Una civiltà che brucia

civiltà che brucia

Ogni giorno, quando apro un giornale o accedo a internet o accendo la TV, leggo sempre le stesse storie: la disoccupazione in aumento (o in leggerissimo calo, salvo smentite del mese dopo), gente che si ammazza a vicenda spesso per motivi futili, liti familiari sfociate nel sangue, masse di gente disperata che migra (forzosamente) verso il nostro martoriato Paese accanto a masse di giovani (e persino pensionati) che invece emigrano dall’Italia verso Paesi più ricchi, ospitali ed economicamente più accessibili oltre che – ogni estate – roghi e incendi che divampano in tutta Italia, particolarmente al Sud.

I roghi dolosi

In queste ore, per esempio, stiamo assistendo alla distruzione programmata del Vesuvio e si dice che siano stati usati anche dei gatti bruciati vivi per estendere il fuoco. Il tutto, chiaramente, per motivi economici. Smettiamola di pensare che la gran parte degli incendi sia dovuta al fantomatico mozzicone di sigaretta. No, la maggior parte degli incendi è di origine dolosa. Perché? Perché molte zone sono inedificabili, a vincolo paesaggistico o idrogeologico o semplicemente fondi a destinazione agricola. E allora, anziché attendere una lottizzazione (che probabilmente non avverrà mai) è più facile appicciare un fuoco e distruggere la vegetazione. C’è il vincolo di inedificabilità? Chi se ne frega, tanto in Italia nessuno controlla e un amico al Comune o in Regione si trova sempre.

Già, perché la legge 353/2000 non consente destinazioni d’uso diverse da quelle precedenti l’incendio per almeno 15 anni dal rogo e nel 10 anni successivi sono vietate, nelle zone incendiate, costruzioni di qualsiasi tipo. La legge è stata fatta per evitare abusi edilizi. Sì, ma chi controlla? Il Corpo Forestale dello Stato, che ormai è stato smantellato e inglobato nell’Arma dei Carabinieri. Quindi basta aspettare che si calmino le acque e presentare il progetto in Comune. Tanto, male che vada, ci sono sempre le deroghe, le sanatorie e i condoni, per cui tanto si incendia, si attende qualche anno e – puff! – compaiono le prime palazzine o i centri commerciali nei terreni incendiati qualche anno prima.

La crisi morale, demografica ed economica

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La storia ce lo insegna, basta saperla leggere. Ogni civiltà ha un suo epilogo più o meno lungo. Noi siamo arrivati alla fine della nostra civiltà (oddio, rabbrividisco nel chiamarla così). I fatti di sangue cruenti e inspiegabili, i genitori ammazzati dai figli per motivi futili, il tizio che insegue e investe due motociclisti, ammazzandone uno, la ragazzina che accoltella la madre perché scoperta a fumare una canna o i tizi che ammazzano l’amico così per scherzo durante un festino a base di coca e alcool, casi del genere sono inspiegabili se presi così, singolarmente, ma hanno una spiegazione storica.

Sì, lo sappiamo tutti, abbiamo perso i valori, la società è diventata liquida (usando le parole del compianto Bauman) e l’etica capitalistica ha sconfitto l’umanesimo, l’illuminismo, il razionalismo e persino l’idea di Dio sostituendoli con il padre denaro e i figli status simbol, nonché con il nichilismo morale ed etico. Dio è morto, ma è morta anche la ragione, la conoscenza, persino la filosofia morale di Kantiana memoria. L’ideale romantico e il concetto di identità di ottocentesca memoria hanno soppiantato l’uso della ragione. I romantici, che in un certo modo hanno dato via al nazionalismo e al successivo totalitarismo del Novecento, hanno introdotto il concetto di “intuizione”, di “spirito” e persino di “genio”, concetto oggi abusato in ogni contesto, persino quando un idiota fa una cazzata e la posta sui social. Sì, il genio, così come lo intendiamo oggi, non è il “genio” rinascimentale come Leonardo o il “genio” concepito dagli illuministi, ossia quell’individuo che usa la ragione e le conoscenze più alte per creare, ma è chi intuisce usando il senso e il sentimento, ossia una sfera interiore che non può essere misurata in termini oggettivi. E a proposito di individuo, è proprio qui che si sviluppa in modo deforme e difforme rispetto all’Umanesimo il concetto dell’individualismo: nel rapporto tra uomo e Natura, tra uomo e Storia, tra uomo e Società, ogni individuo è diverso perché ogni sentimento, ogni istinto, ogni stato d’animo sono diversi. Ciò che accomuna gli individui non è più la ragione e la conoscenza (che si possono misurare), ma è il sentimento, che però è diverso da persona a persona. Ecco che nasce l’esaltazione della personalità, la rivalutazione dell’Eroe (secondo una distorta rilettura dei miti) e quindi, di conseguenza, lo sviluppo degli istinti più bassi guidati e gestiti dall’Eroe di turno (guardacaso un leader carismatico).

Oggi il sistema capitalistico sfrutta la concezione romantica dell’individualismo per vendere e il sistema politico è imperniato sulla stimolazione degli istinti e la creazione costante di leader in cui riconoscersi e in cui credere ciecamente. Chiunque di noi ha avuto piena fiducia in un personaggio carismatico (che prontamente ha poi deluso le nostre aspettative): un sindaco, un presidente di Regione o anche semplicemente un personaggio noto. E’ l’individuo che ricerca costantemente una figura in cui riconoscersi e sperare, una società coesa e istruita non lo farebbe mai.

Ecco perché la destrutturazione del sistema scolastico, la nascita della conoscenza in pillole ormai strutturata su internet e la diffusione di contenuti tesi a rimbambire le masse sono un’arma contro lo sviluppo della ragione.

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Una scena del film The Island

Un po’ come nel film “The Island”, dove gli individui creati in provetta e pezzi di ricambio di gente ricca e famosa, sono appositamente tenuti nell’ignoranza, con il livello di istruzione di un bambino di terza elementare, proprio perché non devono conoscere, quindi ribellarsi contro il sistema che li sfrutta e li usa come pezzi di ricambio e quindi essere liberi. Il film è a lieto fine: la gente scopre la verità e diventa consapevole del proprio ruolo. Nella realtà, invece, siamo lontani da questa consapevolezza e ci stupiamo di ogni fatto di cronaca inspiegabile, ma che invece rappresenta il campanello d’allarme di una società in declino. Le migrazioni forzose e di massa, le guerre, l’economia stagnante, i fatti di sangue, persino la bassa natalità sono gli elementi che ci segnalano la morte della nostra società.

Noi siamo la curva calante di un percorso storico ormai alla fine. Proprio come l’Impero Romano d’Occidente.

La caduta dell’Impero Romano e gli elementi in comune con la nostra civiltà

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Già, l’Impero Romano cadde perché era giunto all’apice della sua grandezza e le spinte indipendentiste da parte della Periferia dell’Impero erano molte. Secondo molti storiografi l’Impero cadde soprattutto per questi motivi:

  • enorme calo demografico (dovuto a guerre, carestie e alle malattie);
  • crisi economico-produttiva che aveva provocato un’alta inflazione e il crollo dei commerci;
  • enorme migrazione dei romani di città (cioè dei cittadini dell’Impero) sia a causa delle guerre, ma soprattutto della povertà;
  • ingiustizia sociale, che vedeva i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, contribuendo alla perdita di coesione sociale;
  • corruzione politica, eccessivo peso fiscale e mancanza di fiducia nel potere centrale di Roma.

Non so voi, ma a me sembra che ci siano gli stessi identici elementi che caratterizzano la nostra società: calo demografico e calo delle nascite, crisi economica e produttiva, con aziende che chiudono o delocalizzano gli stabilimenti all’Estero e piccole attività commerciali che falliscono; “fuga dei cervelli” e dei pensionati all’Estero, i primi per cercare opportunità lavorative e i secondi per cercare di campare con la misera pensione italiana; ingiustizia sociale netta ed evidente, con la scomparsa della classe media e l’acuirsi della forbice sociale tra ricchi e poveri; corruzione politica sia centrale che periferica (ogni giorno sentiamo di politici, amministratori o imprenditori arrestati per corruzione), eccessiva pressione fiscale e scarsa fiducia nella politica da parte degli italiani, tanto che oggi si parla spesso di “antipolitica”.

Le migrazioni incontrollate

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So che apparirò antipatico e impopolare nel parlare di questo argomento, ma le migrazioni di massa che si stanno verificando negli ultimi anni non sono certo paragonabili alle invasioni barbariche della caduta dell’Impero Romano, ma hanno elementi in comune. Anzitutto i numeri eccessivi, che non permettono il lento e graduale processo di integrazione, poi la gestione incontrollata e spesso approssimativa, che li costringe a vivere per lungo tempo in centri di accoglienza simili a carceri, in cui si acuisce lo scontro sociale e si formano i primi germogli di intolleranza, poi le città, che spesso vengono “suddivise” di fatto in quartieri auto-ghettizzati in cui i processi d’integrazione sono difficili se non addirittura osteggiati. Per non parlare poi dello sfruttamento del lavoro nero e schiavizzato, oltre a quello della prostituzione, che non rendono facile il processo d’integrazione, anzi, contribuiscono allo scollamento e all’odio sociale. Dati i numeri elevati, le crisi che attanagliano l’Occidente e l’incapacità effettiva di creare una società multietnica e pacifista, arrivo a pensare che si tratti di invasione. E attenzione, non di invasione volontaria da parte dei migranti. Non andiamo a guardare le singole storie, altrimenti perdiamo di vista il macro-processo. No, parlo di invasione di fatto, a tratti spontanea e a tratti forzata, che porterà presto alla disgregazione sociale e all’acuirsi dell’odio razziale, un odio che ci portiamo dietro dal romanticismo e dal nazionalismo e che è figlio della cultura individualista di stampo ottocentesco.

Dalla storia, come sappiamo, non abbiamo imparato niente. Né dal crollo dell’Impero romano né dalla formazione dei totalitarismi. Niente.

Tutto sommato, però, va bene così. Ogni civiltà nasce, cresce e muore, a volte nel peggiore dei modi. L’unico mio cruccio è che né io né i miei figli e forse nemmeno i figli dei miei figli vedranno il sorgere della nuova civiltà. Peccato. Spero solo nella prossima vita di rinascere gatto. Quello sì che è il vero eroe e simbolo dei nostri tempi.

Renzi Avanti. Il nuovo libro del segretario PD

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renzi

Nel suo nuovo libro, in uscita domani, 12 luglio, il fantasioso e fantasista segretario del PD, Matteo Renzi, (sci)orina le sue fantastiche teorie su come risollevare l’economia in Italia. Ecco come lo presenta Matteo:

“Questo libro non è solo un diario personale, una riflessione sulla sinistra o il programma del governo che verrà. Più di tutto, è la condivisione di idee, emozioni e speranze che spesso si sono perse nel racconto della comunicazione quotidiana. I risultati ottenuti e gli errori commessi. Il viaggio tra passato e futuro di un’Italia che non si ferma. Che vuole andare avanti.”

Il punto principale pare essere il “ritorno al trattato di Maastricht”, cioè con un rapporto deficit-PIL più alto rispetto a quello imposto oggi dal fiscal compact da parte dell’UE.

Insomma, l’economista de noartri si diverte a lanciarsi in complessi ragionamenti volti a ridurre la pressione fiscale e stimolare l’economia grazie a una maggiore flessibilità d’indebitamento.

Non voglio rovinare la lettura a chi deciderà di investire (ergo: buttare) quella decina di euri per comprarsi sto popò di opera di economy fantasy , ma una cosa lasciatemela dire: il “grosso” della sua operazione (che mi auguro non veda mai la luce) è di rafforzare le competenze della Cassa depositi e Prestiti affinché gestisca anche il Patrimonio dello Stato, per massimizzare il profitto e ottenere maggiore liquidità.

Tradotto: vendere altri beni dello Stato.

E torniamo alla politica di Prodi-D’Alema. Insomma, niente di nuovo sotto al sole del Renzi Avanti, tranne un po’ di fumo (negli occhi).

 

Lo Stato privato

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La crisi economica scoppiata nel biennio 2006-2008 ha messo in luce le debolezze del Sistema-Italia e la capacità delle Istituzioni di far fronte all’indebolimento economico della classe media, ormai pressoché scomparsa. La crisi ha rappresentato la batosta finale, ma i presupposti c’erano ed erano sotto gli occhi di tutti: le privatizzazioni.

Quando uno Stato detiene il controllo dei servizi fondamentali e attua politiche tese a calmierare i prezzi dei servizi offerti, anche le peggiori crisi economiche possono essere superate, perché i cittadini possono comunque sempre contare su uno Stato Sociale che li tutela nei bisogni primari e nei servizi essenziali quali acqua, sanità, trasporti, energia, gas, ecc.

L’Italia, invece, ha scelto la strada dello smantellamento dello Stato Sociale e della privatizzazione di tutto, anche di ciò che compete ad uno Stato, come la Sanità e la Giustizia. Ma perché oggi ci troviamo a pagare (salato) qualsiasi servizio pubblico e a vederci negato persino l’accesso alla Giustizia e ai servizi minimi essenziali?

Facciamo un salto indietro.

La Storia delle privatizzazioni

Siamo agli inizi degli anni Novanta. Uno spudorato Romano Prodi, presidente dell’IRI, inizia lo smantellamento di un Ente che contava 500.000 dipendenti. Dovete sapere che l’IRI gestiva Alitalia, Autostrade, Finmeccanica, Fincantieri e Aeroporti di Roma, i quali saranno poi immessi sul mercato ad uno ad uno. L’IRI, ormai svuotato di ogni suo ramo, verrà messo in liquidazione il 28 giugno 2000.

Ora sapete perché Alitalia è in crisi (ma viene comunque “salvata” da contributi pubblici) o perché il pedaggio costa così tanto (ma le strade sono cantieri eterni): vengono gestiti in modo privato, ma – dato che le gestioni sono fallimentari – le SpA vengono poi aiutate dallo Stato.

Dopo è la volta del Credit (Credito Italiano), che godeva di ottima salute, dell’IMI e della Banca Commerciale Italiana (Comit), tutto tra il 1993 e il 1994. L’idea di Prodi era quella di “smantellare il Paese pezzo per pezzo” (così disse il 17 gennaio 1998 in un celebre discorso in provincia di Lecce). E infatti ci è riuscito. Nel luglio 1996 iniziano le prime privatizzazione dei servizi pubblici locali grazie alla costituzione di società per azioni in cui i Comuni possono partecipare solo con quote minoritarie.

Il 16 aprile 1997 viene privatizzato l’Istituto San Paolo di Torino.

Nel 1999 Massimo D’Alema prosegue il disegno staticida di Prodi approvando un disegno di legge che privatizza definitivamente i servizi pubblici locali. Tutte le aziende municipalizzate che erogano in regime di monopolio acqua, gas, elettricità, trasporti urbani, rifiuti urbani vengono trasformate in imprese private.

Nel gennaio 1998 il Parlamento liberalizza il commercio abolendo licenze e regole sugli orari. Poi è la volta della liberalizzazione della telefonia fissa (febbraio 1998) e dell’energia elettrica, fino alla privatizzazione dell’ENEL (1999).

A maggio del 2000 si provvede a liberalizzare il commercio del gas.

Poi è la volta delle TV. La legge Maccanico apre alla privatizzazione della RAI e di fatto salva le reti televisive di Berlusconi.

Infine, sempre nel 1998 le Ferrovie dello Stato vengono smembrate per poi costituire RFI (Rete ferroviaria italiana, pubblica) e Trenitalia (privata). Stessa sorte toccherà alle Poste, che diventeranno SpA.
D’Alema, non contento, si sbarazza anche di molti beni pubblici, tra cui il Foro italico e lo Stadio olimpico, passati nelle mani dei privati.

Le privatizzazioni così realizzate non si avvicinano nemmeno minimamente a quelle poste in essere dal governo Thatcher e dal governo Blair in Inghilterra (criticati per le politiche eccessivamente liberal). Tutto è in nome di un alleggerimento dello Stato che – invece – a distanza di 20 anni non è avvenuto e che, anzi, è sempre più indebitato ma privo degli Enti che, invece, avrebbero garantito ai cittadini molteplici oneri economici in meno. Insomma, se avessimo avuto ancora le Poste, i trasporti, l’energia, il gas e i servizi comunali ancora pubblici, non pagheremmo le tariffe esose che paghiamo oggi.

La Sanità privata e gli Ospedali chiusi

Il sistema sanitario nazionale, così com’è impostato oggi, non può essere soggetto a privatizzazioni, ma dato che il disegno di alleggerimento dello Stato è ancora in corso (prova ne è il fatto che Prodi, D’Alema e Bersani non sono ancora stati cacciati a calci nel sedere dalla politica), si deve comunque ridurre la spesa. E come? Semplice, costringendo le Regioni (oppure favorendo le Regioni) a chiudere gli Ospedali, nel nome dell’ottimizzazione delle risorse. Ecco che numerosi centri ospedalieri, anche di recente costruzione, vengono o chiusi o trasformati in centri di lungo degenza oppure in laboratori di analisi gestiti privatamente.

Se poi ci metti le liste d’attesa lunghissime, che arrivano anche a un anno, e i medici che ti “suggeriscono” la visita privata o l’analisi di laboratorio con pochi giorni d’attesa, allora la privatizzazione della sanità è un dato di fatto.

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Gli ospedali chiusi dal 2013. Articolo de La Stampa

La giustizia privata. Tribunali periferici chiusi. Mediazione

Nemmeno la Giustizia è esente da questo percorso di alleggerimento e privatizzazioni. La riforma della geografia giudiziaria, iniziata nel 2011, ha portato alla soppressione di 30 tribunali, alla chiusura dei tribunali periferici e a un drastico taglio degli Uffici del Giudice di Pace. Oggi è in discussione anche la chiusura dei Tribunali per i minorenni e del taglio di competenze per i Giudici di Pace. A questo disegno giustizicida va aggiunto un altro tassello: la creazione e l’incentivazione della mediazione, addirittura obbligatoria per legge per molte materie (persino per materia di risarcimento danni da circolazione stradale, cioè il 50% del carico giudiziario), ossia una branca delle privatizzazioni.

Cos’è la mediazione? è l’attività professionale svolta da un privato, in veste di arbitro terzo e imparziale, che cerca di far trovare un accordo tra le parti in lite. Insomma, il mediatore è un privato e la mediazione è una forma (oggi obbligatoria per molte materie) di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziaria. Inutile dire che in questi anni le Agenzie di mediazione si sono moltiplicate a dismisura e che spesso il costo dell’accesso alla giustizia è più elevato rispetto alla mediazione. Questa, dunque, è una forma sottile di smantellamento del sistema giudiziario in Italia che, unita alla chiusura dei tribunali e allo svuotamento di funzioni del Giudice di Pace, mostra apertamente quale strada sta percorrendo lo Stato italiano in materia di giustizia.

I Trasporti privati

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Se prima, per andare da Torino a Taranto, pagavi 40.000 lire oppure 25,00 € nei primi anni Duemila, oggi con quella cifra non esci fuori regione. E’ colpa dell’euro? No, è merito delle privatizzazioni. Trenitalia è il soggetto privato (ma aiutato dallo Stato quando i bilanci sono in passivo) che gestisce i trasporti su rotaia. Le rotaie sono ancora di proprietà degli Enti Pubblici, ma i treni non più. Le liberalizzazioni servivano a creare concorrenza, ma a distanza di 20 anni quanti imprenditori hanno investito nei trasporti su rotaia in Italia? Escludendo Italo (che fa poche tratte e i cui costi sono pressoché simili a quelli di Trenitalia), nessuno. Ecco servita la liberalizzazione: aumento spropositato delle tariffe e tagli indiscriminati delle tratte economicamente meno vantaggiose. Infatti prima i treni arrivavano ovunque, perché l’obiettivo non era la massimizzazione del profitto, ma l’offerta di servizi necessari, mentre oggi il Sud soffre i tagli delle tratte dovuti alle privatizzazioni, perché l’obiettivo di Trenitalia non è offrire un servizio, ma massimizzare il profitto. Quindi chi vive al Sud o in zone disagiate avrà sicuramente apprezzato la privatizzazione di un servizio così necessario.

Le Poste privatizzate

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Poste Italiane SpA non ha grande interesse a continuare il servizio di consegna della posta, anzi, si sta concentrando soprattutto sui servizi finanziari, insomma, vuole diventare una banca, perché così i profitti sono più alti e i costi minori. Tra l’altro quello della corrispondenza è l’unico settore dove si è sviluppata una minima forma di concorrenza, con le poste private che svolgono gli stessi servizi a costi inferiori. Però, sapete, le pensioni le pagano ancora in posta, ma oggi i pensionati sono costretti a ricevere la misera pensione su un conto corrente e i bollettini, nonostante l’apertura degli sportelli Lottomatica di molti tabacchi convenzionati, continuano ad essere pagati in posta da molti utenti, sì, ma con commissioni che arrivano a 1,50 €.

Dunque mettiamo una famiglia che deve pagare il bollettino di: luce, acqua, gas e telefono. Solo di commissioni pagherà 6,00 €. E non parliamo del costo delle bollette. Anzi, ne parliamo ora ora.

Le privatizzazioni di energia, telefonia e il mercato libero

Con lo smantellamento dell’ENEL e di SIP sono nati, come ben sappiamo tutti, ENEL distribuzione (maggior tutela), ENEL Energia (mercato libero) e Telecom Italia (oggi venduta agli spagnoli), con l’intenzione di creare un mercato concorrenziale, ma nei sistemi capitalistici nostrani “concorrenza” è sinonimo di “fregatura”.

Oggi, rispetto ai primi anni 2000, paghiamo il 20% in più sia di corrente elettrica che di telefonia. Vero è che oggi si è aggiunta la voce “internet” alle spese telefoniche, ma è anche vero che in molti Paesi europei il costo dell’ADSL (o della fibra) è nettamente inferiore.

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Confronto prezzi ADSL in Europa. Fonte: SOS tariffe

Le compagnie telefoniche in regime di concorrenza in Italia sono diverse, ma se spulciamo le offerte, al netto del fumo negli occhi, sono pressoché uguali in termini di costi e si differenziano minimamente in termini di servizi offerti e di qualità del servizio. Per non parlare poi delle numerose fregature che si annidano nei caratteri minuscoli dei contratti, spesso sottoscritti senza essere letti e che riaffiorano solo all’arrivo delle prime fatture.

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Contratto telefonico e ADSL. Tra spese e spesucce, le iniziali 40,00 € a bimestre promesse dall’operatore telefonico diventano 61,80 €.

In materia energetica, poi, abbiamo raggiunto l’apice della fregatura con un regime di concorrenza basato su una componente minima e insignificante in fattura: la materia energia. Tutte le compagnie energetiche ci martellano la testa con sconti e offerte sulla materia energia, senza ovviamente specificare che il grosso da pagare in bolletta non è la materia energia, ma: trasporto, gestione contatore, oneri di sistema. Voci che in fattura risultano incomprensibili ma che rappresentano la maggior somma da pagare. Hai voglia a cambiare fornitore, i costi resteranno sempre altissimi!

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Notare il costo della materia energia e il costo delle “altre spese”. Lo sconto promesso dall’operatore è solo sulla materia energia, quindi un nonnulla.

Le privatizzazioni dell’acqua

Se l’acqua è un bene primario e comune, la sua gestione è privata. E se è vero che le Regioni possono controllarne la gestione, è anche vero che non possono legiferare sulla sua forma giuridica (quindi non possono rendere gli acquedotti Enti pubblici). La competenza spetta allo Stato. Lo stesso Stato che in questi anni ha privatizzato ogni cosa, ha privatizzato anche il bene più prezioso che abbiamo, con conseguenti aumenti di tariffe, tanto che in alcuni casi gli aumenti sono arrivati anche oltre il 200%.

Acqua bene comune. In Italia non più.

Lo Stato risparmia e ci guadagna (come fosse un privato)

Lo smantellamento dello Stato Sociale voluto da Prodi, D’Alema, Bersani e compagnia bella ha una duplice funzione: da un lato ha permesso di risparmiare sui costi degli Enti controllati dallo Stato, dall’altro ha favorito introiti maggiori sotto forma di IVA, contribuzione, imposte di bollo e altri emolumenti che ora queste aziende private versano allo Stato. Quindi oggi lo Stato da un lato ci risparmia e dall’altro ci guadagna. A rimetterci, chiaramente, sono i cittadini e gli utenti che hanno visto lievitare le tariffe, chiudere i servizi necessari e peggiorare, talvolta, gli stessi servizi a fronte di oneri maggiori.

Addio allo Stato Sociale

E’ ovvio che, con le privatizzazioni selvagge e rinunciando ad erogare tali servizi, lo Stato italiano ha smantellato lo Stato Sociale in favore di uno Stato liberista di stampo capitalista. Ma si tratta di una forma di capitalismo truccato, perché se è vero che nel capitalismo l’unico vantaggio che hanno i consumatori è rappresentato dalla concorrenza, è anche vero che in Italia la concorrenza è truccata, perché le aziende che si sono accaparrate i servizi pubblici fanno cartello (cioè si mettono d’accordo) oppure sono controllate dalle stesse persone, seppur con nomi diversi. Quindi si tratta di monopoli di fatto mascherati da regimi di concorrenza.

In questo quadro, l’unico “rimedio” predisposto dallo Stato è stato quello dell’istituzione del Garante della Concorrenza, un Ente che in Italia non ha alcun potere se non quello di comminare multe di lievissima entità a grandi aziende che non rispettano la concorrenza, che pagano volentieri le multe, tanto rappresentano una misera percentuale rispetto al fatturato.

Questa è stata l’unica concessione fatta dallo Stato a noi cittadini che, oggi, siamo costretti a pagare tanto per servizi pessimi in una realtà che andrà sempre peggio, visto che l’opera di smantellamento dello Stato Sociale sta continuando e presto ci vedremo negato persino il diritto a farci una passeggiata al mare o in campagna o in montagna senza pagare il pedaggio a Paesaggi per l’Italia SpA. Ma tranquilli, c’è pur sempre l’abbonamento annuale e se ti iscrivi alla newsletter avrai diritto a uno sconto del 5% sull’eccedenza dei passi consentiti.

 

Il G20 spiegato semplice

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Oggi si conclude il vertice dei G20, cioè dei leader di 20 Paesi del Mondo, con a tema “Dare forma a un mondo interconnesso”. Gli argomenti trattati sono molti: finanza, economia e commercio internazionale, ambiente e clima, lotta al terrorismo, guerre, migrazioni, ecc.

Ora, al di là dei discorsi lunghi e a tratti complessi fatti dai vari leader, del politichese, degli argomenti ostici e spesso poco comprensibili dal grande pubblico, ciò che ci fa capire come funziona il G20, il G7 o comunque i rapporti internazionali è qualcosa di facile e ora ve lo spiego.

Gli accordi del G20

In questi vertici, di solito, i grandi della Terra fanno degli accordi su diverse tematiche, le più importanti sono: finanza, commercio, ambiente e lotta al terrorismo.

Di solito i vertici si concludono sempre con un accordo.

Ad esempio: dobbiamo ridurre le emissioni di C02 del 25% entro il 2030. Ok, semplice no? L’accordo è stato trovato, però bisogna metterlo in pratica. Poniamo, per esempio, che l’Italia, che ha firmato l’accordo, si è dunque impegnata a ridurre le emissioni di C02. Quindi si dà il caso che sin dal giorno dopo, per esempio, imponga all’ILVA di Taranto o alla centrale ENEL a carbone di Brindisi di ridurre le emissioni in atmosfera. E’ la mossa più logica, no? Invece non fa niente.

Allora, per esempio, immaginiamo che voglia incentivare gli automobilisti a cambiare le vecchie auto e introduca degli incentivi per acquistare, poniamo, auto ibride o a GPL o a metano. E invece no. Semplicemente non fa nulla.

E l’accordo? Vabbè, al prossimo vertice l’Italia dirà che “l’impegno del nostro Paese è massimo nel ridurre le emissioni” e con questa frasetta si beccherà l’applauso della platea.

Invece, poniamo che si giunga ad un accordo di libero scambio con gli USA e l’accordo prevede che siano ridotti i dazi doganali e favoriti i commerci tra Italia e USA, garantendo, per esempio, 1000 tonnellate di merci esportate al mese. Il leader statunitense tornerà a casa e dirà alle grandi aziende: “ok, ora potete esportare tutto quello che volete, senza controlli di qualità sulle vostre merci”.

Le aziende statunitensi festeggiano l’accordo raggiunto e già immaginano di aumentare il fatturato.

Il leader italiano, dal canto suo, tornerà in Italia e dirà a Coldiretti o a Confindustria: “ci sarebbe la possibilità di esportare negli USA, però l’accordo prevede che dobbiamo garantire almeno 1000 tonnellate di merci al mese”. “Ehm – dirà Coldiretti – noi non ce la facciamo”. “Cacchio! – dirà Confindustria – noi già stiamo in crisi e non possiamo garantire un quantitativo simile!”. Quindi, di fatto, l’accordo è unilaterale e premia il più forte e il più furbo.

Qui lo dico e qui lo nego

Un’altra sfaccettatura degli accordi internazionali sta nel fatto che tanto quelle sono solo parole, scritte sì, ma pur sempre parole.

Gli accordi non sono legge né sono vincolanti per i Paesi firmatari.

Oddio, alcuni lo sarebbero, ma tanto al prossimo vertice una scusa si trova sempre e comunque gli accordi più delicati (tipo quelli sul clima) hanno scadenze lunghe e spesso, nel frattempo, il leader è cambiato.

La metafora del bullismo nel G20

E veniamo all’ultimo aspetto per comprendere meglio come funzionano i rapporti internazionali.

L’aspetto più importante sono i toni cordiali e amichevoli tra leader di Paesi avversari, tipo USA e Russia o Germania e USA. Lì, sul momento, so tutti baci e abbracci, poi, tornati nei rispettivi paesi, si torna ad essere avversari.

E’ chiaro, inoltre, che il leader del Paese più forte economicamente e più cazzuto militarmente è quello che fa la voce grossa e cerca di intimorire e addomesticare i leader di paesi più deboli.

Lo fa spesso Trump, quando dà la mano ai suoi colleghi (oppure la nega) oppure Putin, quando lancia sguardi e battutine per far capire che lui sembra fesso, ma non lo è.

Certo, questi atteggiamenti possono scatenare o far terminare guerre che portano morte e distruzione in tanti paesi, e infatti oggi Putin e Trump hanno trovato un accordo per il cessate il fuoco in Siria.

Vedremo quanto dura.

Fatto sta che la politica internazionale si può simbolicamente ricondurre al quanto piscio più lontano di fanciullesca memoria.

Tutto il resto è contorno, anche le proteste.

Anche quelle fanno parte del folklore, perché chi protesta e distrugge, nell’ambito degli svariati G7 o G20, dopo aver sfogato la propria frustrazione, tornerà sulla sua Mercedes, pronto a ingozzarsi al Mc Donald e a tornare il lunedì mattina alla scrivania di una multinazionale che gli dà il pane (del Mc, chiaro).

Fedeli e Donnarumma, due facce della stessa medaglia

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Ho scoperto l’esistenza di Donnarumma, uno che c’ha un cognome che sembra la marca di un pastificio campano, quando sui social hanno iniziato a parlare del suo rifiuto di rinnovare il contratto con il Milan. Prima di allora, non seguendo il calcio, non ero al corrente della sua esistenza.

Oggi il portierino continua a far parlare di sé, dato che ha rinunciato a svolgere l’esame di maturità per volare a Ibiza e svolgere – invece – le meritate vacanze.
La sua scelta ha creato, come accade di solito, spaccature tra i pro e i contro e molti hanno scritto di lui in questi giorni, chi difendendolo (tanto a che serve un pezzo di carta in Italia oggigiorno?) e chi dandogli dell’irresponsabile (che esempio dà ai suoi coetanei?).

Ogni posizione è giusta e corretta, sì, tranne quella del Ministro Fedeli che ha voluto scrivergli una lettera aperta dalle pagine della Gazzetta dello Sport.

La Ministra ha scritto parole tipo: “Lo studio è una straordinaria occasione di crescita. È lo strumento che più di ogni altro può darci autonomia, indipendenza, pensiero critico, che può renderci cittadine e cittadini consapevoli, attivi. Solo la conoscenza genera vera libertà, consente a ciascuna e a ciascuno di trovare “la propria voce”, la propria strada”.

Ma che faccia tosta! Da quale pulpito viene la predica! No, cara Ministra Fedeli, lei dovrebbe solo tacere. Donnarumma, come tanti altri giovani, non ascolterà le sue parole così vuote e retoriche e prive di significato, perché il significato è parte del significante e il significante sono i gesti e la realtà fattuale che danno significato alle parole.

Lei che esempio ha dato mentendo sul proprio titolo di studi? Ha spacciato un diploma per un diploma di laurea e, solo dopo essere stata sgamata, ha corretto il suo curriculum vitae. Questo è ciò che i giovani vedono, non le sue parole inutili.

L’esempio che dà è proprio questo: non serve un titolo di studi per arrivare a ricoprire alte cariche, basta mentire, entrare nel gioco della politica, essere furbi, perché il merito in Italia conta meno delle conoscenze, dei favori, persino della militanza stantia in un sindacato stantio e rappresentativo solo di sé stesso.

E poi, onestamente, in questa realtà storica in cui davvero il titolo di studi non ha più alcuna importanza e la scuola ha fallito ogni suo compito, svuotata di potere educativo e di significato sociale anche grazie alle riforme degli ultimi 20 anni, come fa un ragazzo ad avere fiducia nel percorso di studi e sognare un futuro all’altezza della propria intelligenza e dei propri sacrifici?

Questo lo penserà soprattutto uno che in un solo anno guadagnerà quanto tutta la sua classe in una intera esistenza. Donnarumma sì che è l’emblema dell’Italia che ha capito davvero tutto: ha capito che è inutile farsi il culo, ma soprattutto che siete dei falliti e avete fatto fallire intere generazioni che non credono più in voi, figurarsi nelle vostre inutili parole.

Lo Stato di Polizia è un’altra cosa, ciucci!

Stato di Polizia

Leggo spesso in vari blog, articoli di giornale, post e commenti sui social, che oramai noi viviamo in uno Stato di Polizia, in quanto il potere ci controlla e ci soggioga grazie all’uso delle forze dell’ordine che soffocano e reprimono le libertà dei cittadini anziché tutelarle e proteggerle. Giusto, no? Leggi anche tu queste boiate, vero?

Non voglio certo negare che spesso le Istituzioni usino le forze dell’ordine per controllare e reprimere le forme di disobbedienza civile e che spesso lo facciano in modo autoritario ed eccedendo nei loro ruoli. Ma questo non vuol dire che viviamo in uno Stato di polizia! Lo Stato di Polizia è un’altra cosa, completamente diversa.

Ma per capirlo bisogna capire la differenza tra forme di Stato e forme di Governo, distinzioni elaborate dalla scienza costituzionalista per indicare le diverse forme che possono assumere uno Stato e un Governo.

Forme di Stato

Uno Stato, inteso come sintesi di tre elementi, cioè territorio, popolo e governo, può assumere diverse forme, a seconda delle influenze storiche, filosofiche e politiche di un dato territorio. Nella storia abbiamo avuto:

STATO UNITARIO

E’ una forma di Stato costituita da un solo popolo su un unico territorio e sotto un unico potere sovrano.

STATO FEDERALE

E’ una forma di Stato che racchiude in sé più Stati, i quali possiedono tutti gli elementi costitutivi tipici dello Stato unitario (popolo, territorio, potere sovrano). Si basa su una Costituzione federale e più atti costitutivi, ognuno del singolo Stato, nonché vengono imposte regole proprie per ogni Stato e regole comuni. L’esempio tipico sono gli USA.

STATO ASSOLUTO

Nello Stato assoluto tutti i poteri (potere legislativo, esecutivo e giudiziario) vengono concentrati nella persona del Monarca. La popolazione è composta da sudditi (non cittadini) che rispondono solo al Re e a nessun altro potere.

STATO PATRIMONIALE

E’ una forma di Stato assoluto in cui il Re dispone del Regno come fosse proprietà privata e fonda i suoi rapporti su un modello di tipo privatistico. Anche in questo caso la popolazione è composta da sudditi.

STATO DI POLIZIA

E’ una forma più evoluta dello Stato assoluto, in cui il Sovrano, pur esercitando sempre il potere assoluto, nel contempo deve assicurare un certo benessere ai sudditi, per cui diviene un “Sovrano illuminato”. Del resto “polizia” deriva dal greco “polis” e, secondo questa forma di Stato, i sudditi hanno diritto a vivere in serenità e sicurezza, per cui il Sovrano deve garantire sicurezza da possibili attacchi esterni nonché benessere diffuso.

STATO DI DIRITTO

Nasce con la scomparsa dello Stato assoluto, per cui i “sudditi” divengono “cittadini” titolari di diritti, che rispondono solo alla legge, come anche il Sovrano (principio di legalità”). Nasce, in questo contesto, la Carta costituzionale nonché il principio della “Separazione dei poteri”.

STATO SOCIALE

E’ una forma evoluta dello Stato liberale, per cui vanno garantiti al cittadino i servizi primari (sanità, istruzione, occupazione, previdenza sociale, trasporti, ecc.), indipendentemente dal proprio reddito, al fine di rimuovere le disuguaglianze sociali.

STATO SOCIALISTA

E’ una forma più “estrema” dello Stato Sociale, per cui lo Stato si fa capo dei mezzi di produzione e garantisce ogni genere di servizio ai cittadini, in modo pressoché uguale per tutti.

Forme di Governo

A differenza delle forme di Stato, dove lo Stato si conforma in base a territorio, popolo e potere, le forme di Governo sono modelli organizzativi tipici del potere stesso, per cui si possono avere diversi modelli in base a come vengono conformati i tre poteri tipici del Governo di uno Stato: Potere decisionale, Potere esecutivo e Potere giudiziario, oltre al Potere di controllo e garanzia tipico del capo dello Stato.
Le forme di governo classiche sono:

MONARCHIA

Il potere in mano ad una sola persona. Qui distinguiamo tra Monarchia costituzionale (i poteri del Monarca sono limitati dalla Costituzione) e Monarchia assoluta (il Monarca prende tutte le decisioni e non risponde ad alcun altro potere).

ARISTOCRAZIA

Il potere in mano a poche persone (nobili o comunque “migliori”).

DEMOCRAZIA

Il potere in mano al popolo.
Poi abbiamo ulteriori forme di Governo le cui caratteristiche di base sono comunque simili alle forme di Governo classiche, ma che hanno alcuni elementi diversi, spesso patologici.

AUTOCRAZIA

Il potere in mano a una o a poche persone, che controllano la formazione delle leggi, il potere giudiziario, l’esercito e i mezzi di informazione. In questo termine ritroviamo la dittatura, la dittatura militare, la plutocrazia, la teocrazia, ecc.

ANARCHIA

In questo caso non esiste un governo organizzato e il potere è autoregolato dai membri di una comunità.

SOCIALISMO

E’ una forma di governo tipica dello Stato Socialista.

REPUBBLICA PRESIDENZIALE

Come quella francese o americana, per cui il Presidente (capo dell’esecutivo) detiene maggior potere rispetto ad altri organi e assume anche i poteri tipici del capo dello Stato.

DEMOCRAZIA DIRETTA

E’ una forma di democrazia senza intermediazioni tipiche della rappresentanza parlamentare. Spesso si associa ad altre forme democratiche e si sostanzia nella decisione, da parte del Popolo, su tematiche rilevanti, a mezzo referendum.
Esistono tante altre forme di governo, ma sia chiara una cosa: se volete parlare di quanto in Italia la libertà sia limitata e controllata da parte del Governo, prendete ad esempio una delle forme di Governo, parlate pure di dittatura di fatto, di autarchia, di democrazia totalitaria, ma lasciate perdere lo Stato di Polizia, che è un’altra cosa. Fino a prova contraria la nostra è ancora una forma di Stato di diritto.

Non aprire quella partita IVA

steve jobs partita IVA

Steve Jobs, il fondatore di Apple, in un discorso all’Università di Stanford nel 2005 disse la storica frase: “siate affamati, siate folli”, rivolgendosi agli studenti laureandi, per invogliarli a crescere e a creare idee e imprese.

E ci credo. Negli USA sta frase ha un senso, in Italia ne ha un altro, soprattutto per le Partita IVA.

“Siate affamati”

Tra INPS, IVA, anticipi IVA, irpef, commercialista, tenuta dei libri contabili, diritti camerali, fornitori, luce, acqua, gas, tasse comunali sull’immondizia, l’insegna, il suolo pubblico, oltre a tante altre spese quali commissioni sui bonifici, sulle transazioni, spese di C/C, corrieri, merce danneggiata, assicurazioni, spese pubblicitarie, costo carburante, affitti e registrazione del contratto (all’Agenzia delle entrate da corrispondere ogni anno) e altre spesucce varie, a chi ha una Partita IVA la fame viene davvero, ma non nel senso prospettato da Jobs.

“Siate folli”

Si, perché per aprire una Partita IVA, in Italia, devi essere davvero folle.

Anzi, non folle, devi essere proprio scemo.

Perché oltre alle spese devi sorbirti mille impegni, non hai nessuna garanzia sindacale, nessun tipo di ferie pagate, se ti ammali sono cazzi tuoi e, per racimolare qualche soldo in più, lavori anche con la febbre e anche durante le “ferie”.

Poi mettici i clienti assurdi, che ti chiedono le cose più disparate che, se non hai o non puoi avere, ci restano male e “ti cambiano”, poi – in questo quadro roseo – mettici anche la concorrenza cinese, Amazon, la Tunisia, la Spagna e tutti i paesi Extra-UE che, tramite simpatici accordi, fanno entrare roba (alimentare e non) a basso costo e ad alti profitti.

Mentre tu, piccolo imprenditore, ti smanetti ogni giorno per cercare di ridurre i costi, aumentare la produttività, ottimizzare i processi produttivi e cercare di restare a galla, riducendo sempre più il tuo guadagno netto (che, tranquillo, andrà via tra tasse, imposte, spese varie e i figli che ti chiedono l’ultimo Smartphone alla moda da 800 euro, dopo poco meno di 6 mesi dalle ultime 800 euro spese per lo Smartphone che è passato di moda).

Se questo non è essere folli…

La verità è che quello parlava facile, in America

Già, perché negli USA non esiste l’obbligo di avere un commercialista. Oddio, nemmeno in Italia, ma qui è così complesso il sistema fiscale che il commercialista è la prima cosa che devi cercare quando apri una Partita IVA.

Negli USA no. E’ solo un consulente, che ti aiuta, ma non è necessario. Poi, negli USA tu dichiari il tuo reddito il 15 aprile (e hai tempo per farlo entro il 15 ottobre, senza ravvedimenti onerosi, come in Italia…) e loro si fidano di quello che dici (a meno di eventuali controlli, e allora so’ cazzi, se menti).

Paghi più o meno il 15% di tasse (se sei ricco arrivi al 10%) e non hai a che fare con mille enti diversi (INPS, Agenzia delle Entrate, CCIAA, Comune, Provincia, Ente Nazionale per la fessadimammata, ecc.) e diecimila scadenze (ogni 3 mesi l’INPS, poi le scadenze di IVA e quelle degli anticipi IVA, poi la scadenza della spazzatura, della registrazione del contratto di affitto, della CCIAA e tante altre piccole e grandi scadenze).

Insomma, è facile dire “siate affamati, siate folli” in un paese che ti fa pagare una cippa di tasse e la dichiarazione la può fare un fesso qualunque.

La pressione fiscale al 70% per chi ha una Partita IVA

Se Steve Jobs fosse nato in Italia avrebbe mandato a quel paese l’Apple, lo sviluppo, la conoscenza e non avrebbe mai proferito simili parole agli studenti dell’Università di Camerino. Anzi, gli avrebbe detto: “siate raccomandati, siate nipoti (se potete), altrimenti emigrate e andate a fare i camerieri a Tenerife”.

Perché in Italia, anche se hai una buona idea, il fisco ti salassa. Arrivi a pagare fino al 70% di tasse e imposte e, di quello che ti resta, devi pagare affitto, luce, acqua, telefono, internet, arredi, merce e tutto l’occorrente per far campare l’impresa.

E attenzione, perché luce e telefono hanno costi più alti. Essì, solo in Italia funziona così: costano di più perché tanto “puoi scaricarti i costi”. Ma che mi significa? Io pago circa il 25% in più di energia elettrica e di telefono e ADSL solo perché posso scaricare i costi (neanche integralmente). E se mi trovo nel regime forfettario? M’attacco.

Oltre alla pressione fiscale, pure la concorrenza

Già, perché se hai un’attività che produce o commercializza prodotti agroalimentari, devi fare i conti con la concorrenza tunisina, spagnola, marocchina, che esporta nel bel paese le stesse cose che vendi tu, ma alla metà del prezzo.

E tu, per restare sul mercato, devi abbassare i prezzi. Ah, giusto, vuoi vendere prodotti di qualità e puntare su un mercato di nicchia? Giusto, si. Ma quanto ti costa in pubblicità? Quanto in packaging e hai fatto due conti su quanto ti costa l’internazionalizzazione? Per non parlare della merce che il corriere – chiaramente – ti danneggerà e dei costi di trasporto che una piccola impresa non riesce a sopportare.

Ah, vero, ci sono le associazioni di categoria che ti supportano nei processi di innovazione e internazionalizzazione…ah, no. Scusa, lasciamo perdere!

Hai un’e-commerce? Bene. Peccato che realtà come Amazon ormai monopolizzano il mercato e offrono prezzi bassi e spese di spedizione gratuite. Come fanno? Semplice, sfruttano i dipendenti.

Tu non lo puoi fare, sennò l’Ispettorato del lavoro ti fa un culo così, per non parlare del dipendente, che con una vertenza ti fa chiudere e si piglia pure le tue mutande.

Quindi devi abbassare i prezzi, essere concorrenziale, ridurre i tuoi guadagni. Per di più devi essere veloce nelle consegne, fornire un packaging all’altezza, il reso gratuito e forme sempre migliori di assistenza post vendita. Come? Non ce la fai? E allora t’attacchi.

Sei un piccolo commerciante? Eh, lo so, a pochi km dal tuo negozio hanno aperto un nuovo Hong Kong dove vendono di tutto a prezzi stracciati e la tua clientela, anche quella più fedele, ti ha mollato e ti ha tradito, affascinata dagli occhi a mandorla e dalle tenui cadenze cinesi dei dipendenti del mega negozio.

Provi a fare i saldi? Dovresti vendere i tuoi prodotti al 50% e andare sotto prezzo di costo, ma vabbè, pur di vendere…Peccato che nel tuo piccolo negozietto la gente non può passeggiare con i carrelli e non hai nemmeno l’aria condizionata e il wi-fi gratuito. Quindi che li fai a fare i saldi?

La verità è che siamo fottuti

C’è chi parla di “resilienza” come capacità di resistere agli urti della vita e chi parla di “innovazione” come capacità di aggiornare i processi produttivi e di vendita per adeguarsi ai cambiamenti del mercato, ma la realtà è una sola: la gente vuole la qualità, si, ma a prezzi cinesi.

La gente è tendenzialmente e generalmente stupida e se ne frega che tu offri prodotti di qualità, sei cortese e sei sul mercato dal 1921. Se ne sbattono. Vogliono la roba buona a pochi soldi. Tu non puoi offrirla (chiaramente), loro non possono averla (logicamente) e quindi tendono ad acquistare cagate a pochi soldi.

Puoi anche fare i salti mortali e dire alla gente che tu hai “la roba meglio”, ma non c’è molto da fare: la gente vuol spendere poco. Allora tu che fai? Ti butti sul mercato del lusso e di nicchia? Certo, puoi farlo, ma per entrare in mercati simili devi spendere tanto (più di quanto vale la tua casa già ipotecata o la tua macchina scassata che non vede ombra di meccanico dal 1999) e devi fare tanta attività di lobbying, cosa che tu non farai mai perché non riuscirai mai ad entrare nei “giri che contano”.

E allora rassegnati e cerca di sopravvivere finché…boh? Allora che fai? Entri in concorrenza con i cinesi? Peccato che i tuoi fornitori ti offrono la stessa merce a costi più elevati, i corrieri ti offrono gli stessi servizi a costi più elevati (e ti rimborsano 1 € al kg se rompono la merce…), il costo del dipendente è 10 volte tanto rispetto a un cinese e non puoi vendere a nero, perché il cliente (stronzo) ti chiederà lo scontrino con la faccia indignata (lo stesso cliente che dai cinesi non osa nemmeno chiedere un reso…).

La crisi…

Non è colpa tua che hai commesso l’insano gesto di aprire una Partita IVA, come non è colpa dei clienti o della “gente”.

Il fatto è che in questi ultimi 20 anni la classe media è scomparsa. Lo leggi su tutti i giornali e lo ascolti in televisione. Tutti lo dicono, ma tu lo stai vivendo sulla tua pelle: la classe media non c’è più.

E qual è la classe media? Erano quelli che non erano né ricchi né poveri, erano quelli che avevano uno stipendio discreto e si potevano permettere di togliersi qualche sfizio. Erano quelli che durante il finesettimana andavano a fare shopping e spendevano un po’ di soldini nei negozi del centro, durante la passeggiata e prima di andarsi a fare una pizza. Erano quelli che non dovevano spulciare i volantini del discount per trovare le offerte migliori, ma andavano all’alimentari sotto casa a fare la spesa senza badare ai prezzi. Semplicemente compravano quello che gli serviva.

Erano quelli che “il mio negoziante di fiducia non lo cambio, perché oltre ai prodotti mi fornisce assistenza, e poi è così gentile…”. Quella stessa gente oggi va a fare la spesa ai discount (solo quando ci sono le offerte), compra dai cinesi e se ne sbatte dell’assistenza e della gentilezza, al centro ci va sempre a fare le passeggiate, ma si limita a guardare le vetrine e a commentare con toni sbigottiti i prezzi (come se i commercianti fossero dei ladri) per poi prendere un kebab a 3 euro o, al massimo, una pizzetta, prima di tornare a casa.

E tu? Ti deprimi dentro al negozio vuoto d’inverno oppure metti la sedia fuori d’estate e guardi, sconsolato, il via-vai di gente che guarda distrattamente il tuo negozio, ma di entrare non gli passa manco per la testa.

Per concludere

Quindi, caro commerciante, piccolo imprenditore e mia cara Partita IVA, la colpa non è la tua. Semplicemente hai sbagliato periodo e paese in cui nascere e operare.

Tu fai tutto il possibile, ma non c’è rimedio a questa realtà. E lascia perdere gli articoli fake che ti parlano del tizio che non vuole pagare le tasse. Se lo fai tu, ti arrivano cartelle, ingiunzioni di pagamento, ufficiali giudiziari che – levati – te li toglierai di torno solo dopo 40 anni di trafile giudiziarie.

Lascia perdere pure le cazzate di escapologia fiscale propinate da trasmissioni del cazzo come Le iene. Sono cazzate, fumo negli occhi, inutili tentativi di prenderti in giro. Ma tu sei furbo e intelligente e lo sai, l’unica è chiudere o emigrare oppure sfruttare il sistema.

Ora parlo a te, giovane pieno di speranze e di talento. Vuoi aprire una Partita IVA in Italia? Sicuro? Se sei ancora sicuro, fallo. Sappi solo che ti aspettano piccole soddisfazioni e grandi sofferenze. Se ti piace soffrire, allora aprila. Non dire però che non te l’ho detto.

E’ morto Paolo Villaggio (stavolta per davvero)

paolo villaggio

Il 2017 ci sottrae ancora una volta un pezzo di storia e di cultura, questa volta è andato via (per davvero) Paolo Villaggio. Dopo anni di bufale sulla sua dipartita (una all’anno) oggi è successo veramente.
Ma i grandi personaggi, si sa, non muoiono mai per davvero, come pezzi di DNA che i genitori trasmettono ai propri figli, i grandi personaggi ci lasciano pezzi del loro vissuto, del loro estro, del loro genio e della loro visione del mondo. Perché no, anche del loro coraggio.
Già. Nell’Ateneo in cui studiavo insegnava anche Piero Villaggio, fratello di Paolo – scomparso il 4 gennaio 2014 – professore emerito di Scienza delle costruzioni all’Università di Pisa e Accademico dei Lincei, che non ha mai digerito la scelta del fratello di intraprendere la carriera cinematografica, soprattutto in veste di personaggio povero e meschino, tanto da interrompere i rapporti col fratello (così si diceva) e tanto che, secondo una leggenda universitaria, uno studente di Scienze delle costruzioni, interrogato dal prof. Villaggio, dopo aver risposto a tutte le domande e dopo un esame sudatissimo, ricevette un misero 18 e si permise di esclamare – col tono fantozziano – un “com’è umano lei…”. Si racconta che il simpatico studente perse anche il 18 e non passò più l’esame, almeno finché il prof. Villaggio sarebbe rimasto in cattedra.
Il coraggio di Paolo è stato anche questo: rinunciare a carriere socialmente più “alte” per intraprendere quella cinematografica, inventandosi via via personaggi specchio della società del tempo e ancora attualissimi, in particolare Fracchia e Fantozzi.
Va riconosciuta la genialità di Villaggio nell’inventare un personaggio figlio dell’italiano medio e della bassa borghesia, un personaggio sfortunato, imbranato e maldestro, succube dei prepotenti e umile fino allo sfinimento, ma capace – ogni tanto – di eroici gesti di coraggio.
https://www.youtube.com/watch?v=ZTpKiWa7iIk
Uno che cerca di essere furbo, ma che poi viene tradito dalla troppa onestà.

Seguendo il più banale ed efficace dei clichet, Fantozzi è sposato con una donna “sciatta” che non lo soddisfa (ma che in fondo ama), con una figlia più simile a una scimmia che a una ragazzina (che lo fa spaventare ogni volta) e alle prese con mille problemi e mille umiliazioni, ma la partita di calcio è una delle poche valvole di sfogo di giornate umilianti e non si può rinunciare.

Fantozzi, quindi, è l’emblema dell’italiano medio, piccolo borghese, umile, tragicomico, sempre alle prese con furbi, superiori, colleghi, ma anche guai e piccole sfighe del destino che lo tartassano e lo umiliano, mentre lui – pavido e sornione – non si oppone alle avversità né cerca di contrastarle, ma tra le pieghe di sfighe quotidiane, cerca di tanto in tanto di emergere e di ottenere – tra furbizia e vaga illusione – qualche piccola concessione, come la mano della signorina Silvani, collega amata dal ragioniere ma spesso restia alle sue avance. Spesso. A volte, però, il ragioniere prende le sue soddisfazioni.

La penna di Villaggio

Il personaggio Fantozzi nacque dalla penna di Villaggio tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. Fu subito fortuna, vendette subito più di un milione di copie, perché gli italiani un po’ si identificavano nel personaggio di Fantozzi e un po’ (soprattutto) si sentivano superiori e quindi lo presero subito in simpatia. Già, perché il genio di Villaggio sta soprattutto in questo: aver creato un personaggio tipico italiano, ma più in tutto: più sfigato, con la moglie più sciatta, la figlia più brutta, la macchina più scassata, i colleghi più furbi e i capi più perfidi. E’ questo più che ha reso subito popolare il personaggio e lo ha reso più sfigato dell’italiano medio, il quale nel confronto ne esce vincitore e superiore e può dire che la sua vita è più meglio assai di quella di Fantozzi.

Le lucide analisi di Paolo Villaggio

Per anni Paolo Villaggio è stato considerato come un mediocre artefice di film mediocri, tipici del cinema italiano di serie B, perché nazional-popolari e composti da stupide gag e semplici trame. Poi, per fortuna, questa visione semplicistica dei film fantozziani è stata superata e si è capito che la sua è, in fondo, una cinematografia grottescamente colta e una sintesi lucida della realtà italiana del tempo, non molto dissimile da quella odierna.
E lucide sono anche le analisi di Villaggio sullo stato del cinema in Italia e nel mondo.

https://www.youtube.com/watch?v=MapmZOBHvf0

Caro Paolo, ti lascio con la speranza che ora starai giocando e scherzando con l’amico De Andrè e che finalmente dirai in faccia a Sergej Michajlovič Ėjzenštejn che la corazzata Potëmkin è davvero una cagata pazzesca!

Il Salento delle rievocazioni storte

articolo rievocazione tarantismo galatina 2017

Oggi, 29 giugno, la CNN e la trasmissione “La vita in diretta” erano a Galatina a documentare “la rievocazione storica dell’antico rito del tarantismo”. Tra scorrettezze lessicali e concettuali e impoverimenti culturali, ecco cos’è rimasto della storia, del mito e dei riti di uno dei fenomeni popolari più affascinanti e studiati da numerosi intellettuali, fin dal 1500.

Anzitutto, cos’è il tarantismo?

Il Tarantismo è un fenomeno legato alla figura del ragno; uomini o donne (in prevalenza), durante il lavoro nei campi o in altri momenti della giornata, se morsi da un ragno (lycosa o latrodectus), cadevano in uno stato di prostrazione fisica e psichica. Non esistevano cure mediche. L’unica cura erano i suoni e i canti (e altri rimedi, poi scomparsi nei secoli: acqua, drappi colorati, funi, ecc.), a volte quelli incessanti della pizzica-pizzica, altre volte quelli più neniosi (in questo caso si parlava di “taranta muta”). Dopo giorni di cure con suoni o canti la tarantata “espelleva il veleno” e guariva, salvo essere “rimorsa” l’anno successivo. A volte il rimorso continuava per anni, a volte per tutta la vita. Quello del ragno è – secondo Ernesto De Martino – un elemento simbolico e il “morso” può essere visto come un “male sociale” che ha radici profonde. Il tarantismo è stato conosciuto nel Salento, ma era diffuso anche in molte altre zone del Sud Italia, in Sardegna e persino in Spagna.

Che è successo?

Dagli anni ’80 il Salento – come altre zone del Mondo – ha vissuto un periodo di riscoperta delle tradizioni locali, grazie alle spinte anti-globalizzazione, alla consapevolezza della valorizzazione delle peculiarità locali e alla ri-scoperta del proprio Patrimonio culturale immateriale. Questi fenomeni di ri-scoperta hanno un ampio respiro, tanto che l’UNESCO, sin dal 1987, ha attuato forme di protezione e promozione delle peculiarità locali (Si V. UNESCO, Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura e del folklore, 1989; UNESCO, Dichiarazione universale sulla diversità culturale, 2001; UNESCO, Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, 2003; UNESCO, Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, 2005).
Peccato che poi la ri-scoperta ha incontrato il marketing e il mercato del turismo del divertimento. E’ lungo e complesso spiegare la profonda trasformazione del folk-revival e dell’etnoturismo come complessi fenomeni di scoperta delle tipicità locali passati, in pochi anni, a industria del divertimento. Vi basti sapere che il Salento ha dapprima ri-espresso le proprie tipicità e poi, dopo, sedotto dal mercato (globale) del divertimento, ha svenduto la propria identità, nel giro di un decennio.

Il tarantismo ridotto a spettacolarizzazione

E così qualche anno fa non era difficile imbattersi in gruppetti di musica popolare salentina, appena formati, che riproponevano in chiave divertentistica, il complesso fenomeno del tarantismo, ormai ridotto a mera spettacolarizzazione, solo facendo ballare, sul palco o in mezzo alla gente, una ragazzetta giovane, scosciata e perizomata, in preda a pseudo-convulsioni che si faceva passare per “tarantata”. Insomma, un fenomeno complesso e indecifrabile come quello del tarantismo, ricco di riti e miti, fino a qualche anno fa veniva rappresentato come uno pseudo fenomeno da burlesque sexy e soft-porno.
Poi però questi gruppetti hanno smesso di “rappresentare” il tarantismo da palco, anche perché le critiche erano tante e le capacità di rappresentazione erano limitate.
Poi è arrivata la “rievocazione”.

Galatina e il rito del ricordo

Va fatta una premessa. Intorno al 1700 la Chiesa cattolica ha cercato di inculturare il fenomeno del tarantismo nei meandri del cattolicesimo. Si trattava pur sempre di un fenomeno dai tratti pagani e quindi non poteva non passare inosservato. E così, pensa e ripensa, si introdusse la figura di San Paolo come “guaritore delle tarantate”. San Paolo era il protettore dei morsicati dai serpenti (per via di un morso di serpente velenoso che lo coinvolse durante una delle sue predicazioni e che non gli procurò alcun danno) e quindi ci volle poco prima di estendere la sua protezione alle “morsicate dalle tarante”. Quest’operazione studiata a tavolino dalla Chiesa creò confusione tra le tarantate, che vedevano San Paolo ora come guaritore, ora come causa del morso. Però, tutto sommato, il popolo digerì l’intromissione e ritrovò un equilibrio anche grazie ai pellegrinaggi presso la cappella di San Paolo a Galatina, luogo di ritrovo delle tarantate.

Lo stesso De Martino rilevò che l’inculturazione da parte della Chiesa cattolica contribuì a regredire il fenomeno e a renderlo “confuso”, tanto che ne presagì la scomparsa. Era il 1959 ed ebbe ragione. Da lì a poco il fenomeno e tutti i riti curativi sarebbero scomparsi. Poi è arrivato il folk-revival e la riscoperta del Patrimonio culturale immateriale. Dapprima si iniziò un faticoso percorso di rilettura del tarantismo e delle culture popolari locali, poi arrivò il mercato turistico e l’industria del divertimento e ora ciò che resta dello sterminato Patrimonio culturale immateriale è solo un vago ricordo.

E siamo ai giorni nostri

Ricordo che fino a 20 anni fa, quando ero un giovincello, il 28 giugno era una data importante. Ci si radunava davanti alla cappella di San Paolo a Galatina – luogo di ritrovo delle tarantate sin dal 1700 – per suonare e ricordare in qualche modo la sofferenza e il lungo rituale di guarigione. Infatti le tarantate si radunavano il 28 giugno, sin dalla notte per chiedere la grazia al Santo e il 29 mattina la cappella era sempre piena di donne che – tra isterie e furori – ora invocavano la grazia, ora cercavano sollievo tra le mura della cappella.
E’ giocoforza pensare che il “rito” di ritrovarsi dinanzi alla cappella fosse un modo per perpetrare il ricordo, per rispettare una tradizione, per rievocare un fenomeno complesso quanto affascinante quanto ricolmo di sofferenze e speranze. Insomma, si tratta pur sempre di ricordare e riannodare i fili con il passato.
Ora non è più così. Sono anni che osservo il lento e inesorabile disfacimento di una cultura e di una memoria ormai interrotta dai ludici e sornioni risuoni del divertimento, dello sballo, della moda di suonare i tamburelli (a ritmi volgari e tipici da discoteca) non come ricordo, ma come sberleffo, inconsapevole e irrispettoso verso una sofferenza – quella del tarantismo – che i ragazzi che suonano poco conoscono o non conoscono affatto. Il “rito” di suonare davanti alla cappella di San Paolo – per ricordare il tarantismo – si è tramutato da ricordo a sballo, da rievocazione a mera riproposizione di un disagio collettivo che ritrova nel tamburello lo sfogo sociale di frustrazioni sì simili a quelle delle tarantate, ma di cui non si conserva né il ricordo né la consapevolezza della propria memoria. E così – tra sballi e sberleffi – Santu Paulu viene ignorato mentre si protrae un rito senza nessun senso né alcun ricordo. E’ solo mera conservazione di un qualcosa che si deve fare – nello sballo – ma che non si sa bene perché.

La rievocazione

rievocazione-2
E’ in questo quadro che poi, da qualche anno a questa parte, si protrae una simil-rievocazione del “rito del tarantismo” che non ha senso di esistere, se non davanti a inconsapevoli telecamere fameliche nel raccontare riti che ormai non ci sono più e di cui nessuno sa spiegarne il senso.
La CNN e la trasmissione “La vita in diretta” hanno raccontato l’evento di oggi, che si protrae da anni: “la rievocazione storica dell’antico rito del tarantismo”.
Che tristezza. Anzitutto nel termine.
Ciò che si dovrebbe “rievocare” non è l’antico rito del tarantismo, ma il rituale di guarigione dal tarantismo. Il tarantismo non è un rito, ma è un male. E’ il metodo di guarigione ad essere un rituale, non il male in sé. Quindi è già semantica l’ignoranza del fenomeno. La pochezza culturale sta già nel titolo. L’ignoranza sta già in poche parole che descrivono la vuotezza intellettuale e culturale di gente che si fregia – davanti alle telecamere – di saper protrarre una tradizione centenaria.
Poi assisto al giornalista di “La vita in diretta” che esclama: “l’unico a curare le tarantate è San Paolo”. Al ché rifletto sulla pochezza degli “intellettuali” salentini, perché quest’espressione dà il senso del vuoto culturale che gli organizzatori di questa pseudo-rievocazione hanno trasmesso ai giornalisti. Certo, non è facile riassumere la complessità del tarantismo, ma – che cazzo – non si può falsificare la storia, né il mito, né il rito.
Poi vabbè, alle prime scene della “rievocazione”, con una donna che si contrae in preda alle “convulsioni” (segno che la sua cultura sulla materia si sia limitata alla visione di un paio di video su YouTube) e la folla in mise televisiva, persa tra la rigidità da telecamera e le facce finto-stupite, cambio canale, e magari anche città. Il Patrimonio culturale immateriale è una cosa seria e voi povera gente siete capaci di spettacolizzarlo e trasformarlo in moda, senza avere la minima idea su come tutelarlo. Eppure sarebbe più proficuo leggere il passato e acquisire consapevolezza. Ma il mercato vi lusinga e per quattro denari svendete la cultura di un intero popolo.