Multa per grattino scaduto? Non va pagata

parcheggi strisce blu

Sono tante le Amministrazioni Comunali che scelgono di istituire i parcheggi a pagamento, ossia le cosiddette strisce blu, nelle proprie città, soprattutto nelle città turistiche, in quanto rappresentano un facile guadagno per le sempre più povere casse comunali. Ma dato che si tratta per l’appunto di soldi facili e veloci, molti Comuni tendono ad abusare dello strumento, forti anche del fatto che il Codice della Strada, su questi temi, è lacunoso e offre svariati spunti interpretativi. E’ per questo che ho deciso di scrivere quest’articolo, nonostante il problema sia annoso e affrontato lungamente sulle riviste giuridiche, ma spesso con linguaggio tecnico e di difficile comprensione da parte del grande pubblico. Quindi voglio affrontarlo con un linguaggio (spero) semplice e voglio che la gente sappia tutelarsi da quest’ennesimo balzello.

Le tre tecniche che i Comuni usano per i parcheggi a pagamento

cartello_parcheggio_pagamento

Ci sono tre modi per cui un Comune può massimizzare le entrate derivanti dai parcheggi a pagamento. Uno è legittimo (anche se ingiusto), l’altro rasenta l’illegittimità mentre l’ultimo è illegale.

Determinare tariffe esose dei parcheggi

Un Comune è libero di scegliere le tariffe dei parcheggi a pagamento, sulla base della classificazione delle aree urbane (centro storico, semi-centro, area di pregio, area industriale, ecc.) coerentemente con le tabelle pubblicate dal Ministero, e quindi può stabilire, per esempio, che nel centro storico si paga 1,50 €/ora, mentre nel semi-centro si paga 0,90 €/ora e che nelle zone industriali gli stalli di parcheggio siano liberi.

Data questa libertà dei Comuni nel determinare le tariffe, molte zone a vocazione turistica scelgono di applicare tariffe alte (per esempio in Costiera Amalfitana o a Portofino si arriva a pagare anche 10,00 € l’ora) o di estendere la durata del parcheggio a pagamento a tutto il giorno (la maggior parte dei Comuni fa pagare nelle ore mattutine e pomeridiane). Questo è un comportamento che può sembrare ingiusto ed esoso, ma rientra nella discrezionalità amministrativa e nei confini di legge.

Estendere le strisce blu in ogni zona del centro e del semi-centro

Alcuni Comuni, per ottenere più entrate, decidono di estendere le strisce blu in tutte le zone del centro e in moltissime zone del semi-centro, quindi trovare, in queste città, parcheggi liberi (e non soggetti a durata limitata della sosta) è impossibile. Questo è un comportamento che rasenta l’illegalità. La rasenta, però. Perché l’art. 7 comma 8 del Codice della Strada dice che se i Comuni decidono di adottare i parcheggi a pagamento, devono prevedere, nelle vicinanze, anche un numero adeguato di parcheggi liberi (e privi di controllo di durata della sosta, cioè non soggetti a disco orario). La norma è chiara, però prosegue dicendo che quest’obbligo non sussiste per alcune zone di pregio o di particolare rilevanza urbanistica, opportunamente individuate e delimitate dalla giunta nelle quali sussistono esigenze e condizioni particolari di traffico. Dato che la norma è molto vaga e lascia ampio spazio alla giunta comunale di decidere se una certa zona è o non è di pregio oppure è o non è di particolare rilevanza urbanistica, allora è chiaro che questi Comuni diranno che tutto il centro è di particolare rilevanza, quindi escludendo ogni sorta di parcheggio libero! Ma quest’atteggiamento è stato censurato più volte dalla Corte di Cassazione, per cui potrebbe rappresentare un valido motivo di ricorso (Vedi Cass. civ. Sez. II, 20-01-2010, n. 927; Cass. civ. Sez. I, 07/03/2007, n. 5277; Cass. civ. sez. VI-2, ordinanza 03/09/2014 n. 18575).

Fare una multa per ticket scaduto

verbale

Qui viene il bello. Quando torni alla macchina e trovi una multa per “grattino” scaduto, sappi che quella multa è illegale, completamente. Spesso il Ministero dei Trasporti si è espresso sul tema, dicendo che i Comuni non possono sanzionare gli automobilisti a cui è scaduto il ticket di pagamento della sosta. Punto. Lo ha ribadito più volte, per ultimo con nota n. 53284 del 12 maggio 2015 in cui ha ribadito che nella sosta limitata o regolamentata è possibile incorrere nelle seguenti violazioni che sono sanzionate dal Codice della Strada:

  1. Ove non venga posto in funzione il dispositivo della sosta, ovvero non venga indicato l’orario di inizio della sosta, si incorre nella sanzione prevista dall’art. 157 co. 8 del CDS;
  2. Ove la sosta si protragga oltre l’orario per il quale è stata corrisposta la tariffa, si incorre nella sanzione prevista dal comma 15 dell’art. 7 del CDS;
  3. Con riferimento inoltre alla sola protrazione della violazione, quale requisito costitutivo della fattispecie illecita, si incorre nella sanzione prevista dal comma 15 dell’art. 7 del CDS in presenza di una reiterazione della condotta.

Quindi il protrarsi della sosta oltre il termine per il quale è stato effettuato il pagamento non si sostanzia in una violazione di obblighi previsti dal Codice, ma si configura come una inadempienza contrattuale che comporta per l’Amministrazione creditrice un recupero delle tariffe non riscosse previa le procedure coattive previste ex lege e l’eventuale applicazione di una penale secondo quanto previsto nella regolamentazione ex art. 7 comma 1, lett. f).

Cosa significa? Che il Comune dovrà richiedere solo il pagamento del residuo ed applicare una penale solo se è stata determinata dalla Giunta. Quindi facciamo un esempio. La Giunta comunale di Roccapriora delibera che per ogni ora dal termine del pagamento della sosta si dovrà applicare una penale di 3,00 € più il costo del parcheggio, pari a 1,00 €/ora. Io vado con la mia pandina a Roccapriora, ma c’ho solo 50 centesimi e quindi pago il parcheggio per mezz’ora. Vado a fare un giro e poi trovo un amico che non vedo da tanto tempo. Tra n’aperitivo e l’altro ho passato con lui 3 ore. Alla fine del bel pomeriggio torno alla macchina e non troverò una multa, bensì un avviso bonario che mi inviterà a pagare 3,50 euro di parcheggio scaduto più 9,00 € di penale. Questa modalità è legale, la multa, invece no.

Quante città si sono adeguate?

ausiliario traffico parcheggi

Nel 2015 l’unico Comune che ha contestato le note ministeriali è stato il Comune di Lecce, tutti gli altri si sono adeguati. Ma attenzione! Molti Comuni, pur essendosi adeguati alle direttive ministeriali, continuano a fare multe per grattino scaduto, e sono tutte multe contestabili. Inoltre sono pochissimi i Comuni che hanno deliberato in materia di recupero del residuo e applicazione dell’eventuale penale. Se manca la delibera di Giunta, non potranno recuperare alcuna somma.

Come posso tutelarmi?

ricorso prefettura parcheggi a pagamento

L’unico modo per tutelarti è di proporre ricorso al Prefetto territorialmente competente (quindi al Prefetto della tua Provincia di residenza), perché è gratuito e si può inviare anche a mezzo PEC (risparmiando pure sul costo della raccomandata A/R). Sconsiglio il ricorso al Giudice di Pace, perché le spese di giustizia superano di gran lunga l’ammontare della multa. Il Prefetto di solito accoglie questo tipo di ricorsi (tranne se non sono scritti con i piedi o mancano gli elementi minimi di un ricorso amministrativo), perché è un rappresentante del Governo e quindi deve adeguarsi alle decisioni ministeriali.

E’ vero che da oggi se paghi la multa entro 5 giorni dalla notifica del verbale hai diritto a uno sconto del 30%, ma è anche vero che sono tante le multe ingiuste che vengono fatte ogni giorno per ticket scaduto e sono tutte illegittime.

Da sanzione amministrativa a inadempimento contrattuale

Ci sarebbe da argomentare su un altro punto. Se è vero che il mancato rinnovo del pagamento non è sanzionabile è anche vero che diventa un inadempimento contrattuale, quindi la società a cui il Comune ha affidato il servizio può intimare il pagamento attraverso le ordinarie procedure (avviso bonario, messa in mora, citazione a giudizio, ecc.) e può decidere, insieme al Comune, importi alti a titolo di penali. Ciò comporterebbe che l’ammontare della somma richiesta potrebbe essere più alta rispetto alla multa. Ma staremo a vedere, perché ad oggi, a due anni dalla pubblicazione della nota interpretativa, solo pochi Comuni si sono adeguati e quindi ancora non sappiamo come si evolverà la vicenda. Però una cosa la sappiamo: il Comune e la Società partecipata dovranno dimostrare esattamente la durata della sosta, da quando scade il ticket fin quando l’auto non viene spostata dallo stallo blu. E siamo sicuri che questa prova sarà fornita? L’unica prova che possa dar vita alla richiesta integrativa e all’eventuale penale (“eventuale” si fa per dire, lo dice la legge, ma tutti i Comuni la prevederanno…). Perché se è vero che noi cittadini dobbiamo ubbidire alla legge, è anche vero che le Amministrazioni devono fare altrettanto.

Conclusioni e curiosità sui proventi dei parcheggi a pagamento

A breve ho intenzione di pubblicare un vademecum e un modello di ricorso amministrativo, in modo da facilitare la presentazione di un ricorso al Prefetto. Ce ne sono tanti sul web, ma molti modelli, secondo me, lasciano a desiderare.

Infine, una curiosità. L’art. 7 comma 7 del Codice della Strada dice che i proventi dei parcheggi a pagamento sono destinati alla installazione, costruzione e gestione di parcheggi in superficie, sopraelevati o sotterranei, e al loro miglioramento nonché a interventi per il finanziamento del trasporto pubblico locale e per migliorare la mobilità urbana. Ora, secondo voi, tutti i soldi che entrano ai comuni dai parcheggi a pagamento vengono davvero usati per questo? No, perché altrimenti dovremmo avere strade in marmo di Carrara, parcheggi con strisce oro 24 carati e autobus volanti a energia solare. Invece come vengono usati questi soldi? Chiaro: sono i profitti delle Società partecipate che gestiscono i parcheggi a pagamento. Di ciò dobbiamo ringraziare il prode Prodi e il mitico D’Alema, che hanno voluto privatizzare tutto.

E’ inutile prendersela con gli analfabeti funzionali

analfabeti funzionali

Analfabeti funzionali, che termine curioso, proprio come webeti (coniato – pare – dal giornalista Enrico Mentana).

Una volta, prima dell’avvento dei social e persino di internet, al mio paesello quelli così erano chiamati volgarmente e semplicisticamente scemi, con varianti lessicali dipendenti dagli strati sociali oppure dalla qualità della conversazione quali idioti, fessi, imbecilli, stupidi, stolti (questo è il termine che usavo quando parlavo con persone acculturate), cretini, per poi arrivare ai localismi quali mammallucchi, pampasciuni, cugghiuni, fave o grulli (usato nella mia permanenza in terra toscana).

Oggi però imperversa una moda linguisticamente fatale, che s’insinua – attraverso il web – nei nostri linguaggi e, piano piano, senza farsi accorgere, ne modifica i lemmi, pur nell’immutabilità dei significati.

Ecco che, per esempio, lo storytelling non è altro che il racconto di storie, il selfie è l’autoscatto, lo stepchild adoption è l’adozione del figlio del partner, il brand è il marchio, l’on demand è un servizio a richiesta, ecc.

Quindi un analfabeta funzionale è semplicemente un fesso che però ha studiato quel tanto che basta per saper leggere e scrivere, ma non è in grado di capire il senso di un concetto, anche semplice. In realtà pure molti laureati (e anche masterizzati o dottorati) soffrono di questa malattia culturale e infatti si nota spesso – viaggiando tra i social – che molti titolati si esprimono peggio di come si esprimeva mio nonno con la terza elementare.

Anzi, a pensarci bene, mio nonno aveva un linguaggio forbito e teneva la contabilità del forno in cui lavorava, con la terza elementare. Ma vabbè, so’ dettagli.

analfabeta_funzionale

Dunque, un analfabeta funzionale è un fesso. Chiaro. Alla categoria si possono ricondurre queste figure, così massicciamente presenti sui social:

quello che legge il titolo e commenta

A volte capita che fraintenda anche il senso del titolo, ma siccome i titoli degli articoli di oggi (inclusi quelli – sic! – dei maggiori quotidiani nazionali) sono stupidi, sensazionalistici e acchiappaclick, allora devi essere proprio demente per fraintendere il senso del solo titolo. Quindi sta gente che fa? Commenta solo in base al titolo. E infatti quei mattacchioni dei giornalisti del Secolo XIX l’anno scorso hanno fatto un esperimento sociale, basato proprio su ciò. Leggi e divertiti.

L’odiatore seriale

Premesso che odio i neologisimi angolofoni, quindi col cazzo che userò il termine haters, gli odiatori seriali sono quelli che qualsiasi cosa tu scriva (soprattutto se sei un personaggio famoso o comunque seguito sui social) loro hanno sempre qualcosa da ridire, un po’ di veleno da vomitare, qualche frase offensiva o persino qualche parola pesante o minaccia. Tipo, tu scrivi: “mi è morto il nonno, riposa in pace”. E lui ti risponderà con frasi del tipo: “spero abbia sofferto” o “il tumore se l’è mangiato”, o cose così. L’odiatore è chiaramente un fesso, che siccome non ha altri modi per sfogare le sue innumerevoli frustrazioni, allora lo fa con te e ogni “like” che prende alimenta il suo ego bisunto e lo illude di contare qualcosa nel mondo. In quello virtuale conta solo fino allo scorrimento della timeline, in quello reale purtroppo non conta un cazzo. Ecco perché è sempre immerso sui social. In fondo la sua vita è vuota, quindi i suoi 30 secondi di gloria rappresentano la summa della propria esistenza. Da compatire.

Quello che si fa i cazzi tuoi, sempre e comunque

E’ il tipo che spulcia il tuo profilo, fino ad arrivare a settembre 2007 e che (a volte) gli scappa il dito e mette il like a una foto di giugno del 2009, in cui tu eri sorridente in costume da bagno. E’ quello che quando tu scrivi: “oggi mangio leggero”, ti commenta con un: “hai problemi di fegato”? Ma fatti i cazzi tuoi, no? Spesso questo personaggio è associabile ad un altro normotipo, cioè il maniaco seriale.

Il maniaco seriale

E’ quello che ti chiede l’amicizia. Zero amici in comune, con foto profilo che mostra la tartaruga e il tatuaggio, con occhiali da sole specchiati e montatura verde pisello e un sorriso a 36 denti che simula la sua deficienza. Tu accetti l’amicizia e subito ti arriva un messaggio tipo: “ciao, o visto ke 6 single vuoi scopare?”. Tu gli fai notare che non è il caso, ma lui, nelle settimane a venire, ti mette il “like” a ogni foto che pubblichi, persino a quella della nonna sdentata e sulla sedia a rotelle. E lì capisci che la sua serialità è solo la punta dell’iceberg di un malessere sociale e psichico che potrebbe portare ad epiloghi poco piacevoli.

L’uomo del “meditate gente, meditate”

E’ il mio preferito. Il normotipo di quello che ci mette ore a scrivere un post o un commento e il cui risultato sono solo una serie di frasi stereotipate e ritrite, ma che – in testa sua – solo ricche di cultura e fanno effetto e poi, dopo un’altra ventina di minuti a pensare all’epilogo del suo scritto da nobel, conclude con un “meditate gente, meditate”. Infine, dopo aver premuto “invio”, si gongola pensando alla sua saggezza e attende i like dei suoi simili.

Quello che tu gli parli di fave e ti risponde a piselli

E’ un modo di dire della mia zona, che indica quello che ti risponde a minchia dopo aver iniziato un dialogo con lui. Tu ti sforzi, durante un dialogo tra sordi, nel semplificare il tuo pensiero e fargli capire concetti semplici, ma lui ti risponderà parlando di altro. Non perché voglia distogliere l’attenzione e spostare la conversazione su altro. No. Semplicemente non ha capito e, anziché ammetterlo, ti risponderà a cazzo.

Quello che si mette il like da solo

Nel gergo social, come sappiamo tutti benissimo, un like è un apprezzamento a un contenuto che abbiamo pubblicato. Quindi se lo hai scritto significa che condividi quello che dici, no? Mi pare elementare. Quindi perché, dimmi perché, dammi una spiegazione logica e razionale per cui devi mettere quel like ai tuoi contenuti? Dimmelo, ti prego.

Il condivisore seriale di bufale

La persona più pericolosa nel mondo social. E’ colui che si fa attrarre da titoli quali “Sensazionale scoperta, le scie chimiche fanno venire la cacarella”, oppure “I vaccini faranno diventare tuo figlio autista” o ancora “Putin ce l’ha grosso (condividi e scopri cosa)” o articoli politici come “Renzi ha fatto la cacca e noi gli paghiamo la carta igienica, condividi se sei indignato!”. A nulla vale che l’articolo provenga da un sito che si chiama “ilfattoquotidaino” oppure “la repubblica delle banane”, a nulla valgono le black list dei siti bufalari e complottisti, a nulla vale che tu commenti i suoi post dicendo che sono falsi. Ne uscirà fuori solo un’amara discussione in cui tu sei il complottista e loro i portatori sani di verità assolute. Sono deficienti, punto. Vanno solo derisi e bloccati.

Lo sgrammaticato

In realtà questa categoria racchiude tutte le altre. Per quanto mi riguarda, se uno sbaglia pure un accento, lo depenno dalla mia lista di “amici” e “contatti” (e in effetti mi sento molto solo ultimamente). Per giunta lo sgrammaticato è quello che se tu gli fai notare i suoi errori grammaticali, quasi sempre ti risponderà dicendoti che è più importante quello che vuole dire rispetto a come lo dice. Il cazzo è che non capisci nemmeno ciò che vuole dire e il più delle volte si tratta solo di concetti elementari e imbeccati.

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wow! L’Italia è al primo posto! Aspetta…per cosa? Ops, per analfabetismo funzionale (cioè per numero di scemi)

Ora facciamo un’ammissione. A chi non è mai capitato di imbattersi in tipi del genere? Alzi la mano chi non ha mai avuto a che fare con un fesso. No, non nella vita reale, sui social.

Lì pascolano liberamente, pare essere il loro habitat naturale e pare che rappresentino la maggioranza.

In effetti lo sono

Statisticamente sarebbero quasi la metà della popolazione italiana. Pare. Qualunque sia il dato statistico, resta il fatto che sono in tanti e che tu, anche se cerchi di mostrarti disponibile, aperto e propenso al dialogo, ne uscirai sempre frustrato e ricolmo di offese gratuite.

Il fatto è che hanno vinto gli analfabeti funzionali

Tu puoi anche usare tutta la logica possibile per inchiodarli alla propria ignoranza. Non ci riuscirai. Puoi pubblicare tutti gli schemi logici di questo mondo per fargli capire che bisogna parlare con consapevolezza. E’ inutile. Puoi anche citare tutte le fonti che dimostrano il contrario di ciò che sostengono. E’ tempo perso.

Gli scemi, finché avranno una connessione internet e un accesso libero e indiscriminato agli strumenti social, ti travolgeranno sempre e comunque con le loro supposizioni, i qualunquismi, le dietrologie da quattro soldi e la grammatica calpestata con violenza e abominio.

Tu potrai condividere quanto vuoi gli articoli che richiamano alla ragione, ma saranno solo compresi e accettati dai tuoi simili, cioè da quelli che vivono nelle riserve della ragione (pochi, insomma), mentre intorno a te imperverserà il diluvio dell’arroganza mista a saccenza e ignoranza. Senti a me, esci dai social e torna a leggere un buon libro. Un libro ti darà cultura (tranne quelli di Saviano e della D’Urso) e ti ricorderà la lingua, i social – invece – ti faranno dimenticare persino le regole basilari della grammatica. Davvero, fidati. Che cazzo fai? Condividi questo post sui social? Allora non ai capito un cazzo!

Roma: era mafia o non era mafia?

mafia capitale sentenza

Ieri, 20 luglio, nell’aula bunker di Rebibbia, il presidente della X sezione penale del Tribunale di Roma Rosaria Ianniello, dopo 3 ore e mezza di camera di consiglio, ha pronunciato la sentenza che chiude il primo capitolo giudiziario di Mafia capitale.

I fatti relativi a mafia capitale

Secondo la Procura di Roma, Massimo Carminati (ex terrorista nero e membro della banda della magliana) e altre 44 persone sono accusate di aver creato un’organizzazione mafiosa per controllare e manipolare l’assegnazione di appalti pubblici e la gestione dei migranti, tramite una serie di legami tra associazioni di stampo mafioso, affaristi, funzionari pubblici e politici.

Nello specifico l’ex capo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine avrebbe, in qualità di componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, gestito i flussi dei richiedenti asilo, dirottandoli verso la Capitale, per far guadagnare il sodalizio di mafia capitale, in particolare le cooperative di Salvatore Buzzi, che si occupavano della gestione dei migranti. Solo con la gestione di uno dei campi rom di Roma, il sodalizio avrebbe guadagnato più di 2 milioni di euro.

Ma non basta, perché l’imputato Franco Testa, Ex cda Enav, si occupava di proporre “amici” nei posti più importanti dell’amministrazione comunale, mentre Franco Panzironi, l’ex amministratore di Ama, si occupava di gestire i proventi illeciti, inoltre Luca Gramazio, ex consigliere prima del Comune di Roma (capogruppo PD) e poi della Regione Lazio, attraverso una serie di atti amministrativi, favoriva i componenti dell’associazione criminale di mafia capitale. Questa, a grandi linee, è la ricostruzione dei fatti compiuta dalla Procura della Repubblica di Roma.

Mafia capitale era associazione a delinquere semplice

Da quanto emerge dal dispositivo della Sentenza (in attesa delle motivazioni) a Roma, fino al 2014, hanno agito due associazioni per delinquere, non di stampo mafioso: una che fa capo a Massimo Carminati, Riccardo Brugia, Matteo Calvio e Roberto Lacopo; l’altra riconducibile agli stessi Brugia e Carminati insieme con Salvatore Buzzi, Claudio Caldarelli, Nadia Cerrito, Luca Gramazio, Franco Panzironi e altri. Quindi, nonostante le pene severe inflitte a numerosi componenti dell’associazione a delinquere, i giudici non hanno ritenuto di applicare la norma dell’art. 416/bis, “associazione di tipo mafioso”.

La norma

Ma cosa dice la norma dell’art. 416/bis?

Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni.
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma.
L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono e furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. [Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare].
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

Quindi i criteri per riconoscere un’associazione di tipo mafioso sono:

una pluralità di figure criminose

di carattere alternativo ed autonome, ognuna delle quali deve possedere la consapevolezza di contribuire con la propria condotta alla sussistenza dell’associazione e al raggiungimento dei suoi obiettivi sia personali che di gruppo;

una forma organizzativa stabile e continuativa

non per forza di lunga durata e non necessariamente immutabile.

un ruolo apicale

(o una posizione dirigenziale) di uno dei membri.

una carica intimidatrice

idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengono a contatto con l’organizzazione, nonché concreta (e non astrattamente esercitata) che si sostanzia in violenze, anche di carattere psicologico e atti tesi a costringere qualcuno ad eseguire un’azione pur contro la sua volontà, non per forza attraverso l’uso delle armi.

l’assoggettamento

cioè l’attività di coercizione psichica (e talvolta fisica) finalizzata a creare una percezione interiore dell’inferiorità del soggetto a cui sono rivolte le intimidazioni ed a sottomettere quest’ultimo alla volontà di chi intimidisce, generando un concreto timore per la propria incolumità e per quella della propria famiglia qualora il soggetto intimidito non acconsenta alla volontà del soggetto che genera le intimidazioni.

l’omertà

consiste nell’atteggiamento tenuto dal soggetto intimidito, in conseguenza dell’assoggettamento, e cioè il rifiuto di collaborare con le Autorità nella repressione del sodalizio criminale.

Le sentenze

La prima e più importante Sentenza della Corte di Cassazione sul tema è la n. 1709/1974 per cui è associazione mafiosa “ogni raggruppamento di persone che, con mezzi criminosi, si proponga di assumere o mantenere il controllo di zone, gruppi o attività produttive attraverso l’intimidazione sistematica e l’infiltrazione di propri membri in modo da creare una situazione di assoggettamento e di omertà che renda impossibili o altamente difficili le normali forme di intervento punitivo dello Stato”. Tale Sentenza precede di 10 anni la discussione politica sul tema e pone le basi per il successivo inserimento dell’art. 416/bis nel corpus del Codice Penale.

Si è a lungo dibattuto se per la configurazione dell’associazione mafiosa occorra o meno un legame con le consorterie tradizionali (cosa nostra, ndrangheta, camorra) e la Giurisprudenza di legittimità ha chiarito che anche se ci fosse un sodalizio con la mafia organizzata, non è detto che la nuova organizzazione sia da considerarsi associazione mafiosa, perché, affinché avvenga ciò, occorre che la nuova consorteria mutui il metodo mafioso e operi con un’effettiva capacità di intimidazione, non rilevando penalmente il riconoscimento o meno da parte della “casa madre” (Cass. Pen., sent. n. 13635/2012).

Difatti, perché si parli di associazione mafiosa, occorre che “gli elementi qualificanti del sodalizio criminoso riferito dall’art. 416/bis attengono essenzialmente al modus operandi dell’associazione e alla specificità del bene giuridico leso. Il primo consiste nell’avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell’organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell’ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. Il secondo consiste nel fatto che, attraverso lo strumento intimidatorio, l’associazione si assicura la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo oltre che per l’ordine pubblico in genere, anche per l’ordine pubblico economico. La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forma intimidatrice dell’associazione, e che se è invece introdotta da altri fattori, si avrà l’associazione per delinquere, ex art. 416 c.p., non quella di tipo mafioso. Ne discende che l’associazione di tipo mafioso si caratterizzi non tanto per la sua struttura, quanto per una certa intensità e stabilità del vincolo sodale, perché solo in relazione ad un forte vincolo può determinarsi quell’efficacia intimidatrice, che scaturisce dalla consapevolezza dell’esistenza stessa dell’associazione” (Cass. Pen., Sent. n. 16464/1990 e succ.).

Di Sentenze del genere ce ne sono a centinaia e, al netto di numerosi contrasti giurisprudenziali sulle forme, il ruolo soggettivo e sulle finalità dei sodalizi criminali, la giurisprudenza è ormai concorde nell’affermare che l’associazione di tipo mafioso si caratterizza quando sono presenti i sei criteri citati sopra, in particolare la carica intimidatrice, l’assoggettamento e l’omertà.

Conclusioni

Qualsiasi giurista ci dirà che nel diritto civile il fatto è certo ma la norma è incerta (e va ricercata), mentre nel diritto penale avviene l’esatto contrario: la norma è certa, è il fatto, invece, ad essere incerto (e va accertato). Quindi è certo che, nel caso in specie, l’art. 416/bis detta regole chiare su come identificare il sodalizio mafioso, interpretate e chiarite negli anni, ancor di più, dalla Giurisprudenza di merito e di legittimità, ma i fatti, così come accertati dalla Procura, non sempre sono chiaramente identificati e analizzati. Ecco perché, prima di commentare sull’esistenza o meno della “mafia” a Roma, è necessario leggere le motivazioni della Sentenza su mafia capitale e non uno striminzito dispositivo (a proposito, chi, tra gli innumerevoli commentatori dell’ultim’ora ha letto il dispositivo della Sentenza? Credo nessuno…), e credo che ciò non basti, perché per mettere il punto sulla questione ho paura che dovremmo attendere la Sentenza d’appello e, sicuramente, quella della Cassazione (mi auguro a Sezioni Unite, in modo da evitare ulteriori contrasti giurisprudenziali).

Perché siamo certi che i soggetti condannati dal Tribunale di Roma abbiano usato intimidazioni e si siano avvalsi di un’aura diffusa di omertà? E’ certo che abbiano approfittato dello stato di assoggettamento di coloro che si trovavano in contatto con il sodalizio criminale piuttosto che di uno stato di corruzione volontaria e sistematica? Sappiamo per certo che l’organizzazione era stabile e deteneva il controllo delle attività economiche servendosi della forza intimidatrice o più che altro della propensione ad elargire e far ottenere facili e ingiusti profitti?

Tutte queste domande avranno una risposta e mi auguro che i commentatori leggano la Sentenza con la stessa solerzia con cui sentenziano (è il caso di dirlo): è mafia capitale! No, non è mafia capitale!

Viva la mafia!

il_padrino mafia

Bene, oggi, a 25 anni dalla scomparsa di Paolo Borsellino e, poco prima, di Giovanni Falcone e, ancor prima, di Rosario Livatino e poi Carlo Alberto dalla Chiesa, Peppino Impastato, Ilaria Alpi (i nomi sono troppi, li trovate tutti qua) voglio fare una riflessione un po’ fuori dal coro.

Gli idioti che si fermeranno al titolo già mi staranno bestemmiando e mi faranno fischiare le orecchie per tutta la sera, ma gli altri che si prenderanno la briga di leggere l’articolo, capiranno che “viva la mafia” è la summa di 160 anni di uno Stato mal riuscito, sin dalla sua istituzione, tendenzialmente frammentato e incapace di attuare quelle forme di giustizia ed equità sociale in grado di creare coesione sociale e senso di appartenenza ad una Nazione e alla sua vita sociale e politica.

Detto in altri termini, la mafia è un cancro che prolifica in un organismo malaticcio che non ha alcuna intenzione di curarsi né di condurre una vita sana.

Come al mio solito, prima di parlare di un argomento, ci tengo a ricordare (e ricordarmi) le origini, anche per capire meglio quello che appresso dirò.

Le origini della mafia

Non è facile capire le origini del sistema mafioso. Secondo una leggenda risalente al 1400, tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, uccisero un uomo per vendicare l’onore della sorella e furono condannati a 29 anni 11 mesi e 29 giorni di carcere nell’Isola di Favignana. Durante la detenzione maturarono le “regole di onore e omertà” che costituivano il codice della “società”. Da allora Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la ‘ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli.

Leggenda a parte, si dice che effettivamente la mafia ebbe origini dalle sette segrete spagnole, che – durante il periodo borbonico – proliferavano nel Sud Italia, in particolare tra Napoli e Palermo, ma erano organizzazioni assimilabili alle attuali confraternite (o società massoniche) prive, dunque, di violenza e sopraffazione tipiche dell’attuale sistema mafioso.

Il nome mafia compare per la prima volta nel 1863, in un’opera teatrale: I mafiusi de la Vicaria, ambientata nel carcere della Vicaria di Palermo. Il termine non ha origini ben chiare, forse deriva dall’arabo (la presenza di comunità arabe è stata a lungo massiccia nel territorio siciliano), commistionato col dialetto siculo, mentre sappiamo con certezza che ‘ndrangheta deriva dal greco (“uomo valente, forte”) e camorra dal dialetto locale camurria (“imbrogliare, frodare”).

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Una scena del film “Il Prefetto di Ferro” di Pasquale Squitieri (1977)

Fino all’unità d’Italia le comunità mafiose erano dedite ad attività di riscossione crediti al soldo dei latifondisti e dei signorotti locali, oppure si potevano ricondurre al fenomeno del brigantaggio (delinquenza comune). Dopo l’unità d’Italia il fenomeno divenne più esteso e strutturato, arrivando all’uso della violenza e dell’imposizione e a sempre più intense attività di scambi con le nascenti istituzioni dello Stato sabaudo prima e del regime fascista poi. Tant’è che quando Mussolini, nel suo intento di sconfiggere la mafia, inviò in Sicilia il Prefetto Cesare Mori (detto “il Prefetto di ferro”) dovette richiamarlo subito a Roma non appena Mori iniziò a scoprire i legami tra i mafiosi locali e il governo di Roma.

Mussolini voleva solo propagandare una lotta alla mafia che però si fermasse all’arresto o alla soppressione della manovalanza, mai si sarebbe aspettato che Mori avrebbe scoperto i legami tra mafia e politica, tant’è che ricevette l’ordine di abbandonare l’operazione e tornare a Roma, dove gli fu impedito di proseguire con le indagini.

Mentre la mafia siciliana si strutturava nel controllo del territorio, dei commerci e negli accordi con le istituzioni, la ‘ndrangheta e la camorra erano ancora sistemi embrionali, dediti soprattutto al brigantaggio.

La ‘ndrangheta inizierà a svilupparsi economicamente solo a partire dagli anni ’70 fino agli anni ’90, con i sequestri di persona, grazie ai quali avrebbe ottenuto ingenti somme di denaro da reinvestire nei traffici internazionali di droga e armi, per poi divenire, nel giro di pochi decenni, una delle mafie più potenti al mondo, mentre la camorra inizierà a svilupparsi economicamente nel dopoguerra, grazie alla presenza degli americani a Napoli e a causa della perdurante crisi post-bellica che favorirà lo sviluppo di organizzazioni dedite al controllo del gioco d’azzardo, dello spaccio di alcool, sigarette e persino di generi di prima necessità. Anche la camorra, come la ‘ndrangheta, reinvestirà i suoi proventi nelle attività di traffico di droga.

Ma perché è nato il fenomeno mafioso?

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Una scena del film “Cristo si è fermato a Eboli” di Francesco Rosi (1979)

Non è facile dare una risposta, bisogna prima analizzare per bene la storia del Sud Italia. Bisogna conoscere la realtà della Civiltà contadina e degli oppressi al servizio del potente di turno, del signorotto locale o del sovrano che, senza conoscere i propri territori e chi ci abita, li scambia, li regala, ne fa oggetto di trattati con altri sovrani europei, oppure ne fa territorio di battaglie, usando la gente che – non sapendo nemmeno contro chi combatte – va a morire per una Storia altrui, per un sovrano che non conosce e non ama e contro un sovrano che non conosce e non odia. Va ad ammazzare altri soldati che, come lui, sono lì per fame e per un misero salario, oppure per imposizione. E mentre s’ammazzano, non si odiano, anzi, si amano perché, in fondo, pur essendo nemici, sono accomunati da un destino: essere sfruttati.

Per secoli i contadini, gli artigiani, i manovali del Sud sono stati sfruttati da potenze che non conoscevano né sentivano proprie. Sapevano solo che il signorotto avrebbe preteso la sua decima e avrebbe usato i suoi servitori (i mafiosi in fieri) per imporre il pagamento. E poi, tolto il signorotto, sarebbe arrivato un altro esattore, mandato da chissà chi e da chissà quale posto lontano, per imporre altre tasse, altri balzelli, altri pagamenti che li avrebbero resi ancora più poveri. Se è vero che, come racconta la Storia del Sud riemersa in questi anni, l’Unità d’Italia, al soldo dei Piemontesi, fu fatta nel sangue delle genti del Sud, i cui paesi vennero distrutti, le popolazioni sterminate e le banche saccheggiate, è anche vero che con i Borboni, i Francesi o i Veneziani non si stava meglio. Forse stavano meglio “quelli di città”, ma i contadini no.

Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli (che vi invito a leggere per capire meglio la storia del Sud e degli oppressi) scrive:

Gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati: ma non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà, a loro radicalmente nemica. Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz’ordine militare, senz’arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, e incomprensibili agli storici.

In questo contesto di sfruttamenti perenni e di briganti (cioè i primi mafiosi) eroi, che difendono il popolo, pensate che le nuove istituzioni, volute con l’unità d’Italia, poi le corporazioni fasciste e poi la nuova Repubblica del 1948 (che non avrebbe, per decenni, soppresso lo sfruttamento) avrebbero eliminato le ingiustizie e rappresentato un volano di sviluppo per le genti del Mezzogiorno? No, affatto.

La redistribuzione delle terre ai contadini, fatta negli anni ’50, ovviamente frammentò il latifondo, ma il governo non garantì ai contadini adeguati strumenti produttivi o cooperativi e fu così che, impossibilitati a coltivare le terre, i contadini emigrarono in massa. Sfruttati e abbandonati dalle istituzioni, in un periodo in cui le regioni non esistevano ancora (saranno istituite solo negli anni ’70) e i comuni erano governati da sindaci provenienti dalle vecchie nobiltà (e quindi ex latifondisti ed ex signorotti), a chi si doveva rivolgere un povero contadino per avere una minima forma di tutela? Non certo al sindaco, né alle forze dell’ordine, e quindi – giocoforza – l’unico punto di riferimento era il brigante, il mafioso locale, che spesso era uno di loro, ma arricchito (grazie alle attività criminali) e che, per ottenere consensi, elargiva favori a chi non poteva avere giustizia da parte delle Istituzioni.

Avevi subito un torto? Ti rivolgevi al mafioso. Tua figlia era stata importunata da qualche ragazzotto? Se ti fossi rivolto alle forze dell’ordine avrebbero detto che non potevano intervenire (come accade oggi, del resto) e quindi, per ottenere giustizia, andavi dal mafioso. Volevi far lavorare tuo figlio? Il mafioso era quello che ti garantiva, grazie alle sue conoscenze, un lavoro. Il boss locale era il sindaco di fatto e i suoi soldati rappresentavano le forze dell’ordine al suo soldo e, in ultima analisi, al servizio dei compaesani.

Come si fa a sconfiggere la mafia?

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Rosario Livatino, detto il giudice ragazzino, ucciso dalla mafia nel 1990

Le giornate della memoria, come quella di oggi, non servono a nulla. E non serve nemmeno mandare al macello legioni di magistrati coraggiosi, uomini di scorta, funzionari o prefetti, insomma, gente onesta, proba e valorosa.

I magistrati uccisi dalla mafia sono l’esempio del fallimento di uno Stato che ha fatto accordi con la mafia, per paura e perché ormai è impossibile sconfiggerla. Uno Stato che, nelle sue articolazioni e nella sua ignavia, ha lasciato le porte aperte affinché, tramite la corruzione, la mafia s’impadronisse di consigli comunali, regionali, società partecipate, appalti.

E’ evidente che lo Stato italiano non è mafioso (solo i fessi fanno semplificazioni così puerili), ma non è stato in grado di eliminare il problema dalla sua radice: l’approvazione sociale.

La gente deve pur sopravvivere. Se lo Stato è assente, la mafia è presente nei propri territori. Garantisce occupazione e giustizia. In Calabria ci sono più forestali che in Trentino? E’ merito della ‘ndrangheta, certo. Che fanno le persone, se lo Stato è assente e non garantisce dignità o, ancor peggio, fonti di sopravvivenza? Ora capite perché nonostante la gente sappia che la mafia deturpa i territori (anche gli stessi territori in cui vivono) è omertosa e non si lamenta?

Ora vi spiegate perché la statua di Borsellino viene distrutta e la gente difende i boss locali o, peggio, gli fa l’inchino durante le processioni? Non è arretratezza culturale né cultura mafiosa insita nella gente. E’ solo un tentativo di difendere le uniche persone che garantiscono quel minimo di sopravvivenza. Lo so che vi scandalizzate a leggere queste parole, ma è solo comprendendo gli aspetti positivi della mafia che la si può sconfiggere. E nessuno, al Sud, è così autolesionista da subire lo scempio dell’ambiente e il degrado se non ha, come moneta di scambio, qualcosa, anche il minimo per sopravvivere.

La mafia può anche avere imperi economici in tutto il Mondo, ma si può sconfiggere bruciando la terra che alimenta le sue radici: l’approvazione sociale. E come? Se lo Stato è presente nei territori, se si attuano politiche di vera giustizia ed equità sociale, se si garantisce dignità sociale alle persone, attraverso il lavoro, il welfare, strutture che funzionano ed Enti locali che rispondono alle esigenze dei cittadini, la mafia non ha più ragione di esistere né di autoalimentarsi.

Utopia? Certo. Perché la direzione che ha preso l’Italia negli ultimi anni è diametralmente opposta a questa: privatizzazioni dei servizi pubblici (anche di quelli essenziali), cieca ubbidienza alla tecnocrazia europea e alla logica bancaria e capitalistica, quindi foriera di ingiustizie sociali sempre più evidenti, abbandono del Sud anche a causa del taglio dei trasporti, abbandono delle politiche volte all’inclusione sociale di giovani e fasce deboli della popolazione, politiche volte a favorire l’immigrazione a scapito del welfare interno (non sempre è vero, ma è ciò che la gente percepisce anche a causa dell’eccessiva apertura delle nostre frontiere, della debolezza nei confronti degli altri Paesi europei, che invece le chiudono e della discussione, inopportuna e inappropriata, sullo ius soli), tutto questo contribuirà ad alimentare le ingiustizie sociali e a favorire il potenziamento dei sistemi mafiosi. A poco serviranno le commemorazioni, le operazioni di polizia, gli arresti, le confische dei beni. I beni e i soldati della mafia si potranno ricomprare agevolmente, mentre ciò che alimenta il sistema mafioso, cioè l’approvazione sociale, non sarà mai sradicato da uno Stato che, in fondo in fondo, con la mafia ci sa convivere. Parola di Pietro Lunardi.

lunardi mafia
Lo disse il Ministro Piero Lunardi nel 2001 in Sicilia: “bisogna convivere con la mafia”

Brucia la terra

Brucia la terra

Il mare osserva la terra che lenta e inesorabile brucia. Due piccoli versi ispirati dai deprimenti fatti di questi giorni.

Brucia la terra

Nella calura estiva

tra acri odori di fumo

di sterpaglia in fiamme

ingigantite dal vento

e prodotte da sudicie mani

sporche di terra e sangue

intravedo, in lontananza, il mare

acque profonde

che circondano campi in fiamme

e mentre la terra brucia

il mare, sornione, quieto la osserva.

Ode al piccione

piccione

Uno dei volatili più fastidiosi, sporchi e antipatici che popolano le nostre città, da Nord a Sud, non può non meritarsi un’ode acclamata al suo tirannico fastidio.

Ode al piccione

Da Pisa a Riccione
da Venezia a Milazzo
mio caro piccione
m’hai rotto il cazzo.
Tra la gente voli basso
da chiunque ti fai odiare
per te sembra uno spasso
quando stai per cacare.
E mi becchi il parabrezza
o la maglia o la giacca
io lo so con certezza
è mirata la tua cacca.
Non sei buono da mangiare
come il pollo o la quaglia
non sei in grado di volare
tra gli uccelli sei canaglia.
E persino un usignolo
ti scippa il pane dal becco
te lo frega e prende il volo
e di cibo resti a secco.
Come i volatili normali
cerca almeno di migrare
Apri quelle minchia di ali
e lasciaci un poco stare.

Le rapine e…la bella vita!

rapine bella vita

Proprio oggi ho letto sul quotidiano locale di una delle tante rapine al supermercato dove ogni tanto vado a fare la spesa. A memoria, in 10 anni da quando è stato aperto, è stato rapinato circa 15-20 volte.

E’ sempre lo stesso scenario: arrivano di sera, poco prima della chiusura, e razziano l’incasso. A volte è magro, come l’ultima volta (quando sono stati “prelevati” 900,00 €), a volte è più corposo (un’altra rapina, di circa 1 anno fa, ha fruttato ai malviventi circa 2000,00 €). Spesso i rapinatori sono stati individuati e sempre si trattava di giovani italiani, incensurati (o con precedenti di spaccio) e di “buona famiglia”.

Questo fatto mi ha fatto riflettere su un aspetto tipico del momento storico in cui viviamo, cioè che non si ruba più per fame, ma per lusso.

Dai, pensiamoci un attimo. Andiamo a spulciare la cronaca locale oppure i dati snocciolati ogni anno dal Viminale e scopriamo che il “grosso” delle rapine (o delle attività di spaccio) è svolto da giovani ragazzi, perlopiù incensurati e provenienti da ambienti “bene” o quantomeno dal “ceto medio”. Non sto parlando di criminalità balorda, tipica delle “periferie” e degli ambienti degradati, ma di micro-criminalità borghese.

Ora mi viene da pensare che a questi ragazzi, in fondo, non manca niente. Probabilmente sono studenti oppure giovani disoccupati che cercano di sbarcare il lunario come meglio possono. E non è un caso che sempre oggi è uscita un’indagine della Commissione Europea che indica l’Italia come il primo paese europeo per presenza di “neet”, cioè di giovani (15-24 anni) che non fanno niente: non studiano, non lavorano né cercano un lavoro. Sono il 19,9% (rispetto alla media europea del 11,5%).

Come campano questi ragazzi?

Ogni giorno, percorrendo le strade del mio paesello, vedo tanti ragazzi (giovanissimi!) che circolano con macchinoni tipo SUV o grosse berline, che passano le serate nei locali a bere o che si sfondano di aperitivi al mare, negli stabilimenti, dove solo per prendere un caffè paghi l’ira di dio.

Io, da piccolo imprenditore quale sono, provo ogni volta un senso di vergogna e di disgusto a cacciare tre euro e cinquanta per una Tennent’s, mentre guardo il tavolo di un gruppo di adolescenti pieni di acne che ne ha consumate almeno una trentina. E mi faccio i conti.

Quindi è detto fatto? Ci sta una “generazione” di ragazzi che non vogliono studiare, di lavorare manco l’ombra, però devono comunque “apparire in società” e, di conseguenza, spendere. Allora è forse spiegato perché c’è una così ampia recrudescenza di rapine, furti e spaccio? Forse, probabile. Non è così difficile fare due+due.

Del resto la vita oggi è cara e la bella vita costa anche di più. Poi se ci metti la precarietà del lavoro, gli alti costi e le innumerevoli incertezze del lavoro in proprio, nonché il fatto che “il lavoro stanca e non rende” unito al ripudio della fatica come antidoto ai mali del passato in cui i nostri nonni si sono “fatti il culo” e per cui i giovani provano una profonda antipatia, capisci che la via più semplice è quella di far soldi con facilità e oggi i modi sono pochi: o sfondi su internet (cosa che riescono a fare agevolmente solo i veri idioti) o vivi di rendita (cosa che fanno in pochi, cioè i sopravvissuti della crisi economica), oppure commetti reati (tipo: spaccio, rapine, furti…).

Lo stress dell’edonismo

Cioè pensa allo stress a cui è sottoposto un giovane d’oggi. Un pacchetto di sigarette costa 5 euro, un cocktail costa dalle 5 alle 15 euro (a seconda di dove vai…), un ingresso in discoteca (di quelle che contano) costa almeno 10 euro e a volte la consumazione non è inclusa. E che fai? Non ti prendi almeno 2-3 consumazioni? Poi metti il pre e il post serata: tra birre, panini, cocktail e sigarette, almeno almeno ti spari quelle 50-60 euro. Se poi “rimorchi” allora la spesa raddoppia, e lì so’ cazzi. Perché non puoi sfigurare davanti all’imposizione implicita di una consumazione offerta. Calcola che una volta si usciva il sabato e basta (se ti andava bene), mentre oggi si fa il pre-finesettimana il giovedì e poi il finesettimana il venerdì e il sabato. E ogni giorno so’ spese, e grosse pure.

E poi…un tatuaggio stupido, piccolo piccolo, costa 30 euro, e c’è chi se ne fa minimo 2-3, perché con uno non conti. E poi il macchinone, i vestiti griffati (cosa vuoi? Che indossi i vestiti del mercato?), l’orologio buono e gli occhiali da sole ray-ban. Ohi, che pensi? A occhio ci vogliono almeno 1000 euro di imprinting, oltre alle basilari 50 euro a sera, giusto per “apparire” e non sfigurare.

Paga papà? Paga il nonno? Sì, a volte. Ma a volte no. E quindi i soldi da dove vengono?

Il lusso costa

Tutto sommato, sti ragazzi che non lavorano, non studiano né hanno ben chiaro il proprio futuro, ma vivono nel confine tra la rendita e l’illegalità, supportati dalle paghette dei nonni e dai sotterfugi per “campare”, hanno ben impresso nella mente il principio del vivere moderno: non è la fame ciò che ci comanda, ma il lusso, o almeno la sua apparenza. L’apparenza è sostanza e la sostanza ha un costo. Non sono ladri di polli, che rubano per fame, sono ladri di supermarket o spacciatori di erba e cocaina e rubano e spacciano per un cocktail e per un tatuaggio o un aperitivo al mare. Del resto come dargli torto? Sono il frutto di ciò che abbiamo costruito finora, dei modelli a cui ci siamo ispirati, senza troppo pensarci, mentre abbiamo abiurato il passato, come un cattivo male da dimenticare. Sono loro, i nostri figli, i ragazzi che abbiamo educato davanti alla tv mentre noi distrattamente sceglievamo il modello di macchina più tecnologico e, per non sentire i loro pianti, li abbiamo viziati e gli abbiamo insegnato che chi lavora è un fesso, mentre chi fa il furbo è un dritto.

Solo una cosa mi fa sghignazzare: il momento, e sarà a momenti, in cui scenderanno con il culo per terra e vi ripudieranno, voi, genitori del cazzo che non siete stati in grado di insegnarli a riconoscere un albero ma siete stati bravissimi a fargli capire la differenza tra un cambio manuale e un sequenziale. Tempo qualche anno e i vostri figli tireranno i conti. Giusto il tempo di far morire i vostri genitori e le loro pensioni. Poi, giuro, mi gongolerò nel vedervi annaspare nel nulla, mentre troverete giustificazioni al vostro nulla educativo.

Da Occhetto a Pisapia: la Cosa ritorna.

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I più “vecchi” di voi si ricorderanno di un certo Achille Occhetto, ultimo segretario del Partito Comunista, che ha “guidato” la caduta del partito a seguito della caduta del muro di Berlino e del definitivo disfacimento del totalitarismo comunista nei Paesi dell’Est Europa. Ricorderete anche la svolta verso un “comunismo moderno” che Occhetto volle dare, sin dalla caduta del PC, parlando di una cosa.

Ma che cosa? Probabilmente nemmeno lui lo sapeva, ma sta di fatto che presto sarebbe diventata tanto brutta quanto la vespa che la Piaggio realizzò proprio in quegli anni e che chiamò, appunto, “cosa”.

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Vespa Cosa (museopiaggio.it)

La “cosa” è stata l’oggetto di una lunga discussione politica in seno al partito che avrebbe portato, di lì a poco, alla fondazione di un nuovo soggetto politico: Il PDS (Partito Democratico della Sinistra), un partito chiaramente confuso, senza più appigli ideologici e senza un chiaro linguaggio politico, tanto che di lì a poco, nel giro di 10 anni, si passò dal PDS ai DS (Democratici di sinistra), anche grazie all’intervento di un rampante Massimo D’Alema e poi, pochi anni dopo, nel 2006, dai DS all’attuale Partito Democratico.

Inutile dire che la frammentazione del PC comportò la nascita di tanti soggetti politici di sinistra (come Rifondazione o Comunisti italiani) che, negli anni, a volte appoggeranno i vari governi di centro-sinistra, a volte contribuiranno a farli cadere, a volte, pur essendo al governo, manifesteranno in piazza…contro loro stessi!

Insomma, è chiaro che in 30 anni la sinistra ha cambiato varie forme ma la sostanza è rimasta pressoché la stessa, ossia grande confusione e incapacità di riflettere sui cambiamenti sociali, politici, economici e geo-politici internazionali e incapacità di elaborare un nuovo linguaggio di sinistra, basato su nuove esigenze, nuove problematiche da affrontare, però, con i solidi princìpi della sinistra: tutela delle fasce deboli della popolazione, anti-capitalismo e superamento della concezione privatistica dei beni comuni, socialismo applicato, uguaglianza sostanziale, potenziamento e crescita dell’istruzione e del sapere collettivo, in modo da creare una società coesa, consapevole e “libera”, oltre al superamento dei privilegi di classe (di casta o di lobby).

Diciamo la verità, i dirigenti del PC dei primi anni Novanta hanno voluto chiaramente aderire al sistema capitalista, rinnegando completamente il passato e spingendo l’Italia verso un modello liberale, cioè quel modello che oggi ha rappresentato la prima grande causa dell’attuale crisi economica, che ci porteremo dietro per numerosi decenni.

E’ vero che la storia ci ha traghettati verso il rinnegamento dei regimi totalitaristici, ed è stato giusto e storicamente coerente chiudere con l’esperienza del PC, ma da allora ad oggi mai nessuno ha voluto interrogarsi sull’applicazione dei valori della sinistra nelle esigenze moderne e sull’uso di metodologie e linguaggi moderni.

E’ stato più facile, da parte dei dirigenti del PC, abiurare il passato e abbracciare il modello capitalista, come ha subito fatto Achille Occhetto, quando è andato negli USA a dichiarare di essere contrario al regime comunista cinese o quando ha incontrato Lech Walesa, allora leader dell’opposizione polacca al regime comunista, dicendosi vicino alle sue posizioni.

Negli anni, poi, la dicotomia sinistra/liberismo ha prodotto frutti nocivi, se pensiamo alle privatizzazioni approntate dal duo Prodi/D’Alema, alla destrutturazione dello Stato sociale e alle sempre più pressanti spinte alla precarizzazione nel mondo del lavoro, tutto nel nome di un liberismo spinto, peggiore di quello inglese, che ha portato la gente a non avere più tutele quando è scoppiata la crisi economica e ad estremizzare il disagio sociale verso l’odio razziale, l’antipolitica e l’appoggio a ideologie estremiste e populiste.

Si ripete lo stesso errore: La cosa del 2017, ossia Art. 1 MDP

Ed eccoci ai giorni nostri. E’ ormai evidente che il PD, con Prodi, D’Alema, Rutelli, Veltroni, le anime “bianche” del centro e del centro (centro) sinistra, i liberali, gli ex comunisti pentiti, i cattolici e i catto-centro-comunisti, le lobby, gli affaristi, i banchieri, Confindustria e persino con amministratori locali in odor di mafia, è un partito talmente eterogeneo, frammentato, affaricentrico e incapace di discutere che, giocoforza, viene governato in modo centralizzato e con un occhio di riguardo verso le lobby.

Bastano poche prezzolate persone per imporre una linea di pensiero e di intervento, alla faccia della discussione, della base e della sintesi politica. E oggi quelle poche persone (Renzi e il suo entourage) stanno traghettando il PD verso un liberismo malato, un populismo spiccio (con contorni di putrido nazionalismo) e un notevole servilismo europeista. In questo quadro appare ovvio che molte anime “di sinistra”, incapaci di cambiare il partito dall’interno, vogliano fuoriuscirne e formare un nuovo soggetto politico. Bene.

Peccato che però, come al solito, non si impara mai dagli errori. Il buon Pisapia, che ritengo una persona valida, sta però percorrendo gli stessi passi dei suoi predecessori di quasi 30 anni fa: creare un soggetto politico con dirigenti liberisti e che si sono dimostrati incapaci di disegnare un modello nuovo di sinistra (Prodi, D’Alema, persino Bersani, che si stupisce che non avvenga un nuovo ’68. Quasi mi fa tenerezza la sua incapacità di analizzare la realtà…) e tentare di costituire un soggetto ampio, capace di “dialogare con il PD”, in cui tutti sono benvenuti, persino Renzi.

Dunque torniamo alla cosa, un elemento ibrido, informe, privo di valori fondanti in cui riconoscersi, privo di capacità di analisi politica, privo persino di contenuti, ma “aperto” a tutti. Da questo modello politico cosa può nascere? Un nuovo fallimento, chiaro.

Sembra quasi che a questa gente importi più riempire le piazze, darsi un colore nuovo (questa volta è l’arancione…anzi, un rosso sbiadito…) ma evitare qualsiasi forma di analisi, di discussione, di un seppur minimo sforzo teso a riscrivere il linguaggio della sinistra e il suo relativo vocabolario, un vocabolario che la “base” possa comprendere, assimilare e in cui possa riconoscersi e che possa rappresentare il primo – minimo – passo verso il riavvicinamento della gente alla politica, ormai priva di punti di riferimento.

E’ ovvio che senza queste operazioni (complesse, sì, ma necessarie) avremo una maggior recrudescenza degli estremismi e, a livello elettorale, il M5S rappresenterà per la gente l’unica valida alternativa alla sinistra, che di “sinistra” non ha più nemmeno il colore. E allora che si faccia questo gesto di coraggio: si crei un nuovo soggetto politico, con facce nuove e competenze valide, e si prenda anche qualche anno per discutere e analizzare la realtà, non si faccia il solito errore di correre subito alle elezioni, perché sennò torneremo di nuovo all’orrida cosa.

L’Italia dei Patrimoni e il turismo Low cost

turismo

L’Italia, si sa, è il Paese dei mille Patrimoni: arte e artigianato, Natura, paesaggi incontaminati, luoghi storici, tradizioni musicali ed enogastronomiche, borghi medievali, chiese, cripte, palazzi e tanto altro sono l’architrave del Patrimonio storico-culturale di tutta Italia. Come si dice spesso, l’Italia potrebbe vivere esclusivamente di turismo, di arte e di produzione e commercio di prodotti enogastronomici, ma questi comparti stentano a decollare, per tanti (e ovvi) motivi.

Il Patrimonio culturale trascurato

Perché nella classifica del turismo internazionale troviamo al primo posto la Spagna, seguita da Francia, Germania, USA, Regno Unito, Svizzera (persino!), Australia e poi, al decimo posto, l’Italia? (fonte: World Economic Forum (2015), The Travel & Tourism Competitiveness. Report 2015. Growth through Shocks, Geneva). Perché la Francia o la Spagna, che hanno 1/10 del nostro Patrimonio Culturale, sono le prime mete turistiche mondiali? La risposta è semplice, perché questi Paesi investono in media il 2,2% del PIL in cultura, beni e attività culturali, mentre l’Italia, con il suo 1,1% di investimenti, è all’ultimo posto tra i 27 Paesi europei. Ci supera pure la Slovenia con il suo 2,5%.

Ma non è solo un problema di investimenti in cultura. Il problema è che l’Italia non investe nemmeno in infrastrutture, servizi e tutela dell’Ambiente che favoriscono la presenza turistica nel Paese. Difatti secondo le stime del Country Brand Index 2014-2015 (FutureBrand) l’Italia, in termini di global reputation, si colloca al 18° posto in riferimento alla percezione internazionale di viaggio in termini di accoglienza, ospitalità, mobilità, ecc.

Dunque il Paese con il maggior numero di Beni Culturali al Mondo (ne abbiamo l’85%) viene superato in termini di presenze turistiche e di appeal internazionale da Paesi con Patrimoni Culturali minori in termini numerici e qualitativi.

Del resto, se leggiamo la storia politica d’Italia, l’unico momento in cui il nostro Patrimonio Culturale è stato preso in considerazione e sottoposto a tutela risale al 1974, grazie a Giovanni Spadolini, che ha voluto fortemente l’istituzione del Ministero dei Beni Culturali. All’epoca il Ministero era competente anche in materia di Ambiente, poi nel 1984 divenne Ministero per i Beni e le attività culturali per poi divenire, nel 2013, Ministero dei Beni, delle attività culturali e del turismo. Da allora ad oggi solo Spadolini e pochi altri Ministri (durati, purtroppo, pochi anni) hanno preso sul serio il compito del Ministero. Se pensiamo che dal 1998 ad oggi i Ministri sono stati Veltroni, Melandri, Urbani, Buttiglione, Rutelli, Bondi (!), Galan (!) e oggi Franceschini, non ci possiamo stupire del fatto che i Beni culturali crollano, vengono venduti e non ci sono investimenti seri in materia di cultura, tutela e valorizzazione dei Beni culturali.

I più attenti tra voi avranno notato che ho omesso di citare due nomi di Ministri: Lorenzo Ornaghi (ministro solo nel 2013 col Governo Monti) e Massimo Bray (ministro dal 2013 al 2015 col Governo Letta). Negli ultimi anni sono stati gli unici Ministri che, seppur in un lasso di tempo limitatissimo, hanno approntato piani e risorse per la tutela e la valorizzazione dei Beni Culturali e per il potenziamento del sistema turismo in Italia. A Ornaghi si deve un piano strategico di sviluppo del turismo (gennaio 2013) ben congegnato e ben strutturato, poi soppresso e sostituito dal Piano strategico di sviluppo del turismo 2017-2022 elaborato dal Dicastero di Franceschini, che sembra più un libro dei sogni scritto da ragazzini trendy che un piano vero e proprio, elaborato con un linguaggio più che discutibile e metodologie che sembrano uscire da un social network, incapace, dunque, di rappresentare un piano di sviluppo credibile, partendo da dati certi, criticità, analisi e soluzioni. Potete leggere il piano qui.

Il Piano strategico di sviluppo del turismo e le forme di turismo che l’Italia può attrarre

piano strategico turismo

Un piano di sviluppo del turismo non può solo incentrarsi sul marketing territoriale e su fumose forme di partecipazione aperta tra soggetti pubblici e privati (che spesso nascono e muoiono nel giro di pochi mesi), ma deve passare necessariamente attraverso la salvaguardia dei Beni Culturali (necessariamente gestiti in forma pubblica e non privata) e dell’Ambiente. Un Ministro che nel piano strategico parla di generica “tutela dell’Ambiente” ma poi acconsente alla realizzazione di opere, in tutta Italia, che impattano negativamente con l’Ambiente, non può essere credibile, e quindi i suoi piani fatti di belle parole e dichiarazioni d’intenti, si sciolgono come neve al sole. Ancora, un Ministro che apre alla privatizzazione e alla sponsorizzazione per i Beni Culturali è una persona che non ha capito che la Cultura non può essere mercificata, ma deve essere a tutti gli effetti pubblica. Inoltre, un piano che mette al centro la partecipazione, ma pone come obiettivo quello di riportare la materia “turismo” nella competenza statale, modificando il Titolo V della Costituzione, dimostra ancora una volta l’incapacità di dialogo tra Enti centrali e periferici e, se avviene ciò, figuarsi come si può improntare la collaborazione tra lo Stato e le piccole attività produttive, tanto decantate all’interno del Piano.

Ora, se manca una seria analisi e un piano strategico credibile, volto a salvaguardare il Patrimonio Culturale, l’Ambiente e il Paesaggio nonché volto a incentivare e mettere in rete gli operatori del settore turistico, nonché gli altri attori che ruotano intorno (aziende dell’agroalimentare, artigianato, associazionismo, ecc.) è chiaro che non ci sarà mai alcuno sviluppo. Inoltre un Ministero che è incapace di leggere la realtà e di approntare misure adeguate volte a tutelare l’Ambiente dall’invasione del turismo di massa (che porta pochi soldi e tanti danni), allora è evidente che non è ancora chiaro, ai vertici, quale forma di turismo l’Italia è chiamata ad attrarre.

Insomma, detta in altre parole, se non ci sono direttive chiare e univoche, imposte dall’alto e si lascia fare agli operatori del settore, il cui scopo è ovviamente quello di attuare profitti, è ovvio che in questo quadro “liberal” le uniche forme di turismo che gli operatori attraggono sono il turismo di massa e il turismo balneare, ovviamente nazionale o, al più, proveniente dai paesi europei più vicini (Francia e Germania in primis). E’ tutta una questione di “forza attrattiva”. Gli operatori del settore balneare e dell’industria del divertimento hanno più mezzi e più risorse per attrarre la massa, per lo più giovanile, alla ricerca di momenti di divertimento e di sballo. Il settore museale o gli operatori dei Beni culturali, siano essi pubblici o privati, di converso, non avendo risorse, non saranno in grado di approntare misure atte ad attrarre il turismo culturale, l’unica forma di turismo capace di spendere e di rispettare il genius loci.

Tra le funzioni del Ministero dei Beni Culturali e del Turismo c’è anche quella di ridurre le disparità economiche e di mezzi tra gli operatori turistici e garantire lo sviluppo di forme turistiche adeguate al delicato eco-sistema ambientale e culturale italiano, cioè forme di turismo capaci di apprezzare e scoprire il ricco Patrimonio Culturale e, ovviamente, capaci di generare ricchezza diffusa. Ma è proprio questa la funzione che fino ad oggi non ha avuto, lasciando gli operatori in balia delle acque.

Ma ci sono molte altre forme di turismo che generano ricchezza nel rispetto dei territori: il turismo etnico, il turismo enogastronomico, il turismo religioso, il turismo termale, il turismo sportivo, ecc. Ora, se non ci sono politiche univoche capaci di strutturare queste forme di turismo, permettendo offerte turistiche integrate, sistemi di mobilità pubblica e infrastrutture capaci di accogliere il turismo (parchi pubblici, porticcioli, aeroporti, stazioni termali, o, più semplicemente, mezzi di trasporto regionali e interregionali), ogni azione promessa resterà solo un bel sogno su carta.

Il turismo low cost danneggia l’immagine dell’Italia nel Mondo

turismo trash gallipoli
Il Samsara beach a Gallipoli. Forse tra quello con la maglia bianca e la tizia con gli occhiali c’è un centimetro quadrato per ballare.

Ogni estate è la stessa storia. Orde di turisti low cost invadono le coste di tutta Italia, generando confusione, degrado e spesso problemi di ordine pubblico. Accade ogni anno a Gallipoli, per esempio. I tour operator, i gestori dei lidi, di bar, ristoranti e persino di B&B sono contenti e si sfregano le mani. Tutti gli altri no, incluso il Sindaco di Alassio, che pochi giorni fa ha rilanciato il problema davanti all’opinione pubblica, chiedendo persino l’accesso alle spiagge libere a numero chiuso. Davanti a un quadro così desolante, con orde di turisti che non portano ricchezza, ma degrado, che immagine riesce a trasmettere l’Italia nel Mondo?

Lasciar fare al mercato (cosa che finora ha fatto il Ministero) significa incentivare il turismo di massa, l’unica forma di turismo che interessa agli imprenditori del settore balneare e del divertimento, perché ciò che conta nel mercato sono i numeri e non la tutela e la valorizzazione del delicato Patrimonio Culturale materiale e immateriale. Per fare un esempio, la Notte della Taranta, che si svolge ogni anno nel Salento, non ha come primario obiettivo quello di salvaguardare la memoria storico-coreutico-musicale del Patrimonio culturale locale, ma quello di fare numeri e di portare quanta più gente possibile. Non importa che poi si perda la memoria, importa sfruttare un elemento di moda (la musica popolare salentina) per portare gente. Ciò avviene un po’ dappertutto e il fatto che il turismo di massa crea disagi e non genera ricchezza (anzi, contribuisce al consumo delle risorse pubbliche e all’eccessiva produzione di immondizia, onere che ricade sulle comunità locali) non sembra rappresentare un problema, visto che nel Piano di sviluppo del turismo non c’è traccia di questa tematica.

I trasporti, il vero problema

treno

Poniamo che sono un turista americano e che ho una settimana di vacanze che voglio trascorrere in Italia. In una settimana voglio vedere le cinque città principali (Roma, Firenze, Venezia, Milano, Napoli, Palermo). Arrivo a Milano, poi prendo un treno per Venezia, da lì mi sposto verso Roma e poi a Napoli. A parte il fatto che in ogni città avrò pagato diverse tasse di soggiorno (chiaro segnale che su questa tematica non c’è una linea guida centrale) e spesso nemmeno riesco a saperlo in tempo (giusto per farmi un’idea di quanto spenderò), il problema principale sarà quando scoprirò che per arrivare a Palermo col treno metterò più tempo che per arrivare a Madrid. Quindi desisterò dal visitare la città. Se poi ho la malsana idea di voler visitare le cittadine vicine, scoprirò che non ci sono treni, forse qualche autobus, ma d’estate non si sa che orari facciano. E quindi, per esempio, avrò perso l’occasione di vedere la Ciociaria oppure Salerno o Benevento o la costiera amalfitana.

Lo stesso problema avviene per spostarsi dalle città del Centro-Nord verso il resto del Sud Italia. Il drastico taglio delle tratte ferroviarie a discapito delle città del Sud ha ostacolato lo sviluppo turistico in queste zone, per non parlare dell’emblematico caso di Matera, che – nonostante la sua nomina a Capitale Europea della Cultura 2019 – soffre ancora un isolamento geografico senza paragoni. E, stando all’attuale programmazione regionale e comunale, non sembra che ci siano risorse adeguate per risolvere il problema dei trasporti pubblici verso una meta internazionale così importante. Il Ministero dei Beni Culturali e del Turismo non potrebbe approntare misure adeguate unitamente al Ministero dei Trasporti? E’ così difficile? Oppure è più facile stendere un Piano strategico che non verrà mai attuato e che resterà solo su carta? Questo ci dimostra quanto gli attuali governi siano più propensi a gettare fumo negli occhi che a risolvere fattivamente i problemi.

Dunque, stando così le cose, credo che per molti anni vivremo il dramma del turismo low cost e che il turismo internazionale tenderà maggiormente a scegliere altre mete più “facili” in termini di servizi e di accoglienza, con buona pace degli operatori balneari e delle discoteche, gli unici che si sfregano le mani nel sentire le dichiarazioni d’intenti del Ministro Franceschini e, forse, dei suoi successori (se continua così, il prossimo Ministro sarà Rovazzi…).

Punta canna, l’ultimo discorso del Duce

lido Punta canna

Sensazionale discorso fatto dal gestore…ops! Dal Duce del lido di Punta Canna, Gianni Scarpa, poco prima del blitz della Digos. Qui in anteprima per voi, miei cari 3 lettori.
Bagnanti di terra, di mare, dell’aria.
Slippini neri della rivoluzione e delle legioni.
Uomini, donne e pure gay d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania.
Ascoltate!
Un’ora, segnata dal destino, batte nel mare della nostra patria.
L’ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra è già stata consegnata ai vicini di stabilimento di lido Punta della Maiala (di tu mà).
Scendiamo in campo contro i bocciatori reazionari dell’Occidente, che, l’anno scorso, hanno ostacolato la vittoria a bocce dei nostri valorosi anziani e spesso insidiato l’esistenza medesima dei nostrani giocatori di racchettoni prestanti e di fascio vigore!
Questo è l’anno della vittoria a bocce sotto al sole cocente di Chioggia e il vile boccino sarà sbocciato dalle virili bocce di italica stirpe romana!
Questo lido, proletario e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiero e compatto come non mai contro i bolscevichi dello stabilimento qua accanto.
La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti.
Essa già trasvola ed accende i cuori da Jesolo all’italica Fiume: vincere!
E vinceremo, per avere finalmente la rivincita e gongolarci con le loro sovietiche donne perizomate e scostumate, attratte dai nostri falli cotonati e dai muscoli flosci e tatuati.
Terry Manfrin!
Corri ai fornelli, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore, mio prode piddino e fedele cuoco!


P.S. il discorso di punta canna è vero, ho solo cambiato due-tre parole (giuro).
P.P.S. oggi volevo scrivere qualcosa, una cazzata, giusto per passare il tempo. Niente di serio, dunque.
P.P.P.S. L’aspetto più divertente della storia del “lido nostalgico” è che nelle cucine, secondo il Gazzettino di Venezia, ci lavorava il segretario PD di Chioggia, tale Terry Manfrin. Ora, a parte che – come dicevano i romani – omen nomen, ogni nome ha il suo destino, e questo se si chiama “Manfrin” è sicuramente un malandrino, ma poi devo essere io a dirvi che nel PD la gente ci entra solo per trovare un lavoro, pure sottopagato, pure umiliante, basta che sia un lavoro? E quello del segretario locale del PD è un lavoro, tipico dei lacchè di quart’ordine. Quindi nulla di cui stupirsi.
Ah, se non si fosse capito, il discorso originale è quello fatto da Mussolini il 10 giugno 1940 in cui dichiarava guerra a Gran Bretagna e Francia. Ma sono sicuro che se li avesse davvero sfidati a bocce, avremmo vinto la guerra. Eja eja jamme jà!

https://www.youtube.com/watch?v=Zd2hyly9Skw