Un centinaio di false emergenze. Parte II – Gli Ulivi

decreto emergenze

Affrontare problemi strutturali con metodi emergenziali, derogare alle norme ordinarie in materia di salute e ambiente, aiutare finanziariamente i grandi e lasciare i piccoli fuori. Queste e tante altre le criticità del c.d. Decreto Emergenze, promosso dal Ministro Centinaio, ampiamente discusso in Parlamento e, addirittura, peggiorato rispetto alla formulazione originaria, grazie agli emendamenti di M5S e PD, sia nelle commissioni (agricoltura e bilancio) che in aula.

Segue dalla prima parte.

Il problema Ulivi in Puglia

Art. 8 del decreto emergenze e sospensione della democrazia

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Nell’art. 8 del decreto emergenze si mostra tutta la pervicacia di una politica volta a soddisfare gli interessi di poche lobby a tutto svantaggio non solo dei piccoli olivicoltori pugliesi, ma anche dei cittadini che pagheranno un prezzo altissimo in salute e in contrazione dei più elementari diritti costituzionalmente garantiti, per perseguire folli e spregiudicati progetti di ristrutturazione del comparto agricolo a vantaggio degli industriali e a tutto svantaggio dei piccoli produttori e delle comunità locali.

Stiamo parlando del problema Xylella in Puglia. Ne ho già parlato in questo articolo, quindi non ripeterò cose già dette soprattutto in merito alla gestione antiscientifica e alla linea politica casinista della presunta lotta al batterio, che finora ha prodotto solo danni e nessuna soluzione in merito al disseccamento degli Ulivi. Ciò che mi preme sottolineare è che queste misure si pongono in un quadro molto ampio volto a soddisfare gli interessi dell’industria, anche a costo di calpestare i più elementari diritti della popolazione locale. Tra l’altro se passasse questo modello di emergenza fittizia, si derogherebbe a qualsiasi principio, anche di rango costituzionale, e si aprirebbero le porte ad un regime di fatto. Dato che l’analisi del testo è molto lunga e articolata, per facilitare la lettura e rendere comprensibili le numerose disposizioni in esso contenute, ogni paragrafo è un commento ad una norma specifica del decreto, con rimandi ad altri documenti o ad altre parti del testo. Buona lettura.

Articolo 8 del Decreto emergenze

(Misure di contrasto degli organismi nocivi da quarantena in applicazione di provvedimenti di emergenza fitosanitaria)

Analisi dell’art. 18-bis del D.Lgs. 214/2005

Il decreto Emergenze, all’art. 8, aggiunge l’articolo 18-bis al D.Lgs. 214/2005, recante attuazione della direttiva 2002/89/CE sulle misure di protezione contro l’individuazione e la diffusione nella Comunità di organismi nocivi ai vegetali o ai prodotti vegetali.
Il comma 1 del nuovo articolo 18-bis dispone che le misure fitosanitarie ufficiali e ogni altra attività connessa, compresa la distruzione delle piante contaminate, incluse quelle aventi carattere monumentale, sono attuate in deroga ad ogni disposizione vigente, ivi incluse quelle di natura vincolistica, nei limiti e secondo i criteri indicati nei provvedimenti di emergenza fitosanitaria.

E’ stata, quindi, estesa a livello di ordinamento generale quanto disposto dalla decisione di esecuzione (UE) 2015/789 della Commissione del 18 maggio 2015 (modificata dalla decisione di esecuzione (UE) 2018/927 del 27 giugno 2018) relativa alle misure per impedire l’introduzione e la diffusione nell’UE della Xylella fastidiosa.
L’articolo 6, paragrafo 2, lettera a) dispone, infatti, che lo Stato membro deve rimuovere immediatamente, indipendentemente dal loro stato di salute, le piante che si trovano entro un raggio di 100 metri da quelle risultate infette. Il comma 2-bis dell’articolo 6 dispone che, in deroga al disposto richiamato, è possibile decidere che non è necessario rimuovere singole piante ospiti ufficialmente riconosciute come piante di valore storico purché siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) le pianti ospiti sono state sottoposte a campionamento e analisi ed è stato confermato che non sono infette dall’organismo specificato;
b) le singole piante ospiti o la zona interessata sono state isolate fisicamente dai vettori in modo adeguato affinché tali piante non contribuiscano all’ulteriore diffusione dell’organismo specificato;
c) sono state applicate pratiche agricole appropriate per la gestione dell’organismo specificato e dei suoi vettori.

Quindi, in altre parole, per non rimuovere piante definite di interesse storico, in qualunque zona, anche nella zona infetta, si impone di effettuare pratiche agricole appropriate per la gestione del vettore, che comprendono anche e soprattutto l’uso intenso di pesticidi, dannosi per la terra, per le altre specie animali e vegetali e, soprattutto, per la salute umana.

Comma 2 art. 18-bis – Le Sanzioni

Il comma 2 del medesimo articolo 18-bis prevede che il proprietario, il conduttore o il detentore, a qualsiasi titolo, di terreni sui quali sono riscontrate piante infette da organismi nocivi da quarantena in caso di mancata esecuzione delle prescrizioni di estirpazione di piante infette dagli organismi nocivi, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 516 a euro 30.000. Gli ispettori fitosanitari o il personale di supporto, procedono all’estirpazione coattiva delle piante. Chiunque impedisce l’estirpazione coattiva è soggetto alla sanzione di cui al primo periodo, aumentata del doppio.

Questa norma va letta in relazione alla norma precedente, che stabilisce deroghe alla normativa ordinaria e concede pieni poteri al servizio fitosanitario nazionale e, di conseguenza, ai servizi fitosanitari locali. Dunque, secondo il combinato disposto delle due norme, qualsiasi soggetto autorizzato dal servizio fitosanitario può, per esempio, accedere al mio fondo senza comunicarmi alcunché, effettuare i campionamenti ed emettere un provvedimento di estirpazione. Se io mi oppongo, perché – per esempio – sto seguendo dei protocolli scientifici alternativi a quelli imposti dalla normativa emergenziale (che si basano, lo ribadisco, su concetti antiscientifici), con l’obiettivo di curare le piante, sarò costretto o ad abbattere oppure a pagare una sanzione che va da 516 a 30 mila euro e mi vedrò comunque abbattere le piante coattivamente.

Tra l’altro la norma prevede anche un provvedimento liberticida contro il sacrosanto diritto di critica e di manifestazione pacifica, perché è previsto il doppio della sanzione contro tutti coloro (non solo proprietari, tutti) che si oppongono agli abbattimenti, in qualunque modo. La norma è una chiara reazione autoritaria nei confronti di quelli che, finora, hanno legittimamente manifestato nelle campagne per evitare gli abbattimenti. La norma va letta in relazione anche al decreto sicurezza, voluto da Salvini, che reintroduce il reato di blocco stradale (depenalizzato nel 1999) ed eleva la pena detentiva da 2 a 12 anni (chiedetelo ai pastori sardi, che prima sono stati illusi e poi…denunciati). Chiaramente qualunque forma di protesta può includere, anche incidentalmente, il blocco stradale. E’ sufficiente anche solo sostare lungo una strada pubblica, durante una manifestazione, per essere denunciati e rispondere del suddetto reato.

Comma 3 art. 18-bis – Forme di pubblicità idonee. Ossia eliminare il diritto di difesa

Il comma 3 dello stesso articolo 18-bis dispone che la comunicazione dei provvedimenti di emergenza fitosanitaria, che dispongono le misure fitosanitarie obbligatorie, può essere effettuata anche mediante forme di pubblicità idonee, secondo le modalità e i termini stabiliti dal Servizio fitosanitario competente per territorio. La medesima disposizione prevede altresì che, effettuate le forme di pubblicità di cui sopra, gli ispettori o gli agenti fitosanitari ed il personale di supporto muniti di autorizzazione del Servizio fitosanitario, ai fini dell’esercizio delle loro attribuzioni, accedono comunque ai fondi nei quali sono presenti piante infettate dagli organismi nocivi, al fine di attuare le misure fitosanitarie di emergenza. A tale scopo, i Servizi fitosanitari competenti per territorio possono chiedere l’ausilio della forza pubblica.

Oltre il danno anche la beffa. Perché non solo si effettuano pesanti deroghe alle normative ordinarie (e tra poco ne vedremo altre, ancora più gravi), non solo si restringe fortemente il diritto di proprietà, non solo si lede il diritto di difesa e contraddittorio da parte del proprietario terriero, ma si dice che tutti i provvedimenti (inclusi quelli di abbattimento) non vanno più notificati personalmente agli interessati, ma possono essere pubblicizzati con “forme idonee”.

Cosa sono queste forme idonee? Per esempio l’affissione del provvedimento presso l’albo pretorio del Comune in cui insistono gli alberi da abbattere. E, fatto ciò, gli agenti del servizio fitosanitario possono accedere al fondo ed attuare le misure.

Quindi può accadere una situazione del genere: il servizio fitosanitario emette un provvedimento di abbattimento, lo pubblica sull’albo pretorio (che, si sa, notoriamente tutti i cittadini consultano diligentemente ogni mattina, appena svegli, mentre sorseggiano un caffè), poi va nel mio fondo, abbatte gli alberi e contestualmente mi sanziona pure! Se io mi oppongo, loro mi rispondono che, per legge, hanno notificato il provvedimento e io non mi sono adeguato. Se gli dico che non ne sapevo nulla o che mi serve tempo per impugnare il provvedimento, mi diranno che quest’ultimo è dato per notificato perché pubblicato con forme idonee e che le deroghe consentono loro di evitare le impugnazioni. Quindi mi troverò all’oscuro di tutto, con una sanzione da pagare e con gli alberi abbattuti.

Art. 8 Comma 2 del Decreto Emergenze

Eliminare gli ulivi monumentali con facilità

In questa disposizione si abroga l’art. 1, comma 661, della legge n. 145/2018 la quale prevede che agli ulivi che insistono nella zona infetta (di cui alla decisione di esecuzione 917 del 2018), ossia in tutta la Provincia di Lecce, la Provincia di Brindisi, buona parte della Provincia di Taranto e nel comune di Locorotondo (BA) non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9 del decreto ministeriale 23 ottobre 2014, recante “Istituzione dell’elenco degli alberi monumentali d’Italia e principi e criteri direttivi per il loro censimento”.

In altre parole, con questo panegirico giuridichese fatto di rinvii di norme, si dice che è possibile ora abbattere gli ulivi monumentali o irrorare di pesticidi i terreni in cui insistono, anche nella zona infetta, ossia in quella zona che, stante le normative attuali, non essendo più possibile eradicare il batterio, non è più necessario abbattere gli ulivi, anche monumentali, i quali sono tutelati dalla norma sopra indicata. Con l’abrogazione di questa norma, quindi, l’Amministrazione comunale può procedere all’abbattimento previa consulenza con chi? Con il servizio fitosanitario regionale.

Quindi è importante sapere che anche nella zona infetta, dove non vige(va) l’obbligo di abbattimento, sia i comuni che i proprietari possono abbattere, ma per questi ultimi sono previste ulteriori norme che analizzeremo nel prosieguo dell’articolo.

Qui basti citare, giusto per capirci, un rapporto sull’olivicoltura pugliese promosso da Confagricoltura Puglia nel 2012 (si trova qui), in cui si legge testualmente: “Gli ulivi monumentali oltre a rappresentare un vincolo di tipo tecnico-economico, a seguito degli ultimi provvedimenti regionali si configurano come un vero e proprio vincolo normativo. Infatti, proprio in relazione al valore ambientale e culturale degli oliveti pugliesi, la Regione Puglia ha voluto tutelare, con la legge regionale n. 14 del 2007 gli alberi di ulivo secolare che presentano caratteri di monumentalità. Tale legge obbliga di fatto gli olivicoltori, senza corresponsione alcuna, a regimi produttivi non remunerativi, limitando fortemente la capacità di sviluppo imprenditoriale, nel nome di benefici (ambientali, culturali, paesaggistici, ecc.) di cui gode la società intera”. Questo passaggio va letto parallelamente alla critica, da parte di Confagricoltura, sulle attuali tecniche di produzione dell’olio, specie nel Salento, che non sarebbero efficienti e competitive, poiché scarsamente industrializzate. Leggere queste considerazioni alla luce dell’attuale norma che prevede gli espianti semplificati e i reimpianti di specie resistenti (tra poco lo vediamo meglio), fa capire quali siano le reali intenzioni della normativa in oggetto.

Art. 8 Comma 3 del Decreto Emergenze

la norma incostituzionale che elimina ogni forma di tutela

Il comma 3 dell’articolo 8 prevede che all’art. 6, comma 4, del D.Lgs. 152/2006, (Testo unico in materia ambientale), sia aggiunta una nuova lettera, al fine di prevedere l’esclusione, in aggiunta a quelle già previste, dall’ambito di applicazione del testo unico, dei “piani, i programmi e i provvedimenti di difesa fitosanitaria adottati dal Servizio fitosanitario nazionale che danno applicazione a misure fitosanitarie di emergenza”.

Questa è la norma più gravemente lesiva dei diritti fondamentali delle persone che vivono nel territorio interessato dall’emergenza.

In altre parole si esclude la Valutazione Ambientale Strategica (VAS), la quale è obbligatoria per tutti i piani e i programmi che possono avere ricadute sull’ambiente e sulla salute.

Detto in termini più semplici, si potrà fare qualsiasi cosa senza il vincolo dell’impatto sull’ambiente o sulla salute umana delle misure fitosanitarie adottate. Quindi anche se si dimostrasse che, per esempio, irrorare i campi con erbicidi e insetticidi, provoca il tumore a chi abita intorno, lo si farà lo stesso, perché la norma prevede che la valutazione d’impatto è esclusa in caso di emergenze fitosanitarie. E ciò è ancora più grave in un territorio, come quello salentino, interessato da forti inquinamenti dei terreni e dell’aria (provocati dall’ex ILVA, dalla centrale a carbone di Cerano, ecc.) che ogni anno aumentano l’incidenza tumorale in molte zone del territorio.

Con questa deroga, quindi, tutto ciò che decide il servizio fitosanitario nazionale, incluso l’uso di pesticidi pericolosi per la salute umana, non è soggetto ad alcun controllo, ad alcun contraddittorio e ad alcuna valutazione di pericolosità. Del resto è palese che dall’enorme mole di documentazione prodotta finora (normative, documenti tecnici, audizioni, report, ecc.) emerga sempre la necessità di utilizzare erbicidi ed insetticidi per controllare gli insetti vettori del batterio. Tutto ciò è però in aperto contrasto con una buona parte della comunità scientifica che sostiene, invece, che l’uso di questi prodotti sia non solo dannoso per la salute umana, animale e vegetale, ma sia anche una fonte di aumento del problema dei disseccamenti, in quanto provoca un maggior impoverimento della materia organica del suolo e, di conseguenza, una maggiore debolezza della pianta, facilmente attaccabile da svariati patogeni (non solo dal batterio).

Tra l’altro se dovesse passare questo modello emergenziale così come imposto nella Puglia meridionale, con il pretesto di una fitopatia si potrebbe abrogare di fatto il testo unico ambientale in tutta Italia e dare al servizio fitosanitario centrale (controllato dal Ministero e le cui nomine sono di gestione lobbystica) il potere di fare qualunque cosa senza alcun controllo.

Del resto la logica che sta a fondo del decreto emergenze porta a considerare le fitopatie (che nascono nel mercato globale) e i cambiamenti climatici in atto come stati emergenziali da risolvere con strumenti emergenziali, in deroga a qualsiasi norma ordinaria. Quando in realtà cambiamenti climatici e fitopatie sono in atto, non sono reversibili e quindi vanno affrontati con provvedimenti strutturali e largamente condivisi da tutte le parti in causa: politica, industria, università, scienza indipendente, associazionismo, portatori d’interessi diffusi, sindacati, enti locali, ecc.

Articolo 8-bis del Decreto Emergenze

Modifica all’articolo 54 del D.Lgs. 214/2005 – Ossia normare la delazione

L’articolo 8-bis modifica il comma 5 dell’articolo 54 del D.Lgs. 214/2005 prevedendo, nella parte innovativa, un’apposita sanzione in caso di violazione degli obblighi di comunicazione da parte di chiunque venga a conoscenza della presenza di organismi nocivi. La sanzione introdotta consiste nel pagamento di una somma da euro 516 ad euro 30.000.

Non si sa come si realizzerà nella pratica questa norma. Se, passeggiando per le campagne e trovando un albero secco, non denuncio, come faranno a sanzionarmi?

In realtà la norma è chiaramente un invito alla delazione, con lo spauracchio della sanzione, e quindi avrà tre finalità: La prima. Uno strumento in mano ai sindaci per terrorizzare la popolazione; la seconda. Uno strumento per limitare la ricerca scientifica e le sperimentazioni indipendenti; la terza. Un modo per terrorizzare tutti i laboratori d’analisi che, per paura della sanzione, non faranno analisi indipendenti sugli alberi e saranno quindi costretti a comunicare al servizio fitosanitario competente la presenza di qualsiasi organismo nocivo.

Articolo 8-ter del Decreto Emergenze

Misure per il contenimento della diffusione del batterio Xylella fastidiosa

Comma 1 – Estirpiamo tutto

Questa norma prevede che per un periodo di sette anni, il proprietario, il conduttore o il detentore di terreni può estirpare, previa comunicazione alla regione, gli ulivi situati nella zona infetta, con esclusione di quelli ubicati nella zona di contenimento in deroga ad ogni disposizione vigente, anche in materia vincolistica nonché agli articoli 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 475/1945 (divieto di ingiustificato abbattimento degli alberi di ulivo).

Le deroghe sono pensate per eliminare ogni vincolo ambientale, paesaggistico, storico, ecc. e permettere agli olivicoltori di estirpare gli alberi senza alcun problema.

Va ribadito che nella c.d. zona infetta le estirpazioni non sono obbligatorie, ma questa norma le facilita ed elimina la burocrazia scomoda. Questa norma va letta in combinato disposto con l’art. 8-quater, che analizzeremo tra poco, nonché con le politiche delle associazioni di categoria di eliminare i mezzi di produzione obsoleti a vantaggio di quelli competitivi, ossia tendenti alle produzioni super-intensive.

Comma 3 – contributi ai comuni

Il comma 3 aggiunge, tra le finalità per le quali possono essere concessi contributi ai comuni per l’anno 2019, quella relativa agli interventi finalizzati al contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa previsti dal decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali del 13 febbraio 2018.

I contributi previsti dalla legge di bilancio per il 2019, finalizzati ad investimenti per la messa in sicurezza di strade, scuole, edifici pubblici e patrimonio culturale (che il M5S ha tanto sbandierato), saranno così vincolati anche all’impegno, da parte delle amministrazioni comunali interessate, di contenere la diffusione del batterio anche con l’ausilio di pesticidi (come già detto) pericolosi per la salute umana.

Comma 4 – Norma pro-bioeconomia

Il comma 4 prevede che la legna pregiata che deriva da capitozzature e espianti, se è destinata a utilizzi diversi dall’incenerimento, può essere stoccata anche nei frantoi, se questi ne fanno richiesta alla Regione. Le parti legno prive di ogni vegetazione e provenienti da piante risultate positivo al batterio della Xylella possono essere liberamente movimentate all’esterno dell’area delimitata.

La norma è chiaramente finalizzata all’utilizzo della legna per le biomasse e, più in generale, per quel progetto di respiro europeo inserito nell’ambito delle politiche sulla bioeconomia, di cui ho accennato brevemente in quest’articolo. In altre parole la legna sarà utilizzata per la produzione di energia elettrica, ma anche per produzioni industriali alternative alle fonti fossili (ossia la plastica) che deriveranno, invece, da fonti rinnovabili (ossia da prodotti agricoli) e non è un caso che proprio a Bari sia stato presentato il quinto rapporto dedicato alla bioeconomia in Europa da parte di Intesa Sanpaolo e Assobiotec, come non è un caso che le varietà di alberi previste per le produzioni super-intensive (di cui parleremo tra poco) abbiano un ciclo di vita di circa 10/12 anni, quindi destinate all’economia circolare (in cui entrano solo le industrie, dato che sono antieconomiche per i piccoli produttori) e ad alimentare il sistema nascente di bioeconomia, in cui Coldiretti è in prima linea, avendo già stipulato un patto con Eni anche in materia di produzione di biogas agricolo.

Quest’argomento, che andrebbe trattato con un articolo a parte, è molto importante, perché apre la strada all’utilizzo distorto della terra: non più destinata a soddisfare i bisogni alimentari, ma quelli industriali. E quando una grande azienda agricola si troverà davanti alla scelta di optare per la produzione di bioplastiche ad alto profitto o per continuare la produzione alimentare con bassi margini, cosa sceglierà?

Articolo 8-quater del decreto emergenze

(Piano straordinario per la rigenerazione olivicola del Salento)

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Non si possono analizzare tutte le norme precedenti senza leggerle in relazione con l’art. 8-quater, fortemente voluto dagli industriali e dalle associazioni di categoria per eliminare l’ingombro delle piante non produttive, efficientare i sistemi di produzione e commercializzazione dell’olio d’oliva, essere competitivi sul mercato globale sia in termini di costi che di brand commerciali nonché, cosa più importante, ottenere ingenti quantitativi di scarti (cioè alberi) da utilizzare nel ciclo della bioeconomia circolare.

Dalle premesse del dossier sulle modifiche al decreto Emergenze si evince che si vuol puntare sulla competitività con paesi che hanno optato per produzioni superintensive.

Difatti si legge nel testo che “rimane negativo il confronto dei prezzi dell’extravergine su base annua anche per la pressione determinata dal mercato spagnolo che, di contro, può contare su una campagna produttiva abbondante. Secondo le ultime stime, la produzione iberica sfiora infatti 1,6 milioni di tonnellate (24%) sul 2017, determinando una flessione dei listini spagnoli e condizionando anche il mercato greco e tunisino, dove invece la produzione è prevista in calo di oltre il 30%”.

Quindi per capire le logiche che stanno dietro l’art. 8-quater del decreto emergenze bisogna conoscere il progetto di sostituzione degli ulivi (in particolar modo secolari, tutelati da diverse norme, almeno fino ad oggi) con specie più produttive. Ma per farlo, queste specie devono essere considerate resistenti al batterio, altrimenti non si può giustificare la sostituzione e non si può accedere alle ingenti risorse messe in campo dal Ministro Centinaio.

Sempre citando il report di Confagricoltura del 2012, si legge: “La produttività delle aziende olivicole pugliesi è, in molti casi, fortemente condizionata dalla rigidità strutturale connessa alla diffusa presenza di piante secolari. Queste, spesso aventi un carattere monumentale, male si conciliano con un esercizio efficiente e redditizio. I costi di produzione sono proibitivi per queste realtà aziendali, specie per le aziende che puntano alla qualità”.

Non è un mistero che tutte le Associazioni di categoria, in questi anni, hanno sfruttato la questione Xylella per chiedere una ristrutturazione del comparto olivicolo, generando il cavallo di battaglia della resistenza di piante non autoctone, tra cui la specie Leccina e FS-17 (anche detta Favolosa) e altre specie non italiane che in futuro si potranno dimostrare – sulla base di presunte sperimentazioni di campo e senza rilievi scientifici – resistenti. Ciò aprirà le porte all’introduzione di specie ancor più economiche (nelle logiche delle economie di scala) e utilizzabili con modalità ancora più intensive, modalità che tra l’altro prevedono un massiccio utilizzo di risorse fondamentali (tipo l’acqua) di cui la Puglia non dispone.

Giusto per fare un esempio su come si dia estrema importanza al progetto di sostituzione degli ulivi, in una recente audizione presso la Camera dei deputati (dicembre 2018), Giacomo Carreras, presidente dell’Ordine dei dottori agronomi e forestali della provincia di Bari ha evidenziato che la sostituzione degli esemplari espiantati con varietà tolleranti o resistenti alla Xylella fastidiosa (tolleranza o resistenza che scientificamente non è mai stata provata) già presenti sul mercato come la Leccino o la FS-17, consentirebbe la creazione di barriere naturali in grado di ostacolare la diffusione del patogeno. Stessa opinione del prof. Pierfederico La Notte, di David Granieri, presidente dell’Unione nazionale tra le associazioni di produttori di olive (Unaprol), di Gennaro Sicolo, presidente del Consorzio nazionale olivicoltori (CNO), Elia Pellegrino, vicepresidente dell’Associazione italiana frantoiani oleari (AIFO) e Luigi Canino, presidente dell’Unasco.

Addirittura, sempre nella stessa audizione, Maria Lodovica Gullino, presidente della Società italiana di patologia vegetale, ha persino paventato l’ipotesi di rafforzare le tecniche di miglioramento genetico nei confronti degli ulivi resistenti proponendo correzioni sul genoma delle piante. Ciò rende la paura di molti, che parlavano di ulivi OGM (e venivano presi in giro da larghe fette di opinionisti), meno complottistica e più concreta.

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Ulivo di specie Leccina, secco (Gallipoli, LE)

Non è un caso che, sempre citando il report di Confagricoltura, “La bassa produttività degli oliveti pugliesi rappresenta un grave freno alla ripartenza del settore: l’enorme patrimonio olivicolo tradizionale non è in grado di reggere il passo con i moderni modelli superintensivi di altre realtà produttive. Qui è necessario fare una scelta: privilegiare i valori culturali e paesaggistici degli oliveti o quelli strettamente economico-produttivi? La Regione Puglia, con gli ultimi provvedimenti sulla tutela degli ulivi monumentali, sembra aver deciso per la prima opzione, così come ha deciso che debbano essere gli olivicoltori a farsi intero carico del costo sociale di tale scelta. La ristrutturazione degli oliveti obsoleti è un passaggio imprescindibile per la sopravvivenza del comparto: gli attuali costi di produzione e la produttività in campo non sono compatibili con un’olivicoltura redditizia.”

E’ questo l’obiettivo ormai non più nascosto: adattare l’ambiente al profitto e non viceversa. Ed è questo l’obiettivo del decreto Emergenze: rendere facili gli espianti di ulivi non produttivi e favorire, attraverso finanziamenti ad hoc, gli impianti di ulivi più produttivi, ossia super-intensivi.

Gli effetti del decreto, però, apriranno la via a quello che molti definiscono un nuovo latifondo, poiché i tanti piccoli proprietari di uliveti, quando si vedranno espiantare gli ulivi (con le modalità antidemocratiche e autoritarie che abbiamo visto prima) – complice anche il disinteresse verso la terra da parte di molti – preferiranno svendere i propri terreni. A chi? A chi ha ingenti risorse finanziarie per acquistarli, risorse derivanti anche da finanziamenti pubblici, a cui potranno accedervi in pochi.

Difatti l’art. 8-quater del decreto emergenze prevede una dotazione finanziaria del Piano pari a 300 milioni di euro per gli anni 2020 e 2021 e riguarderà, guardacaso, la zona infetta (comma 1), ossia quella zona che, sempre stando al report di cui sopra, soffre le maggiori criticità in termini di efficienza produttiva: le province di Lecce e Brindisi.

Ma altre risorse sono previste da parte del PSR Puglia 2014-2020 o dal Fondo per lo sviluppo e la coesione che, tra l’altro, prevede una dotazione complessiva di 6.351 milioni nel 2019, 6.850 milioni nel 2020 e 7 miliardi nel 2021. Parte di queste ingenti risorse saranno destinate alla concretizzazione dei programmi di cui sopra (bioeconomia, ristrutturazione del comparto agricolo, ecc.). E chi gestirà questi finanziamenti sul territorio? La risposta pare scontata.

Mi auguro che da questa lunga e a tratti ostica lettura del decreto emergenze si sia capito che qui non si parla di complottismi, ma di un’analisi obiettiva di fatti e norme, che vanno letti organicamente e che la prospettiva delle azioni venture, da parte dell’industria, secondo la logica del profitto e in un regime di oligopolio, porterà presto all’espropriazione di fatto delle terre, a un profondo mutamento delle economie dei territori, con conseguente maggiore impoverimento di enormi masse di persone, e alla spoliazione dei più elementari diritti democratici, in primis quello alla salute.

Da qui il mio invito a ripensare l’agricoltura secondo un modello socializzato e orizzontale.

Un centinaio di false emergenze. Parte I – Il latte

Affrontare problemi strutturali con metodi emergenziali, derogare alle norme ordinarie in materia di salute e ambiente, aiutare finanziariamente i grandi e lasciare i piccoli fuori. Queste e tante altre le criticità del c.d. Decreto Emergenze, promosso dal Ministro Centinaio, ampiamente discusso in Parlamento e, addirittura, peggiorato rispetto alla formulazione originaria, grazie agli emendamenti di M5S e PD, sia nelle commissioni (agricoltura e bilancio) che in aula.

Il testo, approvato alla Camera (e ora passerà in Senato per l’approvazione definitiva), si propone di sostenere le imprese agricole dei settori olivicolo-oleario, agrumicolo e lattiero caseario del comparto del latte ovi-caprino in quanto colpite da perduranti crisi a causa di problematiche legate al prezzo di vendita del latte, di eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale e dalle infezioni di organismi nocivi ai vegetali.

Dunque il Decreto mira ad aiutare imprese che soffrono crisi perduranti nel tempo e dipendenti non da fattori contingenti ma strutturali.

Dov’è l’emergenza?

Già da questa prima contraddizione in termini s’intuisce l’inefficacia degli interventi e la finalità (non tanto) nascosta dei provvedimenti. Anzitutto è facile capire che i presupposti su cui si basa una misura emergenziale non ci sono affatto. Come recita il testo “il susseguirsi di calamità naturali dovute anche ai cambiamenti climatici” o “il perdurare degli effetti dei danni causati dagli eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale e dalle infezioni di organismi nocivi ai vegetali” non sono situazioni emergenziali, bensì ormai abituali. Del resto già il termine cambiamenti climatici presuppone una situazione di fatto mutata o mutanda che va affrontata con strumenti normativi ordinari e non straordinari, dato che i cambiamenti climatici sono in atto, non sono di durata limitata, non sono reversibili (se non con lunghi e complessi interventi di riduzione delle emissioni a carattere globale) e vanno affrontati con un piano d’intervento non emergenziale bensì strutturale.

Come non è più un’emergenza la questione Xylella, poiché esiste ormai dal 2009 (anno delle prime segnalazioni dei disseccamenti degli ulivi) ed è stata già (infelicemente e infruttuosamente) gestita con metodi emergenziali nel 2015né può essere considerata un’emergenza la crisi del settore lattiero e caseario, poiché si basa sullo sfruttamento perdurante, continuo, costante e strutturale di un intero settore produttivo ad opera del mercato interno e globale.

Dov’è l’emergenza? Solo perché i pastori sardi si sono lamentati (l’hanno fatto anche nel 2003 con una protesta plateale, ma sono decenni che vivono queste condizioni di sfruttamento), allora si parla di emergenza? Solo perché i disseccamenti degli ulivi hanno toccato (e superato, ampiamente) la provincia di Bari e le Associazioni di categoria chiedono a gran voce di ristrutturare tutto il comparto agricolo a svantaggio dei piccoli produttori, si può parlare di emergenza?

La realtà è che il testo della Legge si muove in tre direzioni: la prima. Tutela solo gli industriali e le grandi associazioni di categoria. La seconda. Pone una longa manus statale sulla produzione casearia ma senza riconoscere alcun contributo ai pastori, per favorire gli accordi di filiera a vantaggio della grande distribuzione e delle banche. La terza. Per la gestione delle fitopatie, impone interventi che derogano ad ogni norma ordinaria (persino costituzionale!) posta a tutela della salute, dell’ambiente, del paesaggio e dei diritti fondamentali dei cittadini italiani.

Andiamo con ordine e affrontiamo prima il problema legato alla produzione del latte e poi la questione degli ulivi pugliesi in un articolo separato.

Il decreto tutela gli industriali

L’industria detta il prezzo e si specula sul pecorino romano.

Sapete quanto veniva pagato un litro di latte ovino e caprino ai pastori? In pochi anni si è passati da 1,05 € al litro a 0,85 € per poi arrivare a 0,56 € nel 2019. Mentre, in media, ai pastori sardi la produzione di un litro di latte costa 0,70 €. In poche parole nel 2019 andavano sotto di 14 centesimi per ogni litro prodotto. Ora capite perché durante le proteste preferivano buttarlo per strada? E chi detta il prezzo di mercato? Gli industriali. In altre parole l’industria del pecorino romano. I pastori vendono il loro latte alle aziende casearie che hanno rapporti con l’industria del formaggio e la Grande Distribuzione Organizzata (GDO), la quale ha rapporti con il mercato interno, europeo e americano.

Perché il prezzo è crollato?

Perché ci sono anni in cui si produce di meno (e il prezzo aumenta), mentre negli anni in cui si produce di più il prezzo scende. Ma se scende sotto il costo di produzione, qualcosa non va. Già. Non va perché ad un certo punto, quando il mercato americano ha aumentato la richiesta di pecorino romano, gli industriali hanno fatto cartello e hanno imposto il loro prezzo alle aziende casearie, le quali hanno fatto altrettanto nei confronti dei pastori. E i pastori, che per anni hanno conferito il latte nelle aziende casearie di fiducia, precludendosi in pratica ogni altra alternativa di vendita, che hanno dovuto fare? Hanno dovuto sottostare al prezzo imposto.

Lo spiego in altri termini. Io, pastore, ogni anno vendo 100 litri del mio latte all’azienda casearia X, che me lo paga 1050 €. Dato che mi costa 700 € per produrlo, mi restano in tasca 350 €. l’Azienda X produce il pecorino che vende agli industriali. Gli industriali dicono ai caseifici: “produci più formaggio, che la domanda è alta!”. E allora i caseifici dicono ai pastori: “fai più latte, che mi serve!”. I pastori quindi comprano più pecore e capre, producono più latte e fanno quanto gli è stato chiesto. Se un altro cliente gli chiede il latte per fare il formaggio, gli rispondono: “non posso, il caseificio X è il mio unico cliente”. Quindi, in poche parole, il pastore perde tutti i clienti, eccetto il caseificio X. Ma ad un certo punto il caseificio X dice ai pastori: “siccome c’è troppo latte in giro, i prezzi sono caduti, al massimo ti posso dare 56 centesimi al litro”. “Ma che dici?” risponde tutto agitato il pastore “così non copro nemmeno i costi!”. “Purtroppo a me hanno fatto questi prezzi e non posso andare oltre”, risponde il caseificio X. 

Siccome a soffrire dell’imposizione dei prezzi bassi è anche il caseificio X, quest’ultimo, per ridurre i costi di produzione è costretto a comprare il latte estero, che costa meno e che viene importato e venduto da quelle stesse aziende che fanno parte della GDO. Entrambi, aziende casearie e pastori, sono vittime. E’ chiaro che ci sono anche aziende che comprano il latte estero per speculare, ma ciò non influisce sul sistema di imposizione dei prezzi stabilito dalla grande industria.

E così siamo arrivati a oggi.

Morale della favola? Il mercato viene controllato da poche persone che gestiscono il grosso della filiera. E così entra in scena il prode Salvini, che dice “aumenterò il prezzo di acquisto a 1 euro al litro!”. Questo prima delle elezioni regionali in Sardegna. Poi dopo le elezioni si scopre che l’accordo tra industriali, caseifici e pastori, arriva a 72 centesimi al litro. Ai pastori, quindi, restano solo 2 centesimi. E’ una presa in giro. Ma non l’unica! L’ennesima presa in giro arriva dal decreto Emergenze.

Il Decreto Emergenze tra illusioni e certezze

Per il settore lattiero caseario il decreto stanzia due tipi di fondi:

Un fondo di 10 milioni di euro per sostenere i contratti e promuovere gli interventi dei regolazione dell’offerta di formaggi ovini DOP e un fondo di 5 milioni di euro per la copertura, totale o parziale, dei costi sostenuti per gli interessi sui mutui bancari contratti, entro il 31 dicembre 2018, dalle imprese che operano nel settore del latte ovino caprino. Anzitutto i fondi sono destinati alle imprese ed escludono tutti quei piccoli allevatori senza P.IVA che, per vendere, si iscrivono ad una cooperativa la quale, spesso, è gestita come un’azienda di fatto, quindi a trarre vantaggio dai contributi non saranno i soci, ma solo i titolari della cooperativa. Ai soci, forse, pagheranno un prezzo un po’ più alto, grazie al contributo pubblico.

La cosa più grave, però, è che queste misure non intaccano minimamente il sistema su cui si basa l’ingiustizia di fondo: ossia che i prezzi sono dettati dagli industriali non in un regime di libero mercato né in un regime di mercato controllato dallo Stato, ma in un regime di oligopolio.

In altre parole si stanno buttando soldi pubblici per mettere a tacere per qualche anno le lamentele delle piccole aziende del settore, le quali avranno quindi più soldi (pubblici) per pagare (forse) un po’ di più il latte ai pastori, ma quando i rubinetti si chiuderanno, il sistema tornerà ad essere lo stesso di sempre. E la cosa più grottesca è che quei soldi (pubblici) ritorneranno sotto altra forma nelle mani degli industriali, in quanto una parte dei costi verranno pagati con soldi (pubblici) e si potrà speculare sul prezzo al ribasso del pecorino, esattamente come accade oggi.

Anche quei 5 milioni destinati a ripagare gli interessi bancari sono soldi (pubblici) che andranno a finire nelle mani delle banche (amiche degli industriali). E così saranno tutti contenti, eccetto i pastori e le piccole aziende casearie, le quali con questo decreto avranno anche l’onere di segnalare al Sistema informativo nazionale (SIAN) i quantitativi di latte ovino e caprino e il relativo tenore di materia grassa consegnati loro dai singoli produttori nazionali, i quantitativi di latte e i prodotti lattiero-caseari semilavorati introdotti nei propri stabilimenti ed importati da altri Paesi dell’Unione europea o da Paesi terzi.

Come al solito a pagare il prezzo più alto saranno le piccole aziende, le quali si vedranno comminare multe salatissime (da 5.000 a 20.000 €) se non adempieranno. Si colpisce, in questo modo, l’effetto del problema e non la causa. L’effetto è semplice: se gli industriali impongono un prezzo troppo basso, le piccole aziende devono per forza ridurre i costi. Se invece si va a incidere sulla formazione del prezzo a monte, allora è lì che si ottengono i risultati, ma si sa, la Lega è amica degli industriali, non dei pastori. Mentre il M5S viene controllato da soggetti economici che hanno bisogno degli industriali per prosperare, quindi non possono calpestargli i piedi.

Solo con l’autoproduzione si esce dalla crisi

Sia per i pastori sardi che per gli olivicoltori pugliesi l’unica soluzione è l’autoproduzione, ossia costituire una filiera orizzontale, tra i vari produttori e trasformare da se i prodotti, utilizzando canali alternativi di vendita. Per approfondire leggi il contributo per una nuova riforma agraria.

Leggi anche l’approfondimento sul Decreto Emergenze in relazione alla questione Xylella in Puglia.

Versi vuoti

vino

Versi vuoti vuol essere un omaggio a mia madre, ma anche un’amara riflessione su quanto la vita di oggi, così edonistica e liquida, mi destabilizzi a tal punto da abbandonare ogni forma di resistenza, fino all’epilogo finale. Versi vuoti in bicchiere pieno di nettare avvelenato lenisce ferite spirituali e, al contempo, lento ammala un corpo … Leggi tutto

Contributo per una nuova riforma agraria

nuova riforma agraria

Questo breve scritto è da considerarsi una bozza di un percorso verso una riforma agraria che auspico possa diventare più ampio e articolato, con il passare del tempo e con gli approfondimenti del caso, riguardo numerose questioni che vanno lette nel loro insieme, tra cui: la questione agraria, la questione meridionale, il rapporto tra Settentrione … Leggi tutto

Eroi per 15 minuti

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All’artista Andy Warhol si attribuisce la frase in futuro tutti avranno 15 minuti di fama. Non si sa se sia veramente sua, ma è la frase simbolo di un’intera filosofia artistica e sociale che ha rappresentato l’inizio di un percorso di orizzontalità dell’essere-per-apparire e di liquidità delle sovrastrutture sociali, tanto più evidente oggi che, con i social, ognuno può, con un poco di strategia, un pizzico di fortuna, contenuti tritati, semplicistici e a portata del più becero degli analfabeti funzionali nonché con l’aiuto di qualche esperton-santone di marketing digitale, assurgere alla gloria effimera della fama a tempo determinato.

Poi, siccome i media ci sguazzano con i fenomeni da baraccone del web e con tutti i fenomeni che potenzialmente possono vendere, allora creano una singolare commistione tra il quarto potere (la stampa), il quinto potere (la TV) e quello che oggi definisco il sesto potere (internet e i social in particolare).

Oddio, seguendo la ripartizione classica dei poteri (1, legislativo, 2, esecutivo, 3 giudiziario, 4, stampa e 5, tv) arriviamo ai social come sesto potere, ma seguendo una ripartizione più razionale e storicamente attinente, direi che TV, stampa e social sono diventati, tutti insieme, il primo potere post-mediatico che domina i tre classici poteri, tanto che, s’è visto, ormai la scena politica è influenzata dal sentiment della rete, ossia da quelle reazioni popolari che si evidenziano sui social ma che sono influenzate a loro volta da tutti quei commentatori, opinionisti, giornalisti, ma anche social media manager, markettari ed esperti di comunicazione che appartengono al quarto, quinto e sesto potere.

Quindi le influenze reciproche che si sostanziano in questi strumenti vanno poi a governare le scelte politiche che non sono più liberamente determinate da un’idea, un manifesto, un programma dettato da una visione del mondo, ma da contingenze sempre mutevoli come mutevole è il sentimento di quel popolo tanto idealizzato dalla destra sovranista quanto pericoloso perché (ovviamente) incapace di dettare la linea politica, privo di guida e di strumenti per decodificare il mondo e sempre influenzabile dalle mode e tendenze del momento.

In questo quadro in cui la politica insegue l’elettorato attraverso i social, i media influenzano la gente che poi riversa sui social la mutevole pappa pronta, l’analisi viene sostituita dall’emozione, la discussione cede il passo alla tifoseria, allora il gentismo da social è alla perenne ricerca non più di un’ideale o di una visione alternativa del mondo, ma di un simbolo, che possa guidare (per i 15 minuti simbolici di Warhol) le proprie emozioni individuali e collettive, ed ecco che nascono gli eroi.

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L’eroe non costruito (oggi non si costruisce più nulla, semmai si riprende, svuotando di contenuti) ma riadattato da quello di romanticista memoria, che esce fuori dagli schemi della storia, sente la propria legge morale più forte dell’etica o della legge positiva, si contrappone all’universalismo per difendere l’amor patrio, le proprie tradizioni identitarie, la giustizia naturale.

Dalla falsa riga dell’eroe romantico oggi nasce l’eroe post-mediatico, quello che sfida il potere, smuove le masse e le emozioni (non le coscienze), si fa portatore non tanto e non più di un’ideale, una visione, ma di uno o più temi, spesso di un’antistorica pretesa identitaria.

Richiamando quindi l’eroe romantico, oggi l’Italia conosce l’eroe sovranista, che sfida il potere, cavalca la paura del diverso e difende una presunta identità ormai storicamente superata nonché delle tradizioni abbondantemente distrutte dal modello consumista e che sono solo una teca da museo. Ma alla gente interessa che l’eroe salvi l’Italia dal declino, quel declino in cui lui stesso ci sguazza.

Ma l’eroe viene di volta in volta riproposto tra ciò che può avere clamore mediatico, che può vendere emozioni, ma anche generare visite, advertising, funnel e persino gadget. Ecco che il circo post-mediatico ricerca tra gli smartphone sempre connessi, simbolo del sesto potere, le condivisioni, le interazioni e il clamore suscitato dall’eroe del momento, così lo preleva, gli crea un simulacro maginifico intorno, lo stordisce, gli svuota tutti i contenuti lasciando solo il motto (o l’hastag) e lo rigetta nella mischia del gentismo che altro non vuole che riconoscersi in un simbolo, però temporaneo, che possa appagare l’emozione del momento e, come direbbe Bauman, regalare un momento piacevole, sopperire alla recondita paura dell’inadeguatezza con episodici momenti di eroismo altrui, in cui riconoscersi e per cui tifare, che regala una sensazione di rivalsa, un’emozione di subitanea giustizia, uno scuotimento momentaneo dal torpore di chi è invischiato nella melma del consumo, che altro non fa che recidere qualsiasi prospettiva programmatica, qualsiasi visione alternativa ma come contentino regala momentanee sensazioni di appagamento emotivo.

Greta, Simone, Ramy, Samir, che sono stati accomunati in quanto tutti ragazzini e tutti eroi, non sono gli eroi, sono invece diventati un oggetto di consumo del circo post-mediatico e subitaneamente gli opinionisti e i commentatori rappresentanti del gentismo interclassista e servi del modello consumistico e tardocapitalista che vuole che niente cambi ma che si regali l’illusione del cambiamentone hanno tessuto le lodi, additando invece chi, più adulto, è addormentato, incapace di reagire ai soprusi o di scuotere le coscienze. Cosa che invece questi ragazzini, rispettivamente nel proprio ambito d’azione, hanno fatto. 

Le parole più sagge che abbia sentito finora sono state quelle del padre di Simone, 50 anni, ex operaio Almaviva, (…) anche la sinistra non può accontentarsi dell’eroe di turno. Oggi è Simone, ieri era Mimmo Lucano, l’altro ieri era il consigliere di Rocca di Papa. C’è la persona che scalda gli animi per qualche ora, ma non un vero lavoro di organizzazione.

Tra i tanti commenti letti o ascoltati in queste settimane, partendo da Greta per poi giungere a Simone, tale pensiero è il più equilibrato e saggio e sintetizza lo sminuzzamento della dialettica che ci ha condotti a questo punto: liquefatta la società, crollate le ideologie e addormentati come se fossimo in Matrix, la gente acclama l’eroe e la politica si accoda osannante, insegue il sentiment della rete e si fa dominare e manipolare (consapevolmente o no) dal primo potere: il circo post-mediatico.

Da questa vischiosità non se ne esce se non si riannodano i fili con il passato, ossia con il lavoro dialettico di ricostruzione storica e ideale che parta dalle persone di buona volontà e dagli intellettuali, non quelli inutili  finti intellettuali che oggi lodano gli eroi, ma quelli che hanno anche il coraggio di evidenziarne il pericolo. E ce ne sono. Basta vedere quanti sono stati attaccati per aver espresso una voce fuori dal coro. Ricostruire la dialettica, soprattutto per mano degli intellettuali, significa anche avere il coraggio di affrontare il momento antitetico della negazione (ossia avere la gente contro) e di ritornare al momento sintetico dell’affermazione razionale come sintesi delle visioni alternative del mondo.

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Per concludere, lasciatemi approfondire il punto sul confronto tra generazioni.

Chi addita noi, generazione fallita, ossia quella dei nati tra gli anni Settanta e Novanta, dicendo che i giovani di oggi sono attivi, coscienti e lottano, mentre noi siamo addormentati e abbiamo abbandonato la lotta, ricordo che abbiamo vissuto le peggiori fasi del crollo degli ideali, della liquefazione della società, dell’interclassismo, siamo stati picchiati a Genova, dove hanno scientificamente distrutto una generazione, siamo stati annichiliti nell’ideale di ricostruzione di una società che nel frattempo si stava decostruendo, siamo stati beffeggiati e derisi quando parlavamo di antiglobalizzazione e proponevamo un modello solidale, mentre oggi subiamo le conseguenze della globalizzazione e la risposta è diventata il sovranismo (come cura peggiore del male). 

Siamo stati travolti dal consumismo, dall’edonismo voluto da chi, prima di noi, ha coscientemente iniziato il processo di abbandono dell’umanità, delle campagne, delle periferie della civiltà, della cultura popolare, per sposare la causa del benessere, dell’auto nuova, della seconda casa al mare, del cibo spazzatura edulcorato dall’invasiva pubblicità, degli status symbol, dei personaggi cicaleggianti nei talk show (mi perdoni Francesco se gli rubo l’espressione), delle copertine satinate che rappresentano modelli innaturali da perseguire a ogni costo e del conseguente edonismo di massa.

Ero bambino quando sono stato bombardato da un modello che tutti hanno preferito a quello scomodo e poco appetibile del socialismo, della solidarietà. Nei ruggenti anni Ottanta ci hanno insegnato a prevaricare, a far carriera, ad inseguire ideali materialisti, a svincolarci dai lacci e laccetti della morale cattolica o di qualsiasi altra morale, come fosse un macigno inutile al cospetto della leggerezza dell’avere.

Negli anni Novanta tutti plaudivano Prodi quando parlava di smantellare lo Stato sociale, privatizzare tutto ed alleggerire il mostro burocratico e nel frattempo, mentre le prime avvisaglie di una crisi non solo economica ma sociale iniziavano a palesarsi, tutti si sono fatti rimbecillire dal modello tette&culi proposto dalle reti televisive di Berlusconi (quindi dalla mercificazione della donna) e dall’americanizzazione invadente, fatta di armi di distrazione di massa e consumo usa&getta, che oggi vale non solo per le cose, ma anche nei rapporti umani.

Mentre accadeva ciò noi crescevamo, ci indignavamo, protestavamo in piazza e venivamo derisi dagli uni e abbandonati dagli altri, che nel frattempo distruggevano la quasi centenaria esperienza del PC e abbracciavano il riformismo e il modello capitalista. Insomma, lottavamo sia dentro che fuori le mura della politica domestica. E oggi quella stessa gente, unita a sconosciuti opinionisti venuti dal nulla del circo post-mediatico, addita noi e ci propone come modelli dei ragazzini che sì, sono migliori, lo sono sicuramente, ma sono dati in pasto agli squali

A questi ragazzi e a tutti gli adolescenti dico solo: non fatevi fregare anche voi. Quando vedete uno smartphone puntato in faccia, sputate nell’obiettivo. Quando vi additano come modelli o come eroi, spostate il dito da un’altra parte. Se noi venivamo derisi, voi sarete tritati, masticati e sputati nel circo post-mediatico, ad uso e consumo della gente.

Notte d’autunno

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E’ primavera ma questi versi li dedico alla mia stagione preferita, quella dell’autocritica, del ripensamento, del torpore, del riposo casalingo dopo la stagione delle uscite, delle foglie che cadono dopo il profluvio del verde, a ricordarci che tutto è caduco, che l’autunno genera riflessione. E siccome la primavera genera riposo, non ho voglia di dedicarle … Leggi tutto

Vino

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Un’umile poesia dedicata al nettare degli dei. mi rintano nel tuo mondo onirico e sognante. Sfuggo la realtà fatta di gemiti e sospiri. Mentre tu, amico fedele, lenisci le mie ferite e mi rendi ebbro, or che scrivo versi stolti, figli di un sogno infame. Ahi quanto vorrei condurre un’equa vita, abitudinaria e retta. La … Leggi tutto

Davvero ci serve un’arma?

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La riforma della legittima difesa è legge. Brevemente il nuovo provvedimento prevede che la proporzionalità tra la difesa e l’offesa sia sempre sussistente, che non sia prevedibile la punizione per grave turbamento, escludendo di fatto l’eccesso colposo nelle svariate ipotesi di legittima difesa e, infine, dispone che, in caso di furto in appartamento, il condannato possa accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena solo dopo aver risarcito il danno alla persona offesa.

La modifica delle norme sulla legittima difesa va vista non come un provvedimento a sé, ma come un tassello di un quadro più ampio.

Subito dopo l’approvazione della legge, difatti, la Lega ha depositato in Parlamento una proposta di legge (collegata) per consentire una più semplice e meno burocratica diffusione delle armi da fuoco, per difesa personale.

Serve davvero un’arma?

A sentire Salvini, tutti gli esponenti della Lega e buona parte dei politici di destra, un’arma ci serve. Perché, a loro dire, l’Italia è un paese insicuro in cui i reati (soprattutto predatori) sono in aumento, tant’è che Salvini non manca occasione di pubblicare notizie di reati, in special modo quando commessi da stranieri, e di instillare tra la gente un senso di insicurezza sempre più diffuso. Complice anche buona parte dell’informazione, gli italiani oggi si sentono meno sicuri rispetto al passato e quindi sono facilmente persuasi dalla necessità di difendersi con le armi.

Eppure oggi ci sono meno reati che nel…1960 o, addirittura, rispetto al 1865! Ma senza andare troppo lontano, negli ultimi anni i reati in Italia sono sempre più in calo e siamo gli ultimi in Europa non solo per crescita economica, ma anche per il tasso di omicidi (in questo caso, meno male).

Già, perché se andiamo a leggere i dati che ogni anno, tradizionalmente a ferragosto, emana il Viminale (di cui, lo ricordo giusto per forma, Salvini è a capo), scopriamo che, per esempio, nel 2018 ci sono stati 319 omicidi rispetto ai 371 del 2017 (-15%), così come abbiamo avuto 1.189.499 furti contro 1.302.636 nel 2017, ossia una riduzione di quasi il 9%.

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Dati Viminale, 2018

La cosa più importante, però, riguarda la violenza di genere. In questo caso scopriamo che nonostante le denunce per stalking siano diminuite (anche se spesso ciò dipende dal fatto che le donne rinunciano a farle, per mancanza di fiducia nella giustizia), sono aumentati gli ammonimenti del Questore per violenza domestica (+17,9%) e gli allontanamenti (+33,1%). La cosa che più sconvolge sono gli omicidi in ambito familare/affettivo, rimasti invariati rispetto all’anno precedente e che hanno avuto come vittime le donne nel 68,7% dei casi.

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Insomma, la violenza non viene da fuori, ma da dentro le mura domestiche.

Se circolassero più armi, siamo sicuri che servirebbero a difendersi e non ad offendere? Non credo che una maggiore diffusione delle armi porterebbe gli italiani a sentirsi più sicuri, anzi, aumenterebbe il numero degli omicidi e forse anche quello dei suicidi, soprattutto tra le mura protette di proprietà rese sempre più sicure da intrusioni esterne ma, come si legge nei dati e come sappiamo dalle cronache quotidiane, sempre più fragili nei rapporti interni e familiari.

Se prendiamo ad esempio un Paese che apre alla vendita facile di un’arma, cioè gli USA, vediamo che, secondo una ricerca condotta dal servizio statistico del Congresso, su 327,2 milioni di abitanti, ci sono in circolazione quasi 360 milioni di armi (se escludiamo i bambini e gli anziani praticamente ogni americano ha almeno due armi in casa). E che succede? Succede che, per esempio nel 2015, su 336 giorni analizzati ci sono state 355 sparatorie, di cui molte sono state vere e proprie stragi (da notare l’assenza di analisi sotto Natale, quando tutti sono più buoni o più concentrati a consumare…).

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Sparatorie negli USA nel 2015

 Un’arma è uno strumento. E’ la razionalità che ne può fare uno strumento di difesa o di offesa. Ma nella realtà attuale esiste la razionalità? O semmai esiste una paura indistinta, artatamente sobillata dalla propaganda politica, non suffragata dalla realtà stessa, che porta alla nevrosi e all’irrazionalità? E non esiste forse un’irrazionale e violenta manifestazione di odio nei confronti di stranieri e donne, soprattutto, per queste ultime, all’interno del proprio ambito familiare? E se in quest’ambito si avesse a disposizione, anziché un coltello da cucina, da cui ci si può bene o male difendere, una pistola? E’ logico prospettare che in questo modo aumenterebbero i delitti di genere?

Un’arma è uno strumento. E’ il fine che la rende dannosa o meno. Ma la storia ci insegna che più si diffondono le armi e più se ne fa un uso distorto. So che questo mio pensiero è controcorrente e non smuoverà minimamente le coscienze di chi è mosso dalla paura più che dalla ragione, ma sono sicuro che in un futuro remoto ci renderemo conto della follia di irrazionali scelte politiche che oggi sembrano ragionevoli a chi la ragione l’ha smarrita per la via.

Il congresso mondiale sulle famiglie è solo folklore

famiglia

E’ iniziato oggi a Verona il congresso mondiale sulla famiglia tradizionale e, tra mille polemiche, molti commentatori hanno evidenziato subito gli orrori che sono fuoriusciti dal convegno o al margine di esso, tra cui “i gay sono da curare”, “l’aborto è omicidio” oppure “la donna deve tornare a essere mamma” e altre amenità del genere. Ora, a parte le valutazioni politiche e le possibili ricadute politico-giuridiche di certe affermazioni (che non starò qui a trattare e che spetta alle opposizioni contrastare nelle dovute sedi), quello che invece va messo in risalto è l’aspetto grottesco, cinematografico e sotto molti aspetti folklorico (nella sua accezione più sprezzante) di tutto questo circo appena sbarcato a Verona.

Detto in estrema sintesi, la salvaguardia della famiglia tradizionale è una sciocchezza enorme, utile solo a creare dibattito, tenere impegnati i giornalisti e l’opinione pubblica e distogliere l’attenzione dal suo intento più intimo. Questa semplice affermazione trova legittimazione in due ancor più semplici considerazioni: la prima è che nell’attuale società post-moderna la famiglia, intesa in senso tradizionale e nell’accezione data dagli organizzatori dell’evento, non esiste più, è anacronistica e nessuna operazione politica o di carattere sociologico potrà mai riportarla in vita. La famiglia tradizionale è stata superata dalla Storia come è stata superata dalla Storia quella cultura dominante e le sovrastrutture che la tenevano in vita.

La seconda considerazione è invece più strettamente legata alla struttura di fondo della società dominante, ossia che con questo convegno e con le politiche volte alla tutela della famiglia tradizionale si sta disperatamente cercando di mettere una pezza alla dissoluzione di quel nucleo sociale fondamentale che rappresenta il più importante riferimento nella società dei consumi.

Spiegherò subito le due considerazioni, ma prima voglio sottolineare che i due aspetti, in apparenza antitetici, sono in realtà intimamente connessi perché si fondano su una visione post-moderna, consumistica ed edonistica del concetto di famiglia e tutti i principali sovranisti e conservatori, parlando di famiglia tradizionale, confondono ad arte significante e significato e parlano alla pancia di una (larga) parte del Paese che non ha ancora ben chiaro il mutamento sociale avvenuto negli ultimi decenni.

La famiglia tradizionale è scomparsa

Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman

Zygmunt Bauman, in La società dell’incertezza, scrive che le

reti di protezione, tessute e tutelate con mezzi propri, le “trincee di seconda linea” un tempo messe a disposizione dalle relazioni di vicinato o dai rapporti familiari, dove si poteva trovare rifugio e curare le ferite procurate nelle dure battaglie della vita esterna, se non sono del tutto smantellate hanno comunque subito un considerevole indebolimento. Parte della responsabilità è da attribuire alle nuove (ma sempre mutevoli) pragmatiche delle relazioni interpersonali, pervase ora dallo spirito dominante del consumismo che identifica nell’altro un potenziale mezzo per ottenere gradevoli esperienze. Qualsiasi cosa siano in grado di fare, le nuove pragmatiche non possono generare legami duraturi. Il tipo di legami che esse producono in abbondanza, incorpora clausole “a scadenza” e “a libera contrattazione” e non promettono né l’attribuzione né il conseguimento di diritti o di obbligazioni.

Diritti e obbligazioni che invece rappresentano, secondo una concezione tradizionale della famiglia, la struttura sulla quale imperniare il rapporto familiare.

A differenza che nel passato, nella visione classica del concetto di famiglia, influenzato certo dalla morale cattolica, ma basato sulla comunanza d’intenti e sull’assistenza morale e materiale, nella società post-moderna la morale cede il passo a rapporti umani frammentari e discontinui in cui le visioni della vita post-moderna sono in perenne lotta contro i “fili che legano” e le conseguenze di lunga durata, e militano contro la costruzione di reti di doveri e obblighi reciproci che siano permanenti, in quanto l’Altro (il partner) viene visto come oggetto di valutazione estetica, non morale, come una questione di gusto, non di responsabilità. L’autonomia individuale si schiera contro le responsabilità morali, si disimpegna ed evita di precostituirsi degli obblighi, sopprimendo di fatto il complesso etico-morale che è alla base del matrimonio e, dunque, della famiglia.

La società dei consumi ha prodotto l’individualismo e l’edonismo (lo rilevò persino Paolo VI nel 1968), ha spinto l’individuo a tal punto da disgregare quel complesso di norme morali che rappresentano la tradizione (non solo quella giudaico-cristiana su cui si basa l’Occidente europeo, ma anche quella della civiltà contadina stratificata, che fino a 60 anni fa era una sub-cultura strutturata nella cultura dominante) e, di conseguenza, la famiglia tradizionale.

Le famiglie nella società dei consumi

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Ma la società dei consumi, dopo aver prodotto l’Uomo-edonista che rifiuta le responsabilità insite nel nucleo familiare, svuota di contenuto buona parte della sua cultura e la sostituisce con l’interesse, l’eccitazione, la soddisfazione o il piacere, si accorge di avere bisogno della famiglia e di considerarla il centro dell’interesse in quanto, come scrive Pasolini in Scritti Corsari,

la civiltà dei consumi ha bisogno della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è diventato la nuova religione. La nozione di «singolo» è per sua natura contraddittoria e inconciliabile con le esigenze del consumo. Bisogna distruggere il singolo. Esso deve essere sostituito (com’è noto) con l’uomo-massa. La famiglia è appunto l’unico possibile «exemplum» concreto di «massa». È in seno alla famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore: prima per le esigenze sociali della coppia, poi per le esigenze sociali della famiglia vera e propria. Dunque, la Famiglia (…) che per tanti secoli e millenni era stata lo «specimen» minimo, insieme, della economia contadina e della civiltà religiosa, ora è diventata lo «specimen» minimo della civiltà consumistica di massa.

Come acutamente osserva Pasolini, la famiglia è il fulcro, la cellula primaria dell’interesse della società dei consumi e passa dall’essere centro del potere della Chiesa (o delle sub-culture contadine) a centro del potere del consumo, quindi del capitale. Sfaldare la famiglia secondo la logica post-moderna dell’edonismo e dell’interesse a breve termine (la velocità non crede nella ripetizione, è anticerimoniale, scriveva Franco Cassano) significa frammentare nel tempo e nello spazio risorse e strategie, perdere profitti, quote di mercato.

Da qui la considerazione iniziale che l’attuale congresso sia un momento folklorico. Lo è negli aspetti che molti commentatori stanno evidenziando in questi giorni, ma non lo è nel suo intento più intimo e non palese.

L’intento, non palesato, di chi propugna la famiglia tradizionale non è quello antistorico di tornare indietro, perché sennò si dovrebbe tornare al dominio culturale e spirituale della chiesa se non addirittura al latifondo, ma è quello attualissimo di ricostruire i brandelli di una sovrastruttura che possa reggere i colpi di una struttura ormai al collasso e che, proprio in questi momenti, mostra la sua maggior ferocia: la struttura economica del capitale.

Lega, M5S e Monarchia

stato di diritto o monarchia

Tutti siamo convinti di vivere in uno Stato di diritto e non in una monarchia, ossia regolato dalle Leggi e non dai capricci di chi governa. Per arrivare ad una conquista del genere ci sono voluti secoli di dottrine filosofiche, rivoluzioni, lotte politiche, guerre.

Tutto ciò per arrivare ad affermare un principio che si credeva intoccabile, almeno fino ad oggi, ossia che tutti siamo uguali, in forma e in sostanza, dinanzi alla legge e che ogni consociato, o cittadino, conosce la prassi che porta dalla causa all’effetto.

In altre parole, un sistema fondato sul diritto è un sistema certo, per cui so che per raggiungere un certo obiettivo dovrò seguire una certa procedura e so che questo sistema fondato sul diritto mi riserva delle garanzie.

Ora mi chiedo: se nella prassi politica non vengono rispettati certi principi e, peggio, non li rispetta chi è al governo, potrò mai confidare nell’applicazione, da parte di chi mi rappresenta e di chi ha giurato sulla Carta Costituzionale, dei principi che sono alla base della società?

Due fatti recenti mi hanno fatto riflettere su queste considerazioni e mi hanno portato ad attendermi che lo Stato di Diritto è destinato a morte certa se non ci prodighiamo tutti a fermare questa barbarie in atto.

Il bus di San Donato Milanese

Rami san donato milanese

Il primo fatto è legato al terribile sequestro del bus scolastico a San Donato Milanese, dove un soggetto, infarcito da una becera e malata idea di odio e vendetta (che non sto qui ad analizzare, ma che ha cause riconoscibili), ha messo in pericolo le vite di 51 bambini, salvate grazie al coraggioso intervento di alcuni bambini, tra cui un italiano e uno di origine egiziana. La nazionalità dei bambini non dovrebbe essere importante, ma conta relativamente al fatto politico accaduto dopo: c’è chi si è schierato per dare la cittadinanza al piccolo Ramy (il bimbo di origine egiziana) e riaprire il dibattito sullo Ius Soli e chi, come Salvini, riteneva che non la meritasse. Salvo poi ricredersi dopo un social listening del prodotto che orienta le sue scelte politiche: la bestia, quel complesso software che analizza le discussioni sui social e fornisce all’utilizzatore il sentiment della rete su un determinato argomento.

Ebbene, dopo aver scoperto che buona parte degli utenti dei social era schierata con il piccolo Ramy, Salvini, come fosse in una monarchia, ha cambiato idea e si è mostrato favorevole a concedere la cittadinanza al ragazzo, fermo restando che è intenzionato a toglierla al criminale che ha sequestrato il bus.

La cittadinanza o non cittadinanza come premio o punizione?

Ora non voglio soffermarmi sulla considerazione per cui le scelte politiche, oggi, da parte del partito virtualmente di maggioranza nel Paese, siano condizionate da un software che analizza gli orientamenti degli utenti in rete. L’argomento meriterebbe un’analisi a sé. Voglio invece concentrarmi sull’aspetto oggi più rilevante: la cittadinanza è un interesse legittimo che rappresenta la fine di un iter amministrativo e l’inizio di un percorso composto da diritti e doveri oppure è un riconoscimento, dettato dalla generosità o voglia di punizione da parte di chi detiene la monarchia, che si toglie e si concede sulla base di un sentimento, di una reazione di pancia, di un subbuglio emotivo?

La cittadinanza presuppone un percorso certo, dettato dalla legge, oppure è la risultante di aspetti aleatori, tipici della monarchia assoluta, lasciati al caso e alla contingenza e decisa da un singolo o da una élite? Da queste domande discendono due considerazioni: la prima è che è legittimo riaprire il dibattito sullo ius soli. La seconda è che, qualunque scelta si faccia, dev’essere basata sulla certezza del diritto e riservata a tutti quelli che, indistintamente, posseggono i requisiti per accedere alla cittadinanza.

Indipendentemente da come si prospetterà la discussione sullo ius soli, è legittimo parlarne, purché la discussione politica presupponga l’applicazione concreta e reale dei principi su cui si fonda lo Stato di diritto: riconoscere la cittadinanza sulla base di norme certe e non sulla base del contingente e dell’alea. Sia chiaro: entrambe le posizioni politiche sono legittime: sia quella di chi sostiene lo ius soli (e lo ius culturae) sia quella di chi sostiene di mantenere l’attuale assetto basato sullo ius sanguinis. Decidere per l’una o l’altra via è una scelta politica, mentre non dev’essere una scelta politica quella di trascendere la legge per accontentare l’elettorato e rafforzare la propria posizione politica.

Il caso Marcello De Vito

Marcello De Vito monarchia

Il secondo fatto è relativo alla decisione di Luigi Di Maio di espellere dal M5S Marcello De Vito, dopo lo scandalo sulle tangenti per il nuovo stadio della Roma. Come tutti sappiamo, De Vito è stato uno dei primissimi esponenti del M5S, già candidato a sindaco di Roma e poi, dopo la vittoria di Virginia Raggi, divenuto Presidente del Consiglio comunale capitolino. Dalle intercettazioni, poi parzialmente diffuse sui giornali, si capisce che De Vito, approfittando di quella che chiamava una congiunzione astrale favorevole, abbia influenzato consiglio e alcuni assessori per favorire determinati soggetti, in cambio di tangenti, negli iter amministrativi relativi alla costruzione del nuovo stadio.

Non appena informato dell’inchiesta, Di Maio ha più volte e a gran voce dichiarato che De Vito è fuori dal Movimento, esattamente come se fosse in una monarchia. “Mi assumo io la responsabilità di questa decisione, come capo politico”, ha poi ribadito. A me, onestamente, questo atteggiamento spaventa assai. Non tanto perché Di Maio ha avuto due pesi e due misure (garantista con la Raggi, dopo l’indagine, ieri, spietato con De Vito, oggi), quanto perché con questa frase e con la decisione di cacciare via De Vito senza attendere l’esito del processo, palesa un’insofferenza nei confronti dei principi su cui si fonda uno Stato di diritto, tra cui il principio garantista (nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva di condanna). Sia chiaro, a casa sua decide come vuole, ma quest’atteggiamento, tipico di una monarchia, è tanto replicabile all’esterno quanto facilmente adottato all’interno.

Le regole e il garantismo

I più giovani di voi non ricorderanno come nel PC persino gli esponenti più scomodi, prima di essere espulsi dal partito, fossero soggetti ad un complesso sistema disciplinare interno, che coinvolgeva la sezione d’appartenenza e il comitato centrale, che prevedeva la possibilità di difendersi, di produrre documenti a favore, testimonianze, ecc. Persino i partiti più contemporanei, anche quelli populisti, si sono sempre mostrati garantisti nei confronti dei propri indagati. Ciò a buon motivo: il primo è che a volte la Magistratura non è stata esente da intromissioni politiche nei confronti dei partiti, il secondo è che spesso la sentenza definitiva ha smontato tutto l’impianto accusatorio della Procura.

E’ per questo e, più in generale, per il rispetto del principio garantista, che la legge prevede la presunzione d’innocenza. Ma si sa, in un clima politico e sociale dominato dal sentiment, questi principi sono anacronistici e quindi bisogna accontentare il proprio elettorato, salvare le apparenze e mostrarsi duri e puri nei confronti dei possibili attacchi da parte delle opposizioni. Tutto ciò, però, erode quei principi che sono a fondamento di uno Stato di diritto che Di Maio e Salvini hanno giurato di difendere, rispettare e applicare.

Questi due fatti (senza contare la questione Diciotti) sono sintomatici di una deriva autoritaria che il Paese sta prendendo. Ora bisogna capire se noi acconsentiamo a dirigerci verso una finta democrazia dalle tinte fosche tipiche di una monarchia o vogliamo preservare quello che i nostri nonni hanno creato col sangue: uno Stato in cui tutti siamo uguali davanti alla Legge e in cui prevale la Ragione, non il sentimento.