere, tutelare e valorizzare il complesso Patrimonio folklorico locale. Inutile dire che ha funzionato solo negli anni d’oro (pochi, a cavallo tra la fine del Novanta e i primi del Duemila). Anche con l’istituzione della Fondazione Notte della Taranta, le finalità di salvaguardia furono ribadite solo a parole, ma ad oggi non si conoscono le finalità culturali della Fondazione se si escludono pochi studi fatti in collaborazione con alcune Università, non sull’aspetto culturale ma sull’aspetto economico del Festival (è sufficiente dare un’occhiata al sito web, dove di cultura non v’è menzione), tant’è che, dopo numerose richieste sempre inascoltate, l’antropologo Eugenio Imbriani lasciò la Fondazione.

Ad ogni modo il merito della NdT è stato quello di diffondere globalmente la musica popolare salentina (per lo più quella ballabile, trascurando il resto), ma ha contribuito – in apparenza paradossalmente – all’appiattimento culturale del Patrimonio folklorico, incanalando le espressioni musicali folkloriche nel mercato globale degli eventi. In altre parole, tutti gli sforzi compiuti in un secolo di scienza antropologica volta a riattribuire al popolo la propria musica, in chiave antisistema e identitaria, sono stati sconfessati da grandi festival (la NdT in primis) che invece hanno, a piè pari, consegnato alla cultura egemonica le diversità musicali, impoverendole e congelandole in teche da museo, anzi, in disco-teche.

L’importanza che assumono i gruppi di riproposta nella salvaguardia, valorizzazione e promozione del Patrimonio del folklore locale

La colpa (se di colpe si può parlare) però, non è solo della NdT, la quale deve necessariamente rispondere a logiche commerciali e fare numeri, per potersi inserire nel mercato globale degli eventi; la colpa è anche degli operatori del settore, ossia di gruppi di riproposta, appassionati e intellettuali che – oggi – non sono in grado di riannodare i fili col passato e riprendere, con coraggio e consapevolezza, il ricco patrimonio culturale, facendolo proprio ed evolvendolo. A parte poche eccezioni, molti operatori del settore diventano così inconsapevoli schiavi del sistema degli eventi, quindi schiavi della cultura egemonica e, per pochi soldi, acconsentono a svendere il proprio patrimonio musicale.

Sia chiaro, non è un problema di cachet. Ogni musicista può scegliere di farsi pagare come vuole, è un problema di paternità. La cultura popolare è la cultura del Popolo, è la conoscenza trasmessa dai nostri avi e che bisogna custodire e tramandare, non appartiene a chi la suona. Chi la suona ne è custode e non proprietario. Ed è per questo motivo che i primi responsabili dell’affossamento delle culture popolari e della consegna del popolo alla cultura dominante e globalista sono gli stessi che suonano inconsapevolmente sui palchi, per quattro spicci, tradendo così la propria storia.

Parafrasando R. Tucci, bene fanno coloro i quali sono gelosi custodi del proprio Patrimonio, bene fa quella popolazione che impedisce a chiunque di inserirsi in contesti musicali, se privo di consapevolezza o se sconosciuto, per rovinarne l’esecuzione e soprattutto bene fa quella popolazione che acconsente di suonare sui palchi la musica popolare se non col contagocce, se non dopo un percorso di presa di coscienza dell’importanza di tali musiche. Il punto, attenzione, non è se sia bene o meno suonare sui palchi (anche se la musica popolare è in antitesi con tale concezione), ma come lo si fa, con quale spirito e con quale livello di conoscenza, ma soprattutto con quale intenzione di raccontare, spiegare e diffondere il significato di tali musiche e canti.

Le questioni sociali e la musica popolare

Quello che Gramsci ha messo maggiormente in evidenza nei suoi studi sul folklore è la funzione del racconto popolare, soprattutto attraverso il canto. Nel canto si raccontano storie e si trasmette, criticamente, la propria concezione del mondo, in modo da partecipare attivamente alla storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità. Dunque la funzione del canto è di trasmettere storie, informazioni e creare una coscienza popolare.

A ben vedere, tutti i canti popolari hanno avuto, in passato, questa funzione che Gramsci ha lucidamente riconosciuto e ha fatto riemergere al fine di costituire una cultura sub-alterna contrapposta a quella dominante. Ma negli ultimi anni pochissimi sono stati gli esempi di musicisti (o meri appassionati) che hanno riscritto la musica popolare e adattata ai tempi attuali. Il caso del Salento – ancora una volta – è emblematico di questa dicotomia tra memoria stantia e adattamento concettuale di musiche e canti popolari. Molti – forti dell’esempio della NdT – hanno concentrato la propria attenzione sul rinnovamento degli arrangiamenti, in modo da adattare la musica del folklore locale ad altri stili musicali, quasi in una sorta di complesso di inferiorità per cui la musica popolare, di per sé, alla lunga può stancare. E infatti stanca a tal punto che è sopravvissuta – evolvendosi – per migliaia di anni.

Altri artisti hanno invece, con fatica, adattato l’impianto musicale tradizionale ad esigenze nuove, in forma di denuncia, riscatto, racconto di storie attuali, ma gli viene impedito, in grandi eventi, di professare le proprie idee. E infatti non si può sottacere che – ormai da diversi anni – manifestazioni come la Notte della Taranta, accanto a molti organizzatori di eventi, osteggiano quei gruppi sociali che vorrebbero ottenere voce da eventi mediatici così importanti per porre all’attenzione del grande pubblico tematiche sociali attuali e scottanti, quali lo scempio ambientale, denunciando opere impattanti sul territorio quali il gasdotto TAP, l’avvelenamento delle falde acquifere, la presenza di petrolchimici, acciaierie e centrali elettriche che deturpano l’ambiente e danneggiano la salute pubblica e tante altre tematiche che – secondo una legge naturale e storicistica – sarebbero proprie delle culture popolari e che ne rappresentano l’intima essenza.

Se Gramsci fosse vivo oggi direbbe che il folklore è regredito di nuovo a mera spettacolarizzazione pittoresca di fantasmi del passato ormai morti e privi di senso, che la cultura dominante ha sotterrato la cultura popolare, piantando il proprio vessillo sulle ceneri fumanti di memorie ormai stantie e prive del loro significato più vivo e che la tradizione, così com’è ora, è solo mero servilismo a logiche egemoniche, nell’illusione per cui la tradizione è l’espressione di un’identità locale ma dominata da un’unica cultura globale.

Forse Gramsci non userebbe parole così banali, ma il concetto resta: la tradizione e le espressioni musicali del folklore attuale non rappresentano più alcuna concezione del ruolo del popolo nella storia e nell’attualità. Il popolo, oggi, si è asservito alla cultura egemonica e chi canta sui palchi nemmeno se n’è accorto.

Il desiderio di droga

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Ogni anno, quando parte la stagione estiva, animata da feste, concerti, discoteche stracolme di gente desiderosa di ballo&sballo, parte puntualmente la rassegna stampa, ormai quasi quotidiana, in tema di droga: sequestri di droga, arresti di spacciatori, i pericoli nell’assunzione di droghe, gli effetti devastanti delle droghe sui giovani e via discorrendo.

Allora, partiamo da un assunto semplice: l’argomento è tanto vecchio quanto di attualità. Sempre, ogni anno, almeno dagli anni Ottanta ad oggi, viene proposto e riproposto in tutte le salse e fa sempre presa (così come il sesso, la violenza o l’ammoree). Quindi mi son chiesto: ma perché non ne parlo pure io? Magari ci butto dentro un po’ di pensieri, di teorie, di considerazioni personali e contribuisco ad ampliare la già tanto abbondante letteratura sul tema. Massì, dai, facciamolo.

Però, assunto che l’argomento è vecchio, trito e ritrito, vorrei porre l’accento su due concetti tanto banali quanto spesso trascurati: non esiste la droga, semmai esistono le droghe; concetto ovvio, direte voi, ebbene provate a dirlo a chi fa le pubblicità progresso, ai genitori o – peggio – ai giornalisti che dicono sempre – banalmente – che la droga fa male, non curandosi affatto di spiegare che ogni droga nasconde diversi desideri (e questo è il secondo concetto) e quindi diverse cause che danno origine alla voglia di droga. Ma, peggio ancora, trascurano un altro aspetto ancora più ovvio: anche le droghe legali fanno male.

La droga legale e quella illegale

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Lo sappiamo tutti e sembra inutile ripeterlo, ma anche alcool e sigarette sono forme di droga, no? Entrambe hanno le caratteristiche tipiche delle droghe: alterano lo stato psico-fisico, creano dipendenza e provocano – in caso di abuso – problemi di salute e, in casi estremi, a lungo andare, anche la morte. Eppure sono droghe legali, come legali sono tante tipologie di medicinali che contengono gli stessi principi attivi di altre droghe (illegali), però socialmente sono accettabili, perché sono consentite per legge.

Quindi, riflettendo meglio, che differenza c’è tra una bottiglia di Jack scolata in una sera, 20 gocce di Lorazepam, una canna o una pasticca di Prozac? Per quanto riguarda le cause per cui si assumono, gli effetti (desiderati e non) o le conseguenze psico-fisiche, nessuna. Ma proprio nessuna. Per quanto riguarda, invece, l’accettazione sociale, quest’ultima è influenzata dalla legge, quindi dalla politica che – in nome della salute pubblica, del monopolio di Stato e della comunità scientifica internazionale – stabilisce cosa è legale e cosa no.

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E’ facilissimo procurarsi droghe legali su internet

Non esiste un concetto univoco di droga

Questa scelta arbitraria di decidere quali sono le droghe illegali e quali quelle legali è dimostrata anche da un’altra cosa: non esiste, nel nostro sistema penale, una definizione univoca di droga.

Esiste per tante altre cose (si sa, per esempio, cos’è lo sfruttamento della prostituzione, cos’è la diffamazione o cos’è un atto sessuale), ma non per la droga, per cui esiste solo un elenco di sostanze psicotrope illegali continuamente aggiornato dal Ministero della Salute. Eppure sarebbe facile, per il Legislatore, definire il concetto di droga. Non viene fatto semplicemente perché, sennò, verrebbero ricompresi anche l’alcool, il tabacco e tutti i medicinali per l’ansia, la depressione, l’insonnia, ecc.

Quindi si preferisce agire così, a tentoni, includendo di volta in volta le nuove sostanze psicotrope. Il ché, come tutti ben sappiamo, lascia ampio margine di manovra a quelli che – ogni giorno – inventano nuove smart drug, cioè droghe legali, i cui principi attivi non fanno parte dell’elenco e quindi, teoricamente, fino ai successivi aggiornamenti dell’elenco, possono essere spacciate senza alcuna conseguenza penale.

Insomma, se ci troviamo in questa situazione che ha del tragicomico (ma che è sì pericolosa, perché non sappiamo gli effetti delle nuove sostanze né con cosa vengono preparate) è solo colpa di scelte politiche che avevano senso negli anni Cinquanta, ma che oggi, per inerzia, perbenismo, lecchinaggio a Chiesa e case farmaceutiche, non vengono messe in discussione.

Il desiderio e il piacere

L’altro elemento che spesso molti trascurano è il desiderio.

Desiderio è una bella parola, ma che nasconde una forte dose d’inquietudine. Già, deriva dal latino de-sidus, cioè mancanza di stelle. Chi desidera, quindi, è insaziabile, perché brama qualcosa che non potrà mai avere e allora cerca di riempire la mancanza, ma non riempie nulla.

A questo concetto, prima dei latini, ci era arrivato Platone, con la metafora dei pivieri (charadriói), uccelli famosi perché si nutrono e defecano simultaneamente, quindi devono riempire un vuoto continuo, o dei morti dell’Ade, costretti a versare acqua in una giara forata, consapevoli che mai si riempirà.

Beh, in fondo anche ubriacarsi tutte le sere o prendere qualche goccia di valium è una forma di riempimento infinito di una giara bucata e drogarsi è quindi la stessa cosa: è desiderio, è voler riempire un vuoto che sarà pure sociale, individuale, causato dalla perdita dei valori, quello che è, fatto sta che è un vuoto incolmabile.

Lo sballo non è altro che una forma di alienazione dalla realtà, quindi un voler fuggire – per qualche ora – da quella vita normale fatta di noia, assenza di regole primarie (famiglia e scuola, in questo senso, hanno fallito miseramente) e di prospettive, difficoltà ad interagire nel mondo reale, isolamento, individualismo sfrenato, nichilismo dei valori e dell’affermazione del proprio sé sociale.

Il desiderio è sotteso al nulla, ad una mancanza

E con cosa colmi, almeno apparentemente e per poco tempo, quella mancanza? Con qualcosa di bello, di buono, di piacevole. Già, perché quasi tutti trascurano un aspetto essenziale nel comprendere il fenomeno, cioè che la droga è piacevole: le canne ti rimbambiscono e ti rilassano, l’ecstasy ti rende euforico e ti fa ballare tutta la notte, la cocaina ti eccita e ti stimola, l’eroina ti anestetizza e ti sottrae, per un po’ di tempo, alla fatica di vivere.

Se le droghe non fossero piacevoli non avrebbero senso di esistere e se è difficile uscirne non è perché ti rendono assuefatto (ciò vale forse per alcune droghe, non per tutte), ma perché non hai altri mezzi per riempire quel vuoto incolmabile e quella giara sempre più lesionata. Ma ad ogni droga corrisponde un desiderio e, in fondo, anche una funzione.

Le tipologie di droga e le funzioni sociali

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Hashish e Marijuana, le droghe leggere dei centri sociali

Le canne (o spinelli, anche se è una locuzione antica) sono tra le più diffuse droghe leggere in Italia e storicamente si attribuiscono a quegli ambienti alternativi, radicali, di sinistra, che molti identificano nei centri sociali.

Sia chiaro, le canne sono diffuse in modo capillare in tutti gli strati sociali, ma effettivamente si possono ricondurre a quella filosofia pacifista e non violenta tipica dei no-global alternativi, altromondisti e vagamente di sinistra. Perché? Primo perché si fumano quasi esclusivamente in compagnia (quindi è una droga socializzante) e poi perché le canne rilassano, rincoglioniscono e amplificano quel concetto del non ho voglia di fare un cazzo, molto diffuso in certi ambienti.

Si trova a costi bassi (da qui la capillare diffusione, anche tra gli strati sociali a basso reddito) ormai dappertutto, in particolare in eventi o locali alternativi (a cosa, non si sa più…).

Per il fatto che vengono annoverate tra le droghe leggere, si parla spesso di legalizzarle. L’argomento legalizzazione delle droghe leggere merita un approfondimento a sé e non mi pare il caso di trattarlo in questa sede, anche perché sull’argomento c’è molta confusione e un’abbondante letteratura, persino una proposta di legge.

L’ecstasy, la droga che toglie fatica e paura

E’ la droga più pericolosa per la salute ma la più diffusa nelle discoteche di tutta Italia. Ci sarà un perché? Se vogliamo sintetizzare gli effetti piacevoli dell’ecstasy, sono due: elimina la fatica fisica e riduce paure e tensioni sociali.

Insomma, chi assume questa droga può ballare tutta la notte, anche in modo esagerato, e non sentire fatica (da qui i numerosi casi di collasso cardiaco, perché il fisico, quando è stanco, ci lancia segnali che, invece, l’ecstasy nasconde), ma soprattutto perde quell’inibizione sociale che, spesso, è la prima causa delle frustrazioni nei primi approcci con una persona con cui si vorrebbe interagire.

Insomma, è una droga che nasconde due fatiche: la fatica fisica e la fatica d’intessere rapporti. E’ per questo che è la più diffusa tra giovani e giovanissimi, perché sono i primi a subire gli effetti dell’incapacità di allacciare relazioni reali e sono i primi ad aver perso quel concetto di trasgressione tipico degli assuntori di droga.

L’ecstasy, quindi, non è una droga, è solo un qualcosa che sciogli in un cocktail e che ti fa ballare, ti fa divertire, ti fa conoscere quella tipa che balla accanto a te e con cui, in condizioni normali, non ti sogneresti mai di provarci. Non capire questa sottile trasformazione della percezione dell’ecstasy significa fallire qualsiasi campagna di sensibilizzazione e qualsiasi tentativo di repressione del fenomeno.

La cocaina, la droga dell’efficientismo

In una società sempre più evoluta, che ti spinge a dare sempre il massimo di te, che ti induce a prestazioni che vanno oltre la tua tolleranza soggettiva, che ti oggettivizza e ti parametra ad altri (migliori di te), che ti dice o raggiungi il massimo o sei fuori, tu non hai più legami con il tuo corpo, le tue sensazioni, la tua soglia di fatica, i tuoi limiti soggettivi; ti senti inadeguato, non perché lo sei, ma perché gli altri ti dicono che devi andare oltre. Oltre a cosa? Oltre agli altri.

Devi alzare la tua asticella sempre un centimetro sopra gli altri, sennò non vali, sei superato, fuori, qualcun altro, più efficiente di te, ti sostituirà. E poi, oltre dove? Oltre in tutto: nello sport, nel lavoro, nei rapporti sociali, in tutto. E quindi la cocaina è quella droga che ti stimola, ti fa sentire meno la fatica, ti rende più efficiente.

Peccato che, finito l’effetto, torni a competere con la tua inefficienza, che altro non è se non la pura e semplice normalità. La coca, quindi, è anti-umana, è la negazione dei limiti soggettivi e la risposta ad un vuoto interiore provocato da richieste di performance sempre più pressanti e competitive.

E’ vero che la coca è una droga socialmente snob (dato l’alto costo) e accettata, assunta, diffusa da personaggi d’alto rango, politici, imprenditori e gente che conta, ma un’inchiesta del 2008 di Loris Campetti intitolata “quanto tira la classe operaia” mise in luce l’uso eccessivo di coca tra la classe operaia, appunto per poter competere con i ritmi incessanti dell’efficientismo moderno.

Tra l’altro, negli attuali tempi della crisi economica, anche il costo della coca è sceso ed è appannaggio non solo degli snob, ma anche di ampi strati sociali.

L’eroina e il buco che torna

L’eroina è una droga sporca, la più condannata socialmente, dai media e dai benpensanti, ma la più diffusa tra gli anni ’70 e ’90. Nell’immaginario collettivo è la droga dei tossici, degli ultimi, di quelli che ciondolano per strada, con la faccia smunta e gli occhi ormai persi nel vuoto, per raccattare qualche spicciolo e comprarsi un’altra dose.

Pensavamo che fosse finita, ma in realtà oggi s’insidia tra i giovani e meno giovani e si apre ad ampi strati sociali, a causa anche del bassissimo costo a cui si trova. L’eroina è la droga sporca per via del fatto che bucandosi con la stessa siringa si rischia la diffusione di malattie infettive e pericolose, ma è la droga di chi cerca l’anestesia totale dal mondo, di chi vuol sentire quel piacere che non è sballo, ma è abbandono, è morte apparente, è un viaggio fuori dalla realtà.

Se la coca costa tanto, le canne si fumano in compagnia, l’ecstasy è la droga del sabato sera, l’eroina è l’infame compagna della quotidiana solitudine, dell’inadeguatezza di stare al mondo, quel mondo da cui fuggi per non sentirne il dolore.

Le campagne di sensibilizzazione sbagliate e la cultura dell’anti droga

Ogni droga, quindi, ha bisogno di diverse cure, di diverse campagne di sensibilizzazione. Dire la droga fa male oppure crea dipendenza è banale, inutile e fuorviante. Una vera campagna informativa contro le droghe (e non la droga) dovrebbe avere target differenti (come si dice nel gergo dei marchettari) e parlare linguaggi differenti, dovrebbe stuzzicare i destinatari sulle cause, non sulle conseguenze, ma soprattutto dovrebbe smettere di puntare l’attenzione sulle dipendenze.

L’assuefazione fisica e psichica è l’ultimo dei problemi, lo è nelle droghe come lo è nel fumo di sigaretta. Peccato che a leggere il sito del Ministero della Salute, troviamo molta ignoranza in materia, addirittura si afferma che la dipendenza psichica è una dipendenza che non passa mai del tutto. Chiaramente con questa rappresentazione meccanicistica del problema non si arriverà mai ad una soluzione.  

Sono le cause e il contesto sociale in cui si sviluppano queste forme patologiche ad essere il fulcro del problema

Bene fanno le comunità terapeutiche ad indagare il vissuto di ogni persona che le frequenta (tossicodipendente è un’espressione che non amo usare, troppo brutta e inesatta), ma sappiamo che anche questa metodologia lascia il tempo che trova.

Perché nel momento in cui hai disintossicato con i farmaci la persona e hai creato, in comunità, uno scudo sociale, lo hai effettivamente aiutato, ma quando tornerà nel suo ambiente originario, gli scudi si romperanno e la voglia di riprendere tornerà inesorabilmente. Un po’ come accade a Mark Renton in Trainspotting: smette di bucarsi, con grande impegno, poi ritrova i suoi vecchi amici eroinomani e torna a bucarsi, così tutti i suoi sforzi si vanificano nel giro di pochi minuti.

Come con il fumo di sigaretta, così con la droga non basta un semplice cartello “vietato fumare” per far smettere improvvisamente alla gente di fumare, occorre creare una vera cultura dell’antidroga. Quindi, così come se oggi accendo una sigaretta e il gestore del locale o gli avventori mi si palesano ostili e mi offendono, così in discoteca potrebbe accadere la stessa cosa, se il ruolo della scuola, della famiglia, dei gestori dei locali e degli avventori fosse proattivo e non passivo.

Sembra facile a dirsi, e in effetti lo è

Non è un processo che si svolge dall’oggi al domani, ma occorre avere consapevolezza che per ridurre un fenomeno bisogna conoscerne le cause, non solo gli effetti. Quindi una campagna di sensibilizzazione che punta sul fatto che la droga uccide e la vita è più importante, è completamente fuori strada, perché è proprio la vita che porta tanta gente a drogarsi. Anzi, non la vita in sé ma la malavoglia di vivere, quindi se vai a dire ad un ragazzo che la vita è importante e la droga fa male, lo convinci ancora di più a provare tutte le droghe possibili!

Allora proviamo un attimo a capire le cause del fenomeno, sempre tenendo a mente che ad ogni droga corrisponde un malessere di fondo ben diverso, come diverso è il contesto sociale o il beneficio che si vuole trarne, smettiamo di parlare di dipendenze (nessuno è dipendente e le droghe non creano nessun fenomeno irreversibile né fisico né psicologico) e soprattutto smettiamo di considerare le droghe come elementi trasgressivi. Non lo sono più, ormai fanno parte della normale fuga dalla normalità.

La trasgressione, da quando abbiamo tolto i paletti morali, non esiste più e quindi le droghe non sono trasgressive, perché, anche se vietate, sono facilmente reperibili. E poi, per favore, smettiamola con queste insulse campagne di sensibilizzazione che parlano di quanto è bello vivere e quanto è cattivo drogarsi. Dopo aver visto questo video mi vien voglia di farmi un cocktail a base di cicuta.

Uscite dai Social!

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Ovvero, la truffa dei Social Network che ci controllano, influenzano e decidono su di noi con oscure linee guida.

I social, si sa, sono nati per far interagire le persone, mantenerle in contatto, creare nuove relazioni, condividere ricordi, esperienze, pensieri, far conoscere prodotti o servizi, per vendere sé stessi e per far conoscere e diffondere battaglie sociali o ambientali.

Insomma, sono una cosa buona, almeno per come sono stati pensati all’inizio. Però dal 2006 ad oggi (anno in cui Facebook, il primo Social Network, ha iniziato a diffondersi in Italia) molto è cambiato, in particolare nella gestione delle relazioni da parte di una sempre più spudorata filosofia del controllo e delle influenze sociali, non tanto quella di Orwelliana memoria (che ha ispirato la concezione del Grande Fratello e che trova le sue radici nel Panopticon di Jeremy Bentham), ma più semplicemente e meschinamente quella della pianificazione strategica degli obiettivi aziendali.

Secondo tale visione gli utenti sono considerati dei meri prodotti da cui trarre ogni informazione possibile finalizzata a vendere prodotti e servizi cuciti su misura, ma, dato che la frammentazione è difficile da gestire, finalizzata soprattutto a influenzare gusti e tendenze per poter, al fine, attuare pratiche commerciali di massa precedute da esperimenti sociali di massa.

E’ evidente che in questo contesto la politica internazionale, di stampo capitalista, è attratta da questi modelli come una mosca è attratta dalla cacca, per cui entra con tutti e due i piedi nella gestione dei Social, favorisce e influenza le linee guida per la moderazione dei contenuti, decidendo cosa è conveniente diffondere e cosa, invece, va relegato nell’oblio delle relazioni sociali virtuali o, peggio, va deriso, annichilito, strumentalizzato.

Detto in altri termini, molto più sintetici, i Social sono nient’altro che prodotti per calmierare il mercato delle relazioni sociali e per controllare, gestire e razionalizzare la massa (a)critica di contenuti teoricamente liberi ma influenzati, mentre quelli potenzialmente dannosi per la tenuta del sistema sociale vengono marginalizzati, derisi (anche e soprattutto dagli stessi utenti) e, al limite, oscurati. Nemmeno così è chiaro? Allora ti rubo solo 2 minuti per spiegare meglio il concetto. Ma, come mi piace fare sempre, parto dagli inizi.

La genesi di Facebook

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Mark Zuckerberg, l’uomo da un miliardo di dollari l’anno

Tra il 2003 e il 2004 un giovanissimo Mark Zuckerberg creò un portale finalizzato a rendere interattivo sul Web il classico faccia-libro dei college americani (da qui il nome) che raccoglieva foto, nome e corsi frequentati da ogni studente.

Dato il massiccio successo del Social, questo si diffuse rapidamente anche fuori dai campus universitari, trasformandosi da un Social per studenti a un Social per chiunque. Non più solo studenti, ma tutte le persone potevano entrare in contatto: parenti, amici, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro, ecc.

L’idea era buona e, di lì a poco, portò alla nascita di una nuova concezione del web: non più perso nell’anonimato di nick e avatar, ma popolato da persone reali, cioè da persone che – volontariamente – inserivano sul social i propri dati personali: nome, cognome, luogo e data di nascita, foto personali, ecc., il tutto nel nome dell’allaccio dei rapporti.

Una vera rivoluzione digitale, insomma. Non che il web sia cambiato da quel momento, attenzione, perché ancora oggi, a distanza di 13 anni, sopravvivono forum, blog o chat popolati da pseudonimi e nick, ma è innegabile che Facebook abbia contribuito alla identificazione degli utenti del web.

Ma il sistema non funzionava…

Però il “sistema”, dopo pochissimo tempo, iniziò a scricchiolare, perché in effetti la gente gradiva la possibilità di interagire con persone conosciute o di riallacciare i rapporti con persone perse nell’oblio dei ricordi e magari residenti in altre parti del mondo (tanto che, per anni, è sopravvissuta la moda di creare gruppi di gente con lo stesso cognome, per ritrovare radici comuni), ma non gradiva affatto il confronto di idee diametralmente opposte alle proprie.

Insomma, molte persone, restie al confronto e al dibattito, cominciavano a disaffezionarsi allo strumento perché sgradivano la presenza, sulla propria home, di contenuti dissimili dalle proprie convinzioni.

L’algoritmo che ti fa sentire a tuo agio

Zuckerberg, che non è fesso e che spesso ha usato gli strumenti statistici di gradimento del proprio social (abusandone a volte) per capire le tendenze dei propri utenti, ha corretto il tiro creando un algoritmo che si chiama EdgeRank, il quale sceglie i contenuti da far vedere agli utenti in base ai contenuti che essi gradiscono tramite like, commenti e condivisioni.

Oddio, l’algoritmo cattivo è nato “ufficialmente” per gestire l’enorme mole di contenuti pubblicata sul social (quindi sarebbe impossibile mostrare tutto ciò che viene pubblicato dai propri contatti), ma di fatto apre a un nuovo interessante scenario sociale: l’utente viene inserito in una sorta di area di confort, in cui vede solo ed esclusivamente i contenuti di persone con cui interagisce maggiormente e che, quindi, apprezza.

Quello che i cervelloni della Silicon Valley cercano di fare è di trattenere quanto più possibile i propri utenti sul Social, mostrando loro cose che apprezzano. E’ evidente che questo sistema da un lato evita il confronto (o lo scontro) di visioni opposte, ma dall’altro rimbambisce le coscienze perché contribuisce a creare una visione (seppur virtuale) di un mondo conforme alle proprie credenze, illusioni e aspirazioni.

Un modello vincente

E’ inutile dire che il successo di questo “modello” è stato mutuato da altri Social, come Twitter, You Tube e Google Plus ed è stato attenzionato dalla politica globale.

Già, perché Zuckerberg, Larry Page, Sergey Brin e oggi il nuovo CEO Sundar Pichai (vertici di Google) si incontrano regolarmente con la Casa Bianca e persino con il Pentagono per questioni di sicurezza nazionale, ma soprattutto per definire le politiche dell’informazione globale.

Eggià. E’ recente la notizia per cui i vertici di Facebook e di Google hanno siglato un accordo volto a ridurre le bufale e le fake-news su internet. Come? Attraverso potenti algoritmi in grado di riconoscere le notizie false e relegarle nell’oblio della rete (in settima o ottava pagina su Google o in fondo alla home su Facebook), perché al giorno d’oggi le notizie scomode (o false, chissà) non si cancellano più (altrimenti si griderebbe allo scandalo e alla censura) ma semplicemente si relegano in fondo, dove solo gli utenti più certosini arrivano, ma dove la massa di utenti non arriva.

L’Italia finalmente ha una scusa per regolamentare la rete

parlamento

Pare ovvio dire che questo rimedio è stato invocato dalla classe politica e dai media nostrani come un toccasana per l’informazione “vera” (leggasi: di regime), perché, con la scusa della lotta alle bufale e alle fake-news, finalmente si ha una scusa valida per regolamentare un settore delicato e oggetto – da quasi 20 anni ormai – di disegni di legge sempre discussi ma mai approvati.

Ora, invece, la proposta attuale prevede l’istituzione di un’Autority pubblica e indipendente (anche dal sistema giudiziario) che, attraverso le segnalazioni, provveda a far cancellare i contenuti falsi e diffamatori in modo rapido e autonomo, cioè senza il preventivo passaggio da un organo giudiziale che – data la lentezza delle procedure – non permetterebbe di rimuovere in tempo contenuti potenzialmente diffamatori o pericolosi.

Le intenzioni sono corrette, sì, ma senza un contraddittorio saremo certi che i contenuti siano effettivamente bufale, fake-news, diffamazioni o non invece articoli scomodi al sistema di potere? Se è vero che le Autority sono organismi indipendenti, è anche vero che sono – di fatto e immancabilmente – sbilanciati verso chi li ha nominati (o li controlla o semplicemente ne conosce componenti e dinamiche interne…) piuttosto che verso il semplice cittadino.

Del resto in Italia siamo abituati al fatto che ogni legge liberticida è lastricata di buone intenzioni.

Ma questo sistema che si vuole introdurre in Italia, è già di fatto applicato dai gestori dei Social e tutti quanti ne conosciamo l’uso e le finalità: le cosiddette “linee guida”.

Le linee guida per la moderazione e l’arma della segnalazione

segnalazione contenuti social facebook

A chi non è mai capitato di segnalare a Facebook o a Twitter un contenuto ritenuto offensivo? Si tratti di pornografia, odio o violenza, offese o insulti, più o meno a tutti quanti è capitato di segnalare contenuti sgraditi.

E quante volte Facebook ci ha risposto che i contenuti non sono stati rimossi perché non violano le linee guida? Capita soprattutto quando si segnalano gruppi estremisti che inneggiano all’odio razziale, al fascismo o alla violenza.

Rispettano le linee guida, sì.

Ma l’immagine di un quadro, come il Cupido di Caravaggio, viene immediatamente censurata perché non rispetta le linee guida. Ciò accade da anni ed è successo per un quadro di Modigliani, il Nudo di Courbet e per tantissime altre opere d’arte che contengono pure un accenno di seno! E quindi? Che criteri usa Facebook per stabilire cosa è conforme e cosa no? Per non appesantire la lettura, vi rimando a quest’ottima inchiesta del Guardian.

La realtà è che i Social hanno regole tutte loro per decidere cosa è sconveniente e cosa no, regole che – ovviamente – non sono né democratiche né socialmente condivise da chi usufruisce del servizio, semplicemente sono imposte e decise dagli sviluppatori e dai CEO dei Social, in combutta con la politica e, chiaramente, con i finanziatori.

E’ qui che casca l’asino.

Il caso Tartaglia

Ricordate il caso Tartaglia? L’assalitore di Berlusconi? Successe nel 2009. Dopo il fatto, nacquero diversi gruppi su Facebook, che inneggiavano all’assalitore. Nessuna segnalazione fu sufficiente a rimuoverli, ma bastò una telefonata dell’ex Ministro Maroni al CEO di Facebook per far rimuovere i contenuti.

Ecco, questa è la summa della democrazia sui social. E attenzione, badate bene, non è un problema di poco conto. Qualcuno risponderebbe che i vertici dell’Azienda possono decidere liberamente cosa far pubblicare e cosa no, perché in fondo il Social è casa loro e noi siamo “ospiti”. Ma oggi non è più così.

I social sono una cosa pubblica

I Social influenzano pesantemente ogni singolo aspetto della vita di una persona, persino della vita di un’Azienda o di una formazione politica, sono entrati così capillarmente nelle nostre vite e nelle nostre scelte quotidiane da esserne ormai parte integrante, quindi una discussione sulla democratizzazione dei Social sarebbe più che opportuna.

Andrebbe fatta almeno per riflettere su cosa sia davvero preminente per la tenuta sociale e democratica di un Paese, cioè se contano più le Costituzioni e le Leggi o il capriccio di un CEO che vive dall’altra parte del Mondo e decide le sorti di persone, gruppi, partiti o Aziende, così, magari di testa sua oppure influenzato da finanziatori e potenziali avversari delle sopracitate.

Il problema, come vedete, non è banale e comprende molti aspetti politici e giuridici: dalla gestione dei dati personali alla privacy degli utenti, all’educazione dei figli (come crescerà un figlio se sui social ha accesso libero a contenuti di odio e violenza?), alla diffusione di ideologie e concetti distorti, all’alfabetizzazione emotiva e, non ultimo, alla governance del web.

Gli esperimenti social

Social

Una cosa di non poco conto (se non vi bastassero quelle appena raccontate) è che Facebook ci usa costantemente per esperimenti sociali di vario tipo.

Per esempio, nel 2012 ha controllato quanti utenti iniziassero a digitare uno status che superava i 5 caratteri e che non veniva pubblicato entro 10 minuti dalla composizione. Ciò per capire cosa avrebbero scritto e cosa ha spinto gli utenti a non pubblicare il proprio aggiornamento. Ma non solo.

Le foto profilo con l’arcobaleno (per appoggiare i diritti dei gay) o con la bandiera francese (in segno di vicinanza ai francesi, colpiti dagli attacchi terroristici) non sono altro che esperimenti su cavie di laboratorio (cioè gli utenti che l’hanno fatto…) per capire quante persone si adeguano agli atteggiamenti collettivi e, quindi, sono facilmente influenzabili dalla viralità dei contenuti.

Tra l’altro la sempre più invasiva diffusione di contenuti di bassa qualità, per non parlare delle fake news, alza sempre più l’asticella dell’analfabetismo funzionale, che già in Italia ha raggiunto livelli allarmanti.

Gli esperimenti più nascosti riguardano i gusti e le tendenze commerciali

Quindi ogni volta che partecipi a un test tipo “cosa farò da grande” o “quale personaggio storico sarei” o, ancora, “chi ero in una vita precedente”, sappi che Facebook o aziende controllate, stanno studiando i tuoi comportamenti, i tuoi gusti e le tue tendenze. Perché? Per capire chi sei, cosa fai, cosa ti piace, per chi voteresti (esperimento già fatto nel 2010, con successo, e per cui le influenze sono state significative negli USA…), che gusti sessuali hai, come ti poni con la gente, ecc. Tutto nel nome del “sano divertimento social”, che per te è inoffensivo, certo, ma per loro rappresenta una forma di guadagno, di controllo e di influenza, commerciale e soprattutto politica.

Quindi se ti dichiari antisistema, ma poi partecipi a questi test (inconsapevolmente, ovvio), sappi che sei ben integrato nel sistema e ne esci fuori solo in un modo.

Uscite dai social!

facebook social exit

Uscite dai social non è un’esortazione, perché so benissimo che – almeno nel breve e medio periodo – ciò non accadrà e che ormai siamo tutti assuefatti dalla droga sociale e dal nostro alterego virtuale che ci consente di buttare sui Social tutte le nostre inadeguatezze reali e di crearci un personaggio, più o meno credibile e famoso.

Io, per esempio, non ci sto più. Sopravvivo solo su twitter, consapevole che, purtroppo, è un modo per far conoscere i miei quattro articoli ai miei quattro lettori.

Tra l’altro sappiamo tutti benissimo che la fama sui Social non corrisponde né alla fama reale né ad un nostro appagamento spirituale (né tanto meno materiale…), però anche questo fa parte della pia illusione – tutta moderna – che l’apparire virtuale conta più dell’essere reale.

Uscire è l’unico modo per salvarci

Uscite dai Social non è un’esortazione, è solo la lucida consapevolezza che è l’unico modo per salvarci, per smettere di essere cavie, per finirla di essere influenzati, per tornare ad essere persone e non prodotti e, per l’effetto, per ripristinare – questo sì nel lungo periodo – quel minimo di socialità e senso critico che ci consentirà, un giorno, di riprendere in mano le sorti del nostro Paese e di tornare a leggere, informarci e discutere faccia a faccia, magari arrabbiandoci a voce alta (e non pigiando con forza sulla tastiera e reprimendo quella rabbia annebbiata dalla luce del pc o del telefono).

Insomma, di tornare a quella vita reale fatta di scelte consapevoli che i cosiddetti nativi digitali non riescono nemmeno ad immaginare. Ma ciò non vuol dire abbandonare internet, semplicemente vuol dire abbandonare i Social, che di sociale – francamente – hanno un bel nulla e che ci stanno facendo dimenticare – a poco a poco – la vera socialità, quella fatta di sguardi, parole, toni e gesti che rappresentano la vita vera.

Quella vera, non quella che passiamo rincoglioniti davanti ad uno schermo, illudendoci di essere connessi col mondo ma in cui siamo solo prodotti marci, da svendere al primo inserzionista di turno, per venderci cazzate che non ci servono o per estorcerci (volontariamente, ma in modo indotto) voti e consensi, modificando, senza che noi ce ne accorgessimo, pensieri, ragionamenti, sogni e illusioni.

Il tutto mentre clicchiamo sull’ennesimo like o postiamo il buongiorno caffè? a un contatto, amico e compaesano, che non sa nemmeno chi cazzo siamo. Lui non lo sa, ma un tizio, dall’altra parte del Mondo, lo sa benissimo. E si sfrega le mani.

Università, tagli e scioperi. Tutti hanno torto e ragione.

università tagli scioperi

Le università rappresentano il primo volano di crescita di un Paese, perché trasmettono cultura e, grazie alla ricerca, permettono ad un Paese di progredire. Attenzione, quando si parla di ricerca non s’intende solo la ricerca scientifico-tecnologica, quella è utile, sì, ma non è sufficiente. Il tecnismo, da solo, non basta a rendere un Paese culturalmente e socialmente maturo, anzi, se lasciato da solo rappresenta un pericolo. La ricerca è essenziale in tutti i campi, da quello giuridico-economico a quello filosofico e letterario, a quello politico, sociologico e antropologico. Insomma, tutti i campi del sapere hanno bisogno di ricerca.

Peccato che negli ultimi decenni, a partire dalla riforma Berlinguer, voluta dal centro-sinistra (Ministro Luigi Berlinguer, sotto i governi Prodi e D’Alema, da non confondere con il cugino Enrico, come spesso – oddio – mi è capitato di sentire…) e poi con la riforma Moratti (governo Berlusconi) e i successivi correttivi, le Università siano state considerate come meri istituti professionalizzanti, però dotati di autonomia. Ciò ha comportato l’abbassamento generale della qualità della didattica (pensiamo, per esempio, al sistema dei crediti formativi legato al numero di ore di lezione e al numero di pagine dei manuali) e ad una corsa sfrenata all’acchiappamatricole, con offerte formative spesso discutibili (corsi di laurea triennali inutili, corsi interfacoltà superflui) e slegati dal mondo del lavoro (molti corsi triennali non formavano figure appetibili alle Aziende). Se l’intento delle riforme era quello di legare Università e Lavoro, hanno fallito miseramente (come fallirà – e ciò merita un articolo a parte – l’alternanza scuola-lavoro voluta dal governo Renzi).

I fondi sempre più esigui alle Università

Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che è quel fondo destinato a finanziare le Università da parte dello Stato, è in rotta di collisione ormai da quasi 20 anni. Con le varie riforme e soprattutto a partire dagli anni della crisi economica il fondo è drasticamente calato, il ché ha comportato un notevole abbassamento della qualità formativa universitaria e il fuggi fuggi generale dalle Università del Sud (maggiormente colpite dai tagli) a favore di quelle del Centro-Nord. Basti pensare che l’art. 64 comma 13 della legge n. 133/2008 riduceva il FFO “di 63,5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013”. Le manovre correttive successive hanno ridotto i tagli al FFO, però non hanno concesso fondi “a pioggia”, bensì sulla base di criteri premiali stabiliti dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR). E’ qui che casca l’asino. Vi chiedo giusto 20 secondi per leggere il paragrafo successivo e per capire come funziona l’attuale sistema di finanziamento alle Università.

l’ANVUR

Venne istituito nel 2006, con legge 286/2006, sotto il Governo Prodi, con Ministro dell’Istruzione Fabio Mussi (DS). L’Agenzia ha il compito di valutare le Università e la Ricerca con criteri piuttosto discutibili sul piano democratico, ossia i criteri non vengono elaborati da una discussione democratica (da un Parlamento o da un organo di raccordo tra Ministero e Università), ma da un’Agenzia che risulta formalmente autonoma, ma vigilata dal Ministero dell’Istruzione, tant’è che ultimamente le attività dell’ANVUR sono state oggetto di contenzioso giudiziale e la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha bacchettato l’ANVUR in merito ai criteri sulla valutazione delle riviste.

Già, è qui il punto focale della questione. L’ANVUR valuta le Università e l’operato del corpo docente soprattutto in base al numero di pubblicazioni fatte in certe riviste, da essi stessi indicate, e su cui il docente deve pubblicare, pena la decurtazione del finanziamento all’Università in cui opera. Quindi, per fare un esempio, se la rivista “il commento giuridico” (nome di fantasia) è accreditata dall’ANVUR e il docente pubblica tre articoli, di cui due con un semplice “errata corrige” (cioè una correzione formale, che nulla aggiunge al contenuto dello scritto), riceverà una buona valutazione (e quindi maggiori finanziamenti) rispetto ad un collega che pubblicherà 20 ottimi articoli su una rivista autorevole, internazionale e riconosciuta dalla comunità scientifica, ma non accreditata dall’ANVUR. Ciò comporta come corollario che il docente dovrà “farsi amico” l’editore e, molto probabilmente, seguire la sua linea editoriale, con buona pace della libertà della ricerca.

Dunque è facile immaginare che, nell’opacità dei criteri di valutazione e nelle scelte dell’ANVUR di finanziare in modo pressoché discrezionale le Università, si annidano le scelte politiche del Ministero che – controllando l’ANVUR – controlla di fatto il sistema universitario e ne lede l’autonomia, scegliendo chi finanziare e chi no, in un quadro in cui il FFO è misero e la vita dell’Università si gioca sul solo fondo premiale. Quindi, in buona sostanza, i docenti non sono più liberi di pubblicare sulle riviste universalmente riconosciute dalla comunità accademica internazionale, ma su quelle volute – in ultima analisi – dal Ministro e non sono nemmeno più propensi a fare ricerca, bensì a pubblicare anche roba trita e ritrita, l’importante è farlo dove vuole l’ANVUR!

Il baronato nell’università

Certo la colpa dello stato in cui versa l’Università non è solo della politica, anche i docenti hanno le loro colpe. Il sistema universitario italiano – nessuno escluso – è colpito dalle logiche baronali, per cui l’accesso alla carriera universitaria (dottorati, assegnisti, ricercatori) è appannaggio del docente politicamente più forte e autorevole nelle mura dell’Ateneo.

Non è certo un mistero che i concorsi per accedere al dottorato (a maggior ragione con borsa) siano truccati e cuciti su misura del candidato prescelto e che la logica di accesso allo status di assegnista o ricercatore è basata sull’obbedienza al docente e non sul merito. Ovviamente per mantenere quel misero assegno di ricerca, bisogna non infastidire né il docente né i suoi amici, anzi, a volte occorre sacrificare la propria dignità per rispettare le regole imposte dal docente o dal dipartimento da lui (o loro) controllato.

La denuncia della ricercatrice dell’Università di Pisa, salita recentemente alla ribalta nazionale, non stupisce nessuno di quelli che nelle università ci hanno studiato o combattono ogni giorno con il precariato e il nepotismo, fenomeni che colpiscono spesso, rispettivamente, chi vale e chi invece ha rapporti di parentela o amicizia con il docente, a discapito del merito. A Bari, per esempio, un intero corridoio di un dipartimento era l’estensione del nucleo familiare del docente. Ciò non giustifica le scelte ministeriali, ma è un chiaro indicatore che l’Università non brilla in meritocrazia e quindi eticamente non potrebbe fare la voce grossa con la politica, che non incentiva la meritocrazia. Tutto ciò è l’emblema dell’evangelico “Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello”.

Lo sciopero dei docenti dell’università

In questo desolante quadro i docenti, ormai stanchi di subire i tagli ai finanziamenti e i blocchi agli stipendi, hanno deciso di farsi sentire indicendo uno sciopero proclamato dal Movimento per la dignità della docenza universitaria. Lo sciopero nasce dopo anni di vertenze e numerosi – infruttuosi – incontri con il Ministero per lo sblocco degli scatti stipendiali, fermi al 2011. I tagli al FFO, massicci al Sud, gli stipendi bloccati e il carico di lavoro dei docenti, che si pagano l’acquisto di libri e materiale didattico con i propri soldi, insieme al progressivo depauperamento del sistema universitario, hanno portato i docenti a scioperare, per far conoscere alla popolazione lo stato in cui versa l’Università. Se da un lato mi sento di dargli ragione, dall’altro, però, penso che questa situazione sia stata anche voluta da loro. Non da tutti, è chiaro. Ma conosco (anche personalmente) numerosi docenti che, negli anni, hanno militato nei partiti, hanno ricoperto posizioni apicali (penso a Luciano Modica, ex rettore dell’Università di Pisa, che ha contribuito all’istituzione dell’ANVUR) e – come detto in precedenza – hanno approfittato dell’autonomia per fare i propri comodi e regalare posti di lavoro o di ricerca a parenti e pupilli.

Lo sciopero però, in fondo, è giusto e la speranza resta. La speranza di mettere al centro del dibattito politico un tema vitale per la cultura, l’economia e il progresso (materiale e spirituale) di questo Paese, in modo da correggere gradualmente le storture prodotte da ambo le parti, dalla politica nel ridurre alla fame l’unico vero strumento di determinazione culturale del popolo italiano e dal baronato nell’aver ridotto le Università a parentopoli e amicopoli. Mi auguro che ognuno tolga la trave dall’occhio dell’altro.

Il concetto di Cultura

Cultura

Cos’è la cultura? Quante definizioni ha? A cosa ci serve? Perché è importante riprendere la discussione sul tema? Con questo articolo cerco di dare tutte le definizioni possibili del concetto di “cultura” e di focalizzare l’attenzione su un tema di fondamentale importanza nei decenni a venire.

Il termine cultura ha trovato, nel corso della storia, una sovrabbondanza di significati tanto da risultare quasi impossibile una classificazione. Abraham Moles, nel 1967, faceva riferimento all’esistenza di più di 250 definizioni di cultura. Gli antropologi Kroeber e Kluckhohn tentarono di impostare una definizione di cultura di validità universale, ma registrarono circa 150 concezioni differenti.
Solo per fare qualche esempio, al giorno d’oggi si può utilizzare il termine in questione per una svariata cerchia di contesti:

”Ci sono enormi differenze culturali tra Oriente e Occidente”
”Umberto Eco è una persona di grande cultura”
”La musica pop è usata dai gruppi giovanili per affermare la loro identità culturale”
”La cultura di massa ha un effetto di omologazione”
”Le telenovela sono espressione della cultura sudamericana”
”La cucina italiana è parte della tradizione culturale del nostro Paese”
”Il dialogo tra le culture è necessario, ma difficile”

Ecco che possiamo trovare, in questi esempi, diverse concezioni di cultura. A grandi linee si può affermare che esiste un significato quantitativo (ossia il complesso di nozioni e conoscenze che un individuo possiede) o un significato sociologico, per cui in un gruppo sociale assumono una notevole importanza le rappresentazioni collettive, cioè gli insiemi di norme e credenze che il gruppo possiede. Esiste una concezione antropologica (che, del resto, ha fortemente influenzato quella sociologica), per cui la cultura rappresenta un insieme di norme, di credenze, di abitudini quotidiane più o meno accettati da tutti in una determinata comunità.
Ma procediamo con ordine. Per chiarire la portata di tali significati occorre soffermarsi sulle concezioni di cultura che, dalla civiltà Greca e Latina ad oggi, hanno caratterizzato tale termine, rendendolo un concetto diversamente interpretabile e altamente indeterminato, considerando lo sviluppo che tale termine ha avuto nelle diverse epoche storiche.

Cultura come processo di coltivazione

Il termine, di origine latina, deriva dal verbo colere, che significa “coltivare” e veniva dunque impiegato per indicare qualsiasi manipolazione della natura ad opera dell’uomo. Ma anche oggi si intende come l’insieme dei sensi operativi, legati al lavoro agricolo ed ai suoi risultati o all’allevamento di microrganismi (la cultura o coltura dei virus, della vite, dell’olivo, etc.).

I latini utilizzavano questo termine, però, non solo per indicare tale rapporto tra la natura e l’uomo, ma anche, insieme al termine anima, per indicare il processo di coltivazione, ossia di educazione, della propria anima, così come si coltiva la terra, quindi la cultura indica un processo di coltivazione dell’uomo attraverso tutta una serie di procedimenti e di processi di apprendimento (cultura animi). Inoltre l’aggettivo cultus (l’etimologia è analoga) stava a designare tutto ciò che si rivela curato, lavorato, coltivato e s’oppone quindi agli aggettivi silvester o neglectus. Da qui il termine culto, che viene utilizzato per tutte quelle situazioni che richiedono una cura assidua, una cura verso gli dei o una cura verso l’essere umano.

In tale prospettiva, il concetto di cultura è apparentato a quello di coltivazione, ossia ad un intervento mirante a sviluppare qualcosa che se non fosse curato, perirebbe o non nascerebbe affatto. Cultura, insomma, come agri-coltura o, anche, come cultura fisica o culturismo, che denota una pratica ginnica tendente a rafforzare il volume e la potenza della muscolatura.

Il termine cultura, nel significato appena illustrato, nonostante sia stato, in un certo senso, superato dalle interpretazioni successive, possiede una intrinseca caratteristica che lo rende attuale e rappresenta comunque il punto di partenza per una comprensione complessiva del termine. Sia perché, ad ogni modo, indica sempre un processo di crescita, sia perché dalla concezione di cultura come cultus (ossia “coltivazione degli esseri umani” o meglio, la loro educazione) deriva il valore di cultura nel suo senso moderno: il complesso di conoscenze (tradizioni e saperi) che ogni popolo considera fondamentali e degni di essere trasmessi alle generazioni successive.

E’ interessante notare che Jesús Prieto de Pedro, nella ricostruzione definitoria del termine cultura, segnala come il significato moderno del lemma sia acquisizione linguistica relativamente recente, infatti nel Dictionnaire Universel di Antoine Futière del 1690, il termine viene usato nel suo senso originario.

Cultura come attività intellettuale superiore

Cultura può essere interpretata in una diversa accezione: “complesso delle conoscenze intellettuali e delle nozioni che contribuisce alla formazione della personalità”. In altre parole indica l’insieme dei sensi intellettualistici, valutativi, per cui cultura connota attività per così dire superiori, intellettualmente qualificate, non esecutive, ed i prodotti di esse. Ma occorre ancora distinguere, all’interno di questa definizione, tra cultura come giudizio di valore e cultura come concetto descrittivo. Nella prima definizione cultura si contrappone ad ignoranza; in un altro senso essa indica “l’insieme delle cognizioni, e delle disposizioni così mentali come sociali, al cui acquisto è necessaria, quantunque non sufficiente, una vasta e varia lettura”.

La seconda definizione apre, per così dire, la strada verso la nozione antropologica del termine. Ossia la cultura identifica un ordine di fenomeni esclusivamente umani (gli animali non hanno in senso proprio una cultura, ma semmai un modo di vita) a carattere sociale.

Il termine cultura come giudizio di valore indica lo specifico patrimonio di conoscenze di cui una persona si è impadronita (è uno dei significati correnti del termine cultura) e può essere accostato al termine greco paidéia e al latino humanitas: il primo indicava il modello educativo in vigore nell’Atene classica e prevedeva che l’istruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis, ossia all’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo. Mentre con il secondo si intende una concezione etica basata sull’ideale di un’umanità positiva, fiduciosa nelle proprie capacità, sensibile e attenta ai valori interpersonali e ai sentimenti. Ciò che conta è che questo ideale è valido per tutti gli uomini, senza distinzioni etniche, sessuali o sociali. Terenzio scriveva appunto: “homo sum: humani nihil a me alienum puto”, ovvero: “sono un uomo, e perciò nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.

Queste nozioni arrivarono sino al medioevo dove, seppur mutate le condizioni a causa dell’affermarsi del modello cristiano, resistettero le concezioni di cultura come realizzazione dell’umanità degli uomini liberi. Un passo di un’opera di dante può rappresentare la concezione della cultura in quel tempo:

“(…) l’operazione specifica del genere umano preso nella sua totalità è quella di attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, prima mediante l’attività speculativa e poi, in forza e per estensione di questa, mediante l’attività pratica. Siccome nell’uomo singolo avviene che, vivendo in condizioni di calma e di tranquillità, si perfezioni in saggezza e in sapienza, è chiaro che — secondo il detto che ciò che vale per la parte vale per il tutto — anche il genere umano, vivendo nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, può compiere, nel modo più libero e facile, la sua attività specifica che è quasi divina, secondo il detto: “Lo facesti di poco inferiore agli angeli”.

Nonostante il Poeta auspicasse una pace universale, dalle parole si può dedurre che “quiete e tranquillità della pace” sono caratteristiche che solo gli uomini liberi potevano possedere e che cultura indica sempre uno sviluppo delle qualità interiori umane.
Nel ‘400 cultura si identifica ancora con il termine humanitas, mentre nel sei-settecento il termine viene ripreso da filosofi come Bacone, Pufendorf e poi Leibniz e Kant allo scopo di designare il processo di formazione della personalità umana e la sua capacità di progredire.

Gli sviluppi successivi

L’affermarsi dell’Illuminismo ha portato – com’è noto – ad una rottura politico-sociale con il passato, esaltando le idee laiche e principi razionali e scientifici e coinvolgendo, nel profondo mutamento ideologico del tempo, anche il concetto di cultura: la ragione è lo strumento dell’educazione, e poiché ogni uomo è dotato di ragione la cultura può divenire patrimonio universale anziché riservato ai dotti.

Ma fu in questo momento storico (a cavallo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento) che la concezione francese di cultura trovò un destino diverso da quella tedesca. La Germania stava attraversando un forte mutamento culturale che l’avrebbe portata, successivamente, dall’illuminismo al clima intellettuale romantico. Fu in questo momento che avvenne il trapasso dal significato “soggettivo” al significato “oggettivo” del termine cultura, ossia al passaggio da una determinazione in termini individuali a una determinazione in termini storico-sociali della cultura. Il primo esempio di impiego su larga scala del concetto di cultura in questa nuova accezione si ritrova nelle opere di J.G. Herder, in cui pone una forte contrapposizione tra cultura e civiltà.

Cultura e Civiltà

Fino all’illuminismo la cultura è legata alle facoltà superiori dell’uomo, alla sua natura razionale e morale, e quindi alla cultura può accedere in fondo soltanto una élite, una élite sociale o meglio una élite di tipo intellettuale.

Mentre Civiltà (dal latino civilitas, termine che si introduce nel latino abbastanza tardi, nel I secolo d.C., come traduzione del greco πολιτεία [politéia]) indica l’appartenenza alla civitas, ossia alla struttura politica della città, come anche ai modi di vita che sono propri della città, ai modi di vita urbani in contrapposizione ai modi di vita della popolazione rurale. Il termine è stato utilizzato spesso dall’illuminismo francese, infatti il concetto di civilisation era servito soprattutto a designare un livello di vita associata che si colloca al di là dell’esistenza asociale dei popoli selvaggi e dell’esistenza sociale, ma ancor priva di un’organizzazione razionale, dei popoli barbari. In questo modo la tripartizione tra stato selvaggio, barbarie e civiltà veniva ad indicare le grandi fasi successive dello sviluppo dell’umanità nel suo avanzamento verso uno stato finale caratterizzato dall’acquisizione dell’autonomia razionale da parte dell’uomo e dalla diffusione crescente dei “lumi”. Infatti l’illuminismo critica aspramente l’ideale aristocratico di cultura. Nel francese del sec. XVIII, però, il termine civilisation, che indicava nel secolo precedente il “buon gusto” e le “buone maniere”, acquistò il significato illuministico di cultura come potenziale patrimonio di tutta l’umanità, e quindi in lingua francese l’opposizione ideologica tra cultura illuministica e cultura aristocratico–formale non si tradusse nella contrapposizione di due parole.

Inoltre Cultura e civiltà hanno avuto, nel panorama intellettuale del Novecento, un destino assai diseguale. Il concetto di civiltà si è dimostrato più tenacemente refrattario a una definizione scientifica. Più che un concetto suscettibile di essere formulato in regole precise, la civiltà si è rivelata un’idea, talvolta addirittura un modello ideale. Anche lasciando da parte troppo scoperte esaltazioni di stampo etnocentrico della civiltà contro la barbarie, o della civiltà occidentale nei confronti di altre civiltà, le varie teorie storico-filosofiche della civiltà son servite, di solito, a discriminare in termini di valore le diverse forme di organizzazione sociale, cioè ad individuare nello sviluppo dell’umanità un livello di vita considerato “superiore”.

Il concetto di cultura è stato invece oggetto di una lunga elaborazione che ha fatto di esso un concetto-chiave delle scienze sociali. Il romanticismo tedesco ha dato il via, in un certo senso, allo studio antropologico del termine cultura. Gustav Friedrich Klemm, con le sue opere inserite nel filone che risale a Herder e in un clima in cui il Volksgeist, ossia la volontà di una nazione che rappresentava la legge fondamentale del suo sviluppo sociale, aveva alimentato una simile concezione della cultura, riconosceva l’importanza del patrimonio culturale di ogni popolo.
Anche se l’uso del termine cultura come attività intellettuale superiore è tuttora largamente diffuso, il concetto di cultura ha assunto per altro verso una veste scientifica, conquistando un posto di rilievo non solo nella storiografia o nella discussione filosofica, ma anche in discipline come l’antropologia, la sociologia, la psicanalisi e l’etologia.

Il contributo di Sigmund Freud ed altri illustri autori sia di formazione psicologica che sociologica, lo svilupparsi della riflessione filosofica tedesca, l’ascesa della scienza antropologica e l’avanzare di altre scienze vicine ad essa, come l’etnologia e la demologia, lo studio sul campo, come pratica “applicata” della scienza antropologica, il diverso destino che hanno avuto i termini cultura e civiltà, hanno contribuito al superamento (seppur non totale) del termine cultura come attività intellettuale superiore e all’introduzione di un nuovo e diverso concetto: la cultura è l’insieme delle conoscenze di un soggetto in quanto membro di una società.

La nozione antropologica di Cultura

In realtà non esiste una nozione antropologica di cultura. Ne esistono molteplici.

Nell’ultimo periodo dell’Ottocento si assiste a due fenomeni: l’antropologia si costituisce come scienza autonoma e inizia gli studi sull’origine e l’evoluzione della cultura.

Secondo la primissima teoria c.d. evoluzionistica, tutti i popoli hanno percorso, e sono destinati a percorrere, le medesime tappe: ciò che li differenzia è la durata della permanenza in ognuna di esse, la quale fornisce la chiave per comprendere il motivo del loro diverso grado di sviluppo culturale. Questa impostazione ha consentito, tra l’altro, di istituire uno stretto parallelismo tra la società antica e la struttura sociale dei popoli ancora allo stato primitivo, ritrovando in questi ultimi l’equivalente del passato preistorico del mondo europeo. Tutto ciò adottando il metodo comparativo come strumento di ricostruzione delle varie fasi del processo evolutivo della cultura.

Questa impostazione è stata oggetto di critica da parte della scienza antropologica successiva, che intende dimostrare l’infondatezza del presupposto di una evoluzione unilaterale.

Boas, nella sua opera The mind of primitive man (1911), sostiene che la cultura è oggetto d’apprendimento.

“La cultura – a parere dell’Autore – non è determinata dall’ambiente geografico, tant’è vero che forme di cultura differenti possono sorgere in ambienti simili e forme di cultura analoghe si presentano in ambienti quanto mai diversi”.

Da una diversa prospettiva parte, invece, Freud per delineare i tratti caratteristici della cultura. A parere dell’autore la cultura ha basi psichiche, per cui all’origine della cultura si trova una situazione traumatica corrispondente a quella che genera la nevrosi.

Ma le teorie antropologiche sulla cultura che più hanno avuto credito nel corso della storia contemporanea sono quelle che vedono la cultura non come un fenomeno evolutivo (o di origine psichica), bensì come fenomeni culturali individuali, ognuno dei quali nasce autonomamente e ha tratti di differenza o di analogia con le altre culture.

All’affermazione dell’autonomia della cultura si accompagna, in The mind of primitive man di Boas la considerazione delle varie culture come strutture sorte storicamente e comprensibili soltanto in base al loro particolare processo storico. Di conseguenza, l’antropologia assume a proprio oggetto non già la cultura, bensì le singole culture e i loro rapporti, lo sviluppo di ogni singola cultura e il complesso di relazioni che la lega con un determinato ambiente e con altre culture.

Il riconoscimento della pluralità delle culture rivela anche implicazioni importanti di ordine filosofico: il rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, la negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture, il rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Tutto ciò ha rappresentato la base del relativismo culturale, inteso come affermazione dell’eguaglianza assiologica della varie culture e, al limite, della loro incomparabilità. W.G. Summer e A. Keller considerano lo sviluppo culturale come un processo di adattamento dei diversi gruppi sociali al loro ambiente specifico, che conduce ad adottare certe forme di comportamento e a escluderne altre, dando così luogo a una varietà di costumi tra loro irriducibili e parimenti legittimi. M.J. Herskovits, in chiave polemica afferma che tra le diverse culture non si possono stabilire giudizi di superiorità o di inferiorità tra le loro manifestazioni.

Questi ultimi autori appartengono ad un orientamento che possiede una nozione diversa e più complessa di antropologia culturale; il distacco dall’antropologia evoluzionistica e le diverse teorie che si sono succedute nel tempo hanno contribuito ad una nuova interpretazione di cultura. Si pensi all’importante contributo di Claude Lévi-Strauss, il quale ha applicato le teorie strutturalistiche alla scienza antropologica. Nella pratica dello strutturalismo, così come l’intende Lévi-Strauss, possono essere isolati due principi fondamentali:

  1. Una struttura che fa parte del reale, ma non delle relazioni visibili. Ogni realtà etnica è quindi formata da strutture che bisogna ben distinguere dalle singole relazioni sociali osservabili empiricamente; tali strutture elementari costituiscono un livello reale ma non percepibile direttamente.
  2. Lo studio scientifico delle realtà etniche deve essere diretto alla determinazione di queste strutture e al loro funzionamento: è lo studio sincronico di esse che rende conto dello sviluppo storico della società e non l’esame diacronico del loro sviluppo a offrire una spiegazione delle strutture presenti nelle realtà etniche. In poche parole Strauss adotta un sistema schematico per studiare le varie culture, dividendo in un asse immaginario le popolazioni secondo certe caratteristiche (uomini/donne; giovani/anziani; etc.) e, sulla base di queste “strutture”, analizza lo sviluppo della cultura.

Oggi la scienza antropologica è pressoché concorde nel considerare la cultura come un concetto relativo, come un complesso di conoscenze e di valori che ogni gruppo sociale, grande o piccolo, possiede e trasmette alle generazioni future. La nozione di cultura è legata infatti alla memoria: la cultura non è innata, ma continua a riprodursi attraverso la trasmissione dei c.d. folkways, che ne assicurano la sopravvivenza nonostante la transitorietà degli individui. Questo processo viene definito inculturazione (tipica prassi della Chiesa cattolica nei luoghi in cui esprime la propria evangelizzazione), e presenta spiccate analogie con quello di coltivazione il quale copre, come già abbiamo visto, uno dei livelli semantici della nozione di cultura.

A tal proposito occorre soffermarsi un attimo sul concetto di memoria. Il sociologo Franco Cassano, riprendendo alcuni concetti espressi da Agnes Heller, sostiene, all’interno di un’ampia riflessione sull’assolutizzazione della velocità nella società contemporanea, che l’accelerazione

“crea una perdita di sapere intergenerazionale e di apertura alla complessità del mondo che da questa menomazione deriva. La centralità dell’utile erode la memoria, perché l’interesse ha bisogno solo di una memoria a breve termine, non di una a lungo termine, e tanto meno di una memoria culturale; esso non crede nella ripetizione, è anticerimoniale. Laddove tutto può essere continuamente rinegoziato non c’è più spazio per la memoria, che diventa un impedimento, un ingombro, un limite alla libertà di movimento, che ha bisogno, se vuole essere assoluta, di dissolvere come un vincolo arcaico tutti i “cum”, sia nel tempo che nello spazio”.

La memoria, dunque, come sguardo critico verso il presente, mediante le esperienze del passato, ma non solo.

Memoria anche come un processo “metabolico” di trasformazione, in continuo divenire, attraverso il quale creare una identità collettiva in grado di rinnovarsi, senza perdere il contatto con la propria storia. l’identità può essere pensata come una “costruzione simbolica che per sussistere deve fondarsi principalmente sulla memoria” (U. Fabietti e V. Matera), perché identità e memoria sono intrinsecamente legate e si nutrono vicendevolmente in una catena infinita.

In conclusione

Quello di cultura è un concetto poliforme, racchiude numerosi significati e coinvolge diverse discipline. Dopo decenni di cultura di Stato, che ha imposto il concetto di cultura quale nozionismo stantio e volto a costituire nuove e inconsapevoli leve lavorative, e dopo la continua e costante disgregazione delle espressioni culturali individuali e collettive, soprattutto ad opera della cultura capitalistica, che ha fatto regredire le espressioni del folklore, ampiamente studiate da Gramsci, nei decenni a venire la discussione intorno alle espressioni culturali rappresenterà il primo e fondamentale tema volto al ripristino della coesione sociale e del rifondamento nazionale ed europeo.

E’ giocoforza prevedere che la tenuta socio-economica attuale non è più sostenibile e che presto occorrerà riprendere la discussione sulla Cultura come volano di ripristino e sviluppo di una società ormai allo sbando. Mi auguro che questo contributo possa in qualche modo servire a porre in essere una riflessione sul concetto di cultura e, soprattutto, sulla distinzione tra “cultura di Stato” e “Stato culturale”, una distinzione macroscopica, che rappresenta la differenza tra regime e autodeterminazione, soprattutto in una Nazione come l’Italia, in cui la Cultura – in passato – ha rappresentato un faro per la civilizzazione dei popoli europei e che oggi rappresenta una colonia di popoli che, fino a pochi secoli fa, erano considerati barbari e incolti.

Caro Mentana, lascia stare il Medioevo

pisa piazza miracoli

Un recente post del giornalista Enrico Mentana ha fatto scalpore (e successo) per aver attaccato negazionisti, antivaccinisti e razzisti e averli ricondotti a una nuova corrente che lui stesso ha definito Medio Evo 2.0. Ma perché se la prende con il Medioevo? Sarà ignoranza storica?

post medioevo enrico mentana
Qui trovi il post originale

Ora, a parte il fatto che Mentana dovrebbe smetterla di coniare termini, tanto alla storia non passa, mi preme osservare che molto spesso la nostra società, ora per un motivo ora per un altro, viene accostata al Medio Evo.

Ora, pur capendo le ragioni di Mentana e pur condividendole in parte, non posso esimermi dal ribadire che dovete smettere di paragonare questa società al Medioevo. E basta!

Le ragioni? Semplici. Per comodità ne elenco solo 2 (anche se sarebbero molte di più):

E’ un termine dal significato positivo, non negativo

Il concetto di Medioevo in termini negativi fu dato dai rinascimentali, che disprezzavano l’arte e la cultura di un periodo durato circa 1000 anni, mentre nell’800 e nel ‘900 la cultura e l’arte medievale sono state rivalutate. Il feudalesimo, nato nel Medioevo, è sopravvissuto fino al ‘900 (quindi di che parliamo?), l’arte ha regalato patrimoni inestimabili, la cultura è stata tramandata dai monaci amanuensi ed è solo grazie a loro che è giunta fino a noi la filosofia greca, i trattati sulla natura e gli innumerevoli studi che avrebbero portato gli illuministi a scrivere la più grande enciclopedia della storia dell’umanità, Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers. Poi, così per memoria, vorrei ricordare che Federico II di Svevia è cresciuto nel Medioevo e ci ha regalato le prime scuole di lingua italiana a Palermo. Non so se mi spiego.

L’arte medievale rappresenta l’architrave del Patrimonio Culturale italiano

Vorrei ricordare che la Cattedrale di Otranto conserva il più importante mosaico dell’umanità, fatto nel 1163 dal monaco Pantaleone, che il Duomo di Modena è patrimonio UNESCO e che città come Pisa, Firenze, Lucca, Ravenna, Assisi (ecc. ecc.) si sono sviluppate in quel periodo.

Inutile ricordare che la torre pendente di Pisa è del 1173, Santa Maria Novella a Firenze è del 1200 e la Basilica di San Francesco d’Assisi è del 1228. Poi, così, tanto per, c’è da sottolineare che la più importante espressione artistica religiosa si trova a Galatina, Santa Caterina d’Alessandria, e che è stata fatta alla fine del 1300. Insomma, tutto nel Medio Evo.

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Basilica di Santa Caterina d’Alessandria

Quindi non vedo perché si debba parlare del Medioevo in termini negativi e allora chiedo a Mentana quali sono i criteri in base ai quali ricondurre la regressione culturale di oggi al Medio Evo tanto da coniare il termine Medio Evo 2.0?

Ahhhh, forse si riferisce alla caccia alle streghe e ai processi della Chiesa contro la scienza? Naaaa, perché per esempio Galileo fu processato, ma nacque in pieno Rinascimento e la caccia alle streghe è durata fino al 1700, quindi non è finita con il Medioevo.

E dunque, anche se mi sforzo, non ne capisco le ragioni. Sarà ignoranza e saccenza? Mah, se Enrico mi risponde, finalmente capirò le sue ragioni. Ma ne dubito.

E’ inutile prendersela con gli analfabeti funzionali

analfabeti funzionali

Analfabeti funzionali, che termine curioso, proprio come webeti (coniato – pare – dal giornalista Enrico Mentana).

Una volta, prima dell’avvento dei social e persino di internet, al mio paesello quelli così erano chiamati volgarmente e semplicisticamente scemi, con varianti lessicali dipendenti dagli strati sociali oppure dalla qualità della conversazione quali idioti, fessi, imbecilli, stupidi, stolti (questo è il termine che usavo quando parlavo con persone acculturate), cretini, per poi arrivare ai localismi quali mammallucchi, pampasciuni, cugghiuni, fave o grulli (usato nella mia permanenza in terra toscana).

Oggi però imperversa una moda linguisticamente fatale, che s’insinua – attraverso il web – nei nostri linguaggi e, piano piano, senza farsi accorgere, ne modifica i lemmi, pur nell’immutabilità dei significati.

Ecco che, per esempio, lo storytelling non è altro che il racconto di storie, il selfie è l’autoscatto, lo stepchild adoption è l’adozione del figlio del partner, il brand è il marchio, l’on demand è un servizio a richiesta, ecc.

Quindi un analfabeta funzionale è semplicemente un fesso che però ha studiato quel tanto che basta per saper leggere e scrivere, ma non è in grado di capire il senso di un concetto, anche semplice. In realtà pure molti laureati (e anche masterizzati o dottorati) soffrono di questa malattia culturale e infatti si nota spesso – viaggiando tra i social – che molti titolati si esprimono peggio di come si esprimeva mio nonno con la terza elementare.

Anzi, a pensarci bene, mio nonno aveva un linguaggio forbito e teneva la contabilità del forno in cui lavorava, con la terza elementare. Ma vabbè, so’ dettagli.

analfabeta_funzionale

Dunque, un analfabeta funzionale è un fesso. Chiaro. Alla categoria si possono ricondurre queste figure, così massicciamente presenti sui social:

quello che legge il titolo e commenta

A volte capita che fraintenda anche il senso del titolo, ma siccome i titoli degli articoli di oggi (inclusi quelli – sic! – dei maggiori quotidiani nazionali) sono stupidi, sensazionalistici e acchiappaclick, allora devi essere proprio demente per fraintendere il senso del solo titolo. Quindi sta gente che fa? Commenta solo in base al titolo. E infatti quei mattacchioni dei giornalisti del Secolo XIX l’anno scorso hanno fatto un esperimento sociale, basato proprio su ciò. Leggi e divertiti.

L’odiatore seriale

Premesso che odio i neologisimi angolofoni, quindi col cazzo che userò il termine haters, gli odiatori seriali sono quelli che qualsiasi cosa tu scriva (soprattutto se sei un personaggio famoso o comunque seguito sui social) loro hanno sempre qualcosa da ridire, un po’ di veleno da vomitare, qualche frase offensiva o persino qualche parola pesante o minaccia. Tipo, tu scrivi: “mi è morto il nonno, riposa in pace”. E lui ti risponderà con frasi del tipo: “spero abbia sofferto” o “il tumore se l’è mangiato”, o cose così. L’odiatore è chiaramente un fesso, che siccome non ha altri modi per sfogare le sue innumerevoli frustrazioni, allora lo fa con te e ogni “like” che prende alimenta il suo ego bisunto e lo illude di contare qualcosa nel mondo. In quello virtuale conta solo fino allo scorrimento della timeline, in quello reale purtroppo non conta un cazzo. Ecco perché è sempre immerso sui social. In fondo la sua vita è vuota, quindi i suoi 30 secondi di gloria rappresentano la summa della propria esistenza. Da compatire.

Quello che si fa i cazzi tuoi, sempre e comunque

E’ il tipo che spulcia il tuo profilo, fino ad arrivare a settembre 2007 e che (a volte) gli scappa il dito e mette il like a una foto di giugno del 2009, in cui tu eri sorridente in costume da bagno. E’ quello che quando tu scrivi: “oggi mangio leggero”, ti commenta con un: “hai problemi di fegato”? Ma fatti i cazzi tuoi, no? Spesso questo personaggio è associabile ad un altro normotipo, cioè il maniaco seriale.

Il maniaco seriale

E’ quello che ti chiede l’amicizia. Zero amici in comune, con foto profilo che mostra la tartaruga e il tatuaggio, con occhiali da sole specchiati e montatura verde pisello e un sorriso a 36 denti che simula la sua deficienza. Tu accetti l’amicizia e subito ti arriva un messaggio tipo: “ciao, o visto ke 6 single vuoi scopare?”. Tu gli fai notare che non è il caso, ma lui, nelle settimane a venire, ti mette il “like” a ogni foto che pubblichi, persino a quella della nonna sdentata e sulla sedia a rotelle. E lì capisci che la sua serialità è solo la punta dell’iceberg di un malessere sociale e psichico che potrebbe portare ad epiloghi poco piacevoli.

L’uomo del “meditate gente, meditate”

E’ il mio preferito. Il normotipo di quello che ci mette ore a scrivere un post o un commento e il cui risultato sono solo una serie di frasi stereotipate e ritrite, ma che – in testa sua – solo ricche di cultura e fanno effetto e poi, dopo un’altra ventina di minuti a pensare all’epilogo del suo scritto da nobel, conclude con un “meditate gente, meditate”. Infine, dopo aver premuto “invio”, si gongola pensando alla sua saggezza e attende i like dei suoi simili.

Quello che tu gli parli di fave e ti risponde a piselli

E’ un modo di dire della mia zona, che indica quello che ti risponde a minchia dopo aver iniziato un dialogo con lui. Tu ti sforzi, durante un dialogo tra sordi, nel semplificare il tuo pensiero e fargli capire concetti semplici, ma lui ti risponderà parlando di altro. Non perché voglia distogliere l’attenzione e spostare la conversazione su altro. No. Semplicemente non ha capito e, anziché ammetterlo, ti risponderà a cazzo.

Quello che si mette il like da solo

Nel gergo social, come sappiamo tutti benissimo, un like è un apprezzamento a un contenuto che abbiamo pubblicato. Quindi se lo hai scritto significa che condividi quello che dici, no? Mi pare elementare. Quindi perché, dimmi perché, dammi una spiegazione logica e razionale per cui devi mettere quel like ai tuoi contenuti? Dimmelo, ti prego.

Il condivisore seriale di bufale

La persona più pericolosa nel mondo social. E’ colui che si fa attrarre da titoli quali “Sensazionale scoperta, le scie chimiche fanno venire la cacarella”, oppure “I vaccini faranno diventare tuo figlio autista” o ancora “Putin ce l’ha grosso (condividi e scopri cosa)” o articoli politici come “Renzi ha fatto la cacca e noi gli paghiamo la carta igienica, condividi se sei indignato!”. A nulla vale che l’articolo provenga da un sito che si chiama “ilfattoquotidaino” oppure “la repubblica delle banane”, a nulla valgono le black list dei siti bufalari e complottisti, a nulla vale che tu commenti i suoi post dicendo che sono falsi. Ne uscirà fuori solo un’amara discussione in cui tu sei il complottista e loro i portatori sani di verità assolute. Sono deficienti, punto. Vanno solo derisi e bloccati.

Lo sgrammaticato

In realtà questa categoria racchiude tutte le altre. Per quanto mi riguarda, se uno sbaglia pure un accento, lo depenno dalla mia lista di “amici” e “contatti” (e in effetti mi sento molto solo ultimamente). Per giunta lo sgrammaticato è quello che se tu gli fai notare i suoi errori grammaticali, quasi sempre ti risponderà dicendoti che è più importante quello che vuole dire rispetto a come lo dice. Il cazzo è che non capisci nemmeno ciò che vuole dire e il più delle volte si tratta solo di concetti elementari e imbeccati.

analfabeti_funzionali_italia
wow! L’Italia è al primo posto! Aspetta…per cosa? Ops, per analfabetismo funzionale (cioè per numero di scemi)

Ora facciamo un’ammissione. A chi non è mai capitato di imbattersi in tipi del genere? Alzi la mano chi non ha mai avuto a che fare con un fesso. No, non nella vita reale, sui social.

Lì pascolano liberamente, pare essere il loro habitat naturale e pare che rappresentino la maggioranza.

In effetti lo sono

Statisticamente sarebbero quasi la metà della popolazione italiana. Pare. Qualunque sia il dato statistico, resta il fatto che sono in tanti e che tu, anche se cerchi di mostrarti disponibile, aperto e propenso al dialogo, ne uscirai sempre frustrato e ricolmo di offese gratuite.

Il fatto è che hanno vinto gli analfabeti funzionali

Tu puoi anche usare tutta la logica possibile per inchiodarli alla propria ignoranza. Non ci riuscirai. Puoi pubblicare tutti gli schemi logici di questo mondo per fargli capire che bisogna parlare con consapevolezza. E’ inutile. Puoi anche citare tutte le fonti che dimostrano il contrario di ciò che sostengono. E’ tempo perso.

Gli scemi, finché avranno una connessione internet e un accesso libero e indiscriminato agli strumenti social, ti travolgeranno sempre e comunque con le loro supposizioni, i qualunquismi, le dietrologie da quattro soldi e la grammatica calpestata con violenza e abominio.

Tu potrai condividere quanto vuoi gli articoli che richiamano alla ragione, ma saranno solo compresi e accettati dai tuoi simili, cioè da quelli che vivono nelle riserve della ragione (pochi, insomma), mentre intorno a te imperverserà il diluvio dell’arroganza mista a saccenza e ignoranza. Senti a me, esci dai social e torna a leggere un buon libro. Un libro ti darà cultura (tranne quelli di Saviano e della D’Urso) e ti ricorderà la lingua, i social – invece – ti faranno dimenticare persino le regole basilari della grammatica. Davvero, fidati. Che cazzo fai? Condividi questo post sui social? Allora non ai capito un cazzo!

Le rapine e…la bella vita!

rapine bella vita

Proprio oggi ho letto sul quotidiano locale di una delle tante rapine al supermercato dove ogni tanto vado a fare la spesa. A memoria, in 10 anni da quando è stato aperto, è stato rapinato circa 15-20 volte.

E’ sempre lo stesso scenario: arrivano di sera, poco prima della chiusura, e razziano l’incasso. A volte è magro, come l’ultima volta (quando sono stati “prelevati” 900,00 €), a volte è più corposo (un’altra rapina, di circa 1 anno fa, ha fruttato ai malviventi circa 2000,00 €). Spesso i rapinatori sono stati individuati e sempre si trattava di giovani italiani, incensurati (o con precedenti di spaccio) e di “buona famiglia”.

Questo fatto mi ha fatto riflettere su un aspetto tipico del momento storico in cui viviamo, cioè che non si ruba più per fame, ma per lusso.

Dai, pensiamoci un attimo. Andiamo a spulciare la cronaca locale oppure i dati snocciolati ogni anno dal Viminale e scopriamo che il “grosso” delle rapine (o delle attività di spaccio) è svolto da giovani ragazzi, perlopiù incensurati e provenienti da ambienti “bene” o quantomeno dal “ceto medio”. Non sto parlando di criminalità balorda, tipica delle “periferie” e degli ambienti degradati, ma di micro-criminalità borghese.

Ora mi viene da pensare che a questi ragazzi, in fondo, non manca niente. Probabilmente sono studenti oppure giovani disoccupati che cercano di sbarcare il lunario come meglio possono. E non è un caso che sempre oggi è uscita un’indagine della Commissione Europea che indica l’Italia come il primo paese europeo per presenza di “neet”, cioè di giovani (15-24 anni) che non fanno niente: non studiano, non lavorano né cercano un lavoro. Sono il 19,9% (rispetto alla media europea del 11,5%).

Come campano questi ragazzi?

Ogni giorno, percorrendo le strade del mio paesello, vedo tanti ragazzi (giovanissimi!) che circolano con macchinoni tipo SUV o grosse berline, che passano le serate nei locali a bere o che si sfondano di aperitivi al mare, negli stabilimenti, dove solo per prendere un caffè paghi l’ira di dio.

Io, da piccolo imprenditore quale sono, provo ogni volta un senso di vergogna e di disgusto a cacciare tre euro e cinquanta per una Tennent’s, mentre guardo il tavolo di un gruppo di adolescenti pieni di acne che ne ha consumate almeno una trentina. E mi faccio i conti.

Quindi è detto fatto? Ci sta una “generazione” di ragazzi che non vogliono studiare, di lavorare manco l’ombra, però devono comunque “apparire in società” e, di conseguenza, spendere. Allora è forse spiegato perché c’è una così ampia recrudescenza di rapine, furti e spaccio? Forse, probabile. Non è così difficile fare due+due.

Del resto la vita oggi è cara e la bella vita costa anche di più. Poi se ci metti la precarietà del lavoro, gli alti costi e le innumerevoli incertezze del lavoro in proprio, nonché il fatto che “il lavoro stanca e non rende” unito al ripudio della fatica come antidoto ai mali del passato in cui i nostri nonni si sono “fatti il culo” e per cui i giovani provano una profonda antipatia, capisci che la via più semplice è quella di far soldi con facilità e oggi i modi sono pochi: o sfondi su internet (cosa che riescono a fare agevolmente solo i veri idioti) o vivi di rendita (cosa che fanno in pochi, cioè i sopravvissuti della crisi economica), oppure commetti reati (tipo: spaccio, rapine, furti…).

Lo stress dell’edonismo

Cioè pensa allo stress a cui è sottoposto un giovane d’oggi. Un pacchetto di sigarette costa 5 euro, un cocktail costa dalle 5 alle 15 euro (a seconda di dove vai…), un ingresso in discoteca (di quelle che contano) costa almeno 10 euro e a volte la consumazione non è inclusa. E che fai? Non ti prendi almeno 2-3 consumazioni? Poi metti il pre e il post serata: tra birre, panini, cocktail e sigarette, almeno almeno ti spari quelle 50-60 euro. Se poi “rimorchi” allora la spesa raddoppia, e lì so’ cazzi. Perché non puoi sfigurare davanti all’imposizione implicita di una consumazione offerta. Calcola che una volta si usciva il sabato e basta (se ti andava bene), mentre oggi si fa il pre-finesettimana il giovedì e poi il finesettimana il venerdì e il sabato. E ogni giorno so’ spese, e grosse pure.

E poi…un tatuaggio stupido, piccolo piccolo, costa 30 euro, e c’è chi se ne fa minimo 2-3, perché con uno non conti. E poi il macchinone, i vestiti griffati (cosa vuoi? Che indossi i vestiti del mercato?), l’orologio buono e gli occhiali da sole ray-ban. Ohi, che pensi? A occhio ci vogliono almeno 1000 euro di imprinting, oltre alle basilari 50 euro a sera, giusto per “apparire” e non sfigurare.

Paga papà? Paga il nonno? Sì, a volte. Ma a volte no. E quindi i soldi da dove vengono?

Il lusso costa

Tutto sommato, sti ragazzi che non lavorano, non studiano né hanno ben chiaro il proprio futuro, ma vivono nel confine tra la rendita e l’illegalità, supportati dalle paghette dei nonni e dai sotterfugi per “campare”, hanno ben impresso nella mente il principio del vivere moderno: non è la fame ciò che ci comanda, ma il lusso, o almeno la sua apparenza. L’apparenza è sostanza e la sostanza ha un costo. Non sono ladri di polli, che rubano per fame, sono ladri di supermarket o spacciatori di erba e cocaina e rubano e spacciano per un cocktail e per un tatuaggio o un aperitivo al mare. Del resto come dargli torto? Sono il frutto di ciò che abbiamo costruito finora, dei modelli a cui ci siamo ispirati, senza troppo pensarci, mentre abbiamo abiurato il passato, come un cattivo male da dimenticare. Sono loro, i nostri figli, i ragazzi che abbiamo educato davanti alla tv mentre noi distrattamente sceglievamo il modello di macchina più tecnologico e, per non sentire i loro pianti, li abbiamo viziati e gli abbiamo insegnato che chi lavora è un fesso, mentre chi fa il furbo è un dritto.

Solo una cosa mi fa sghignazzare: il momento, e sarà a momenti, in cui scenderanno con il culo per terra e vi ripudieranno, voi, genitori del cazzo che non siete stati in grado di insegnarli a riconoscere un albero ma siete stati bravissimi a fargli capire la differenza tra un cambio manuale e un sequenziale. Tempo qualche anno e i vostri figli tireranno i conti. Giusto il tempo di far morire i vostri genitori e le loro pensioni. Poi, giuro, mi gongolerò nel vedervi annaspare nel nulla, mentre troverete giustificazioni al vostro nulla educativo.