Via la plastica dai bar!

plastica bar

Siete mai entrati in un bar a prendere un caffè? Domanda retorica, certo. E quante volte, insieme al caffè vi hanno servito anche l’acqua in un bicchiere di plastica? Al Sud è un rito e guai se il barista non prende l’iniziativa e serve subito l’acqua, mentre nel resto d’Italia questa pratica non è costume diffuso ma dipende molto dalla sensibilità del barista. Ad ogni modo, nei miei continui spostamenti in giro per l’Italia, poche volte ho ricevuto un rifiuto nel chiedere un bicchiere d’acqua e pochissime volte questi prevedeva un pagamento extra.

Sapete quanti bar ci sono in Italia? Secondo la Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) ad oggi nel nostro Paese ci sono 149.154 bar, ossia quasi 150 mila bar!

E quanti caffè vengono serviti ogni giorno? Secondo alcune stime circa 70 milioni di tazzine di caffè, ma queste stime tengono conto del numero totale di caffè bevuto dagli italiani ogni giorno (circa 4), che comprende ma non si sostanzia nel consumo di caffè al bar. In altre parole gli italiani, in media, bevono circa 4 caffè al giorno di cui un paio a casa, uno sul luogo di lavoro e uno al bar.

Se però facciamo una stima al ribasso, calcolando in media 100 caffè al giorno serviti nei bar, arriviamo a circa 15 milioni di caffè serviti ogni giorno. Una cifra al ribasso, ma comunque impressionante!

E di questi 15 milioni, quanti sono i bicchieri d’acqua consumati? Se, anche in questo caso, facciamo una stima molto al ribasso e calcoliamo che solo la metà dei baristi serve il bicchiere d’acqua in plastica si tratta di 7,5 milioni di bicchieri di plastica che vengono serviti, utilizzati e gettati. Ogni giorno.

Già, la plastica. Perché sono rarissimi i bar che servono l’acqua nel vetro, dato che si perde tempo a lavare un bicchiere di vetro, mentre il bicchiere di plastica è molto più comodo: si serve, si beve, si butta via. E con i ritmi di lavoro sfrenati di molti bar italiani (soprattutto nelle ore di punta) è impensabile tenere impegnato un dipendente solo a lavare i bicchieri. Tra l’altro il vetro è scomodo, si scheggia e si rompe facilmente. E poi quanti clienti storcono il naso quando l’acqua gli viene servita in vetro poiché sospettano che non sia stato lavato bene?

Sapendo che una confezione di 100 bicchieri di plastica pesa 2 kg e facendo un rapido calcolo, ci rendiamo subito conto dell’enormità dello spreco di plastica che si perpetra in Italia ogni giorno: 150 mila kg di plastica vengono usati e gettati via, ogni giorno.

Riflettiamo un attimo: il barista ci serve l’acqua nel bicchiere di plastica, in un sorso la beviamo e pochi secondi dopo quest’ultimo diviene già immondizia.

Qualcuno ribatterà: ma la plastica viene riciclata! Su quest’argomento ci sarebbe molto da dibattere, dato che in Italia sono pochissimi i Comuni che fanno una corretta raccolta differenziata della plastica, perché ogni plastica ha una sua composizione chimica e solo un corretto riciclo ne consente la selezione e la successiva messa in produzione.

Ad ogni modo quanti bicchieri di plastica, nei bar, finiscono nei cestini dell’indifferenziata? E quand’anche finissero nei cestini della plastica, con quanti altri oggetti – di plastiche differenti – vanno a mischiarsi?

Da qui nasce una riflessione molto semplice: se si evitasse il consumo di plastica nei soli bar di tutta Italia ogni giorno risparmieremmo 150 tonnellate di immondizia in plastica, con notevoli risparmi sia in termini ambientali che economici.

Secondo il WWF ogni anno vengono riversati nel mar Mediterraneo almeno 150 mila tonnellate di plastica, ossia il corrispondente della plastica prodotta solo nei bar d’Italia in poco più di 2 anni.

Sarebbe davvero un onere così eccessivo se tutti i baristi d’Italia passassero al vetro solo nel servire l’acqua? Solo per un gesto così semplice? Anzi, credo che sarebbe una scelta etica, di facile esecuzione e che farebbe risparmiare all’Italia un così elevato consumo di plastica. L’ambiente lo possiamo salvare anche con piccoli gesti. E oggi, che gli allarmi sui cambiamenti climatici diventano sempre più tangibili, anche i piccoli gesti quotidiani possono fare la differenza.

Come lucidare i fari dell’auto con 5 centesimi

lucidatura fari auto

La voglia di scrivere quest’articolo sulla lucidatura dei fari è partita da una mia esperienza personale e ho pensato di condividere con voi, miei quattro cari lettori, questa chicca di vita.

Tempo fa dovevo fare la revisione alla mia auto.

Quatto quatto vado dal meccanico autorizzato e gli lascio la macchina. Nemmeno il tempo di voltare l’angolo per andare al bar (avrei dovuto riprenderla dopo circa mezz’ora), mi chiama e mi dice: “senti barbù, qua la macchina non passa la revisione perché i fari sono troppo opachi”. “E che devo fare?” rispondo io tutto trafelato. “Niente, li devi far lucidare”. Ora, siccome nella mia vita non mi sono mai posto il problema della lucidatura dei fari dell’auto e siccome forse l’arguto meccanico era troppo zelante oppure troppo furbo, mi ha proposto di lucidarli lui per la modica cifra di 25,00 € a faro.

“Madò, 50 euro per lucidare i fari?”. Questo ho pensato mentre gli dicevo: “Aspetta, me la riprendo e la porto altrove”, fiutando inconsciamente l’imbroglio.

Al ché riprendo la macchina e mi dirigo tutto convinto presso il mio carrozziere di fiducia il quale si rende disponibile a lucidare i fari per la cifra più ragionevole di 10,00 € a faro.

Dopo poco meno di un’ora ritorno dal carrozziere e trovo la mia piccola auto tutta bella lucida, con i fari che sembrano nuovi.

“Wow” ho pensato “e chi se l’aspettava di avere fari così fighi?”.

Inutile dire che la macchina ha passato la revisione e che mi sono goduto i fari lucidi per qualche mese, poi, dovendo tenerla sempre parcheggiata fuori, tra caldo, freddo, pioggia e intemperie varie, i fari sono tornati immantinente opachi.

Un giorno, girovagando senza meta sui virtuali lidi di Facebook, mi sono imbattuto in un post del classico gruppo vendo-compro-scambio, in cui un tizio si proponeva come lucidatore di fari a domicilio per soli 15,00 € a faro. Lì ho pensato: “vabbè, 5,00 € in più rispetto al mio carrozziere, ma ci sta, dato che fa un servizio a domicilio”. I numerosi commenti di gente interessata mi hanno indotto a pensare di non essere il solo ad aver avuto l’annoso problema dei fari opacizzati.

Tra l’altro, non essendomi mai posto il problema, ho sempre immaginato che lucidare i fari voglia dire: smontarli, pulirli minuziosamente con chissà quale prodotto specifico e poi rimontarli. Insomma, una cifra che va da 10,00 a 15,00 € a faro (25,00 no, è un furto!) può sembrare ragionevole.

Poi l’altro giorno, sempre vagando tra l’eterea rete e zompettando tra un video e l’altro di YouTube, ho visto che c’è chi sostiene che i fari possano essere lucidati con la coca cola, bevanda che – stando ai tanti esperimenti in rete – funge per tutto tranne che per essere bevuta. Un altro video correlato, invece, sosteneva che i fari possano essere lucidati con il dentifricio.

Ora, siccome sono spilorcio e non ho voglia di spendere 2 euro e 20 per una bottiglia di coca-cola e ottenere un risultato incerto (ma poi sono anche un fiero boicottatore della zuccherosa bevanda) ho pensato che in fondo due dita di dentifricio non mandano in rovina nessuno. E così, armato di tovagliolo, dentifricio e tanta buona volontà, ho spalmato un poco di Mentadent sui fari della mia amata auto. Risultato? In una sola spalmata e in un risciacquo con acqua di rubinetto, sono tornati lucidi come quando l’ho comprata nuova-usata dall’autosalone sotto casa! E mentre risciacquavo e vedevo i dettagli dei filamenti della lampadina alogena, un brivido di piacere mi è scorso lungo la schiena, provocandomi un orgasmo manual-intellettuale che solo la visione di una bella…utilitaria nuova può compensare.

Dunque con circa 5 centesimi complessivi (calcolati a occhio) di dentifricio, tovagliolo e acqua, ho ottenuto lo stesso risultato che con 10,00 (15,00 o addirittura 25,00!) euro…però a faro.

Siccome fuori piove e ho un pessimo rapporto con le fotocamere, non ho voglia-tempo di fare la foto dei fari nuovi-nuovi. Ma vi posso assicurare che il risultato vi lascerà sbalorditi. Provare per credere.

Vuoi realizzare un sito web? Ecco come riconoscere un vero professionista

google seo sito web

Oramai oggigiorno se non sei presente in rete non ti conosce nessuno. Questo lo sappiamo più o meno tutti e soprattutto le Aziende. Con un sito web è possibile trasformare una piccola realtà locale in un brand internazionale, anche grazie alla capacità della rete di superare i limiti geografici.

E’ sufficiente, in linea di massima, aprire un sito web e uno o più profili sui tanti canali Social, in breve tempo e soprattutto gratuitamente.

Ma c’è un problema.

Rispetto a 10 anni fa il numero dei siti web presenti in rete è decuplicato. Basti pensare che solo gli e-commerce, dal 2010 a oggi, sono aumentati del 25% mentre i siti vetrina, le landing page e i blog sono aumentati del 78%. La rete offre numerose opportunità, ma per emergere e per farsi conoscere è necessario investire numerose risorse, non solo economiche, ma anche in termini di tempo e di competenze. Inoltre bisogna valutare un altro aspetto essenziale sulla presenza in rete, ossia che gli utenti del web oggigiorno vengono continuamente bombardati da contenuti, spesso commerciali, con conseguente calo di attenzione su contenuti ritenuti poco interessanti o comunque poco influenti, specie se pervenuti da brand poco noti.

In poche parole…

Che tu sia un imprenditore affermato localmente o un hobbysta che vorrebbe trasformare la sua passione in attività imprenditoriale o un artista che vuole far conoscere le sue opere al Mondo, devi per forza investire sulla rete, o con il sito web o con un canale social o, meglio, con entrambi.

Sono cambiati i tempi, è cambiato il mezzo, ma la meccanica resta sempre la stessa: se non investi, soccombi.

La pubblicità ai tempi del Marketing tradizionale

Una volta per far conoscere un’Azienda (o qualsiasi altra attività) occorreva investire un certo budget in pubblicità: dalle inserzioni sui giornali al volantinaggio ai manifesti sparsi per le città per poi passare alla radio, alle TV locali o nazionali, in base al budget e alla strategia di crescita aziendale, c’erano soluzioni di ogni tipo. A occuparsi di ciò ci pensava quasi sempre un’Agenzia specializzata in pubblicità, soprattutto quando l’Azienda si proponeva sul mercato nazionale o internazionale.

Oggi cos’è cambiato? Nulla. Sono cambiate le forme con cui fare pubblicità, ma la filosofia di fondo resta: senza investimenti in marketing non ti conosce nessuno. Oddio, per fortuna con il web è molto più economico – rispetto al passato – fare pubblicità e c’è un’unica, sostanziale, differenza rispetto alle forme di pubblicità di massa tipiche dei media tradizionali: ti puoi rivolgere ad un pubblico specifico (in gergo si dice profilazione), con conseguenti notevoli risparmi in termini economici e maggiore efficacia del ritorno d’investimento (in gergo si chiama ROI).

Il famoso cuggino che fa il sito web con pochi soldi

Per anni si è radicata l’idea che per operare on-line occorre munirsi di un sito web fatto da soli o, al più, dal famoso cuggino informatico che te lo fa per 200 euro, nella becera concezione per cui “tanto basta fare il sito, piazzare due immagini e mettere la mappa per vendere dappertutto”. Già, perché un professionista che ti chiede cifre alte per un sito web sembra un ladro in quanto in Italia c’è l’idea che il lavoro intellettuale non ha un valore economico e va regalato.

La diffusione dei Social, poi, ha amplificato questa concezione, anzi, per molti avere un sito web è sembrato persino inutile: “Tanto vendo su Facebook o su Instagram. Mi apro il profilo, pubblico le foto, i prezzi, faccio un’inserzione ogni tanto e vendo”. In realtà i Social non sono concepiti per vendere (anche se ultimamente si stanno aprendo ai Marketplaces) bensì per far interagire Aziende e utenti, per ampliare la web awarness e la web reputation nonché per attività di remarketing.

I Social, insieme ad una sapiente attività di posizionamento web e di link building, sono un ottimo strumento per far veicolare il brand, ma sono solo un sistema marginale per vendere direttamente. Chiunque pensi che sia sufficiente avere un profilo o una pagina su Facebook, uno su Instagram e un semplice sito web vetrina fatto in modo amatoriale, senza una precisa strategia, senza prevedere investimenti e senza un piano di marketing digitale, prima o poi finirà per dire che su internet non si vende e darà la colpa alla concorrenza, ai cinesi, al sovraffollamento della rete, persino a Google che lo posiziona in ultima pagina, piuttosto che a sé stesso.

Lo stato delle cose al giorno d’oggi

Difatti con l’aumentare della popolazione di siti web diminuisce esponenzialmente la possibilità di emergere, soprattutto oggi che i motori di ricerca filtrano i risultati sulla base di complessi algoritmi che tengono in conto di numerosi fattori tra i quali: la presenza di contenuti originali e in linea con quanto cerca l’utente, la presenza di parole chiave coerenti e omogenee, una struttura del sito fatta bene e che rispetta le regole in relazione al SEO (con tutti gli attributi inseriti), la velocità e la reattività del sito web, la presenza di un codice scritto bene e senza errori o ridondanze, la presenza del protocollo di sicurezza e tanto altro ancora. Sulla base di questo complesso rapporto ecco che alcuni siti web vengono mostrati prima degli altri e, nei casi peggiori, alcuni siti web non compaiono affatto nella SERP di Google.

E’ evidente che non comparire sui motori di ricerca significa non esistere affatto, con l’ovvia conseguenza che non venderemo mai i nostri cappotti fatti a mano o quell’ebook che abbiamo scritto con tanta passione.

Per ovviare a questo problema ci sono soluzioni a pagamento come la pubblicità pay-per-click, ma siamo sempre punto e a capo: se arrivi al punto di pagare per la pubblicità su Google vuol dire che hai fatto bene tutto il resto. Non attivi la pubblicità a pagamento se non hai una chiara strategia di marketing on-line.

Tempo e competenze o soldi?

Sia chiaro, non è proprio necessario pagare Google, Facebook oppure uno sviluppatore bravo o un’Agenzia di web-marketing per emergere sulla rete.

La rete, per fortuna, offre numerosissime fonti da cui imparare a fare tutto da soli, inoltre ormai ci sono molti servizi che offrono siti web già impacchettati e funzionali. Tuttavia non sempre queste soluzioni sono professionali e non sempre un imprenditore ha il tempo di imparare a fare tutto, anche perché, a dispetto di quanto si pensi, per operare in rete occorrono tantissime competenze in molti campi: dal linguaggio di programmazione (php, css, asp, java, ecc.) alle tecniche per fare buone foto, dalla capacità di scrivere testi leggibili (sia dagli utenti che dai motori di ricerca) all’editing video, dal SEO all’analisi dei dati, e tanto altro ancora.

Fare tutto da soli è possibile?

Si, ma occorre tempo e una buona dose di curiosità e voglia di imparare sempre cose nuove. Se manca il tempo o mancano le competenze (oppure non si riesce ad acquisirle) occorre prevedere un certo investimento in termini di denaro e rivolgersi a un professionista. Anzi, uno non basta, perché più è diventato complesso operare on-line e più si sono sviluppate figure professionali autonome: non è detto che uno sviluppatore di siti web sappia lavorare con il SEO o che un esperto di campagne promozionali su Facebook sia in grado di leggere i dati di Google Analytics (il più importante mezzo per studiare l’efficacia di un sito web). Dunque un solo professionista non basta, occorre rivolgersi a diverse figure.

Come riconoscere un Professionista valido

Per farlo occorre prima chiedersi: cosa voglio ottenere dalla mia presenza in rete?. Voglio più vendite? far veicolare il mio brand? Oppure che la gente scarichi e condivida le foto delle mie opere? Voglio che si iscrivano ad una newsletter per offrire loro le mie conoscenze sul settore in cui opero? O farmi conoscere da un pubblico locale perché ho – chessò – un’autocarrozzeria e voglio ottenere più clienti? Oppure voglio emergere sui mercati internazionali? Senza una chiara strategia sarà molto difficile trovare il professionista giusto e scartare quelli che non servono.

Questo è il primo campanello d’allarme: se trovi qualcuno che ti dice: ok, facciamo tutto noi senza nemmeno avergli spiegato di cosa hai bisogno (perché, forse, non lo sai ancora nemmeno tu…), allora hai di fronte uno dei tanti millantatori che ultimamente si spaccia per un professionista del web. Già, perché un asso piglia tutto che si occupa di sviluppo, grafica, campagne social, SEO-SEM, persino di stampa volantini è, molto probabilmente, solo un povero disperato che ha imparato a fare i siti con WordPress e ti farà solo perdere soldi (che a te sembrano pochi in confronto ad altri professionisti, ma sono solo soldi buttati).

Quindi armati di pazienza, cerca tanto e non ti fermare alla prima agenzia sotto casa che ti chiede poco e ti fa tutto.

Sviluppo sito web

Questo è il primo aspetto da considerare. Oggi troverai migliaia di agenzie o singoli sviluppatori che si occupano di realizzare siti web. Ma come riconoscere quelli migliori? Anzitutto fatti mandare il loro portfolio (cioè i siti che hanno già fatto). Come ti sembrano? Lascia perdere la grafica, concentrati sull’usabilità. Hai provato ad aprire uno dei loro siti con lo smartphone? Il sito è responsive (ossia si adatta alle dimensioni dello schermo)? Se non lo è, scartalo subito. Ancora, hai analizzato la velocità del sito? Con un semplice tool di Google (questo) puoi analizzare la velocità del sito e ricevere un rapporto dettagliato sui problemi da risolvere. Se non ha nemmeno ottimizzato le immagini, salutalo. Non è un professionista. Conosco gente che non si cura nemmeno di cambiare la favicon (ossia l’icona che trovi in alto a sinistra sulla scheda del browser) e mi basta questo per considerarli degli sfigati che si spacciano per professionisti.

Dunque nello sviluppo del sito devi tener presente:

  • velocità e reattività
  • usabilità (anche da mobile)
  • omogeneità strutturale
  • omogeneità grafica

Non importa se lo sviluppatore farà il sito da zero o userà un CMS (tipo Joomla, WordPress, ecc.), l’importante è che faccia un buon lavoro con un codice pulito, prestazioni accettabili e un’usabilità sia in termini di navigazione che di grafica.

SEO del sito web

Per molti pseudo-professionisti il SEO equivale solo a inguacchiare il sito di molte parole chiave buttate a casaccio nell’idea per cui più parole chiave si mettono e meglio è. In realtà Google e tutti i Big della rete stanno ormai abbandonando gradualmente il concetto di key-word per abbracciare una filosofia che porti a ottenere risultati sempre più vicini alle ricerche dell’utente. In altre parole stanno finendo i tempi in cui scrivevi “rivenditore caldaia Cagliari” e ti comparivano i risultati di negozi o e-commerce che dappertutto stanno meno che a Cagliari. L’esperienza utente è al centro dell’attività di Google e gli spider di Google vengono continuamente aggiornati in modo da premiare i siti con key-word omogenee e penalizzare i furbi. Quindi attenzione a chi tratta con leggerezza il SEO.

Fai una ricerca per immagini su Google e non compaiono i tuoi prodotti? Chiedi spiegazioni a chi ha realizzato il tuo sito e forse scoprirai che non sa nulla di SEO…

Quindi sul SEO devi almeno valutare:

  • tipo di parole chiave usate e coerenza con il testo
  • presenza di contenuti nei tag title, metatag title, metatag keywords, metatag description, alt image e image description
  • densità delle parole chiave all’interno del testo

Un buon professionista spiegherà il senso di tutto ciò e ti darà un sito web con tutti questi attributi compilati in modo coerente.

Social Media

Se ti rivolgi a un’Agenzia per migliorare la tua presenza sui social e ti farà un discorso del genere: “ti promettiamo 10.000 like in 3 mesi al modico prezzo di 1000 euro”, beh, scartala subito. I like o i follower sono importanti, certo, ma non così tanto come pensi. Perché tutto dipende da quella che è la tua strategia. Se a te interessa aumentare le vendite del tuo shop on-line non è detto che molti like faranno al caso tuo. Magari te ne serviranno pochi, ma mirati. Magari per te servirà una strategia di lead generation o di remarketing e non una volta a far conoscere la tua pagina o il tuo profilo.

Quindi se un’Agenzia ti promette tanta popolarità, magari senza ascoltare le tue esigenze, non è seria. Va scaricata. Inoltre fatti dire quante e quali campagne hanno già realizzato. Sai che su Facebook ci sono 11 format pubblicitari? Non esiste solo la sponsorizzazione di un post, ma se fanno solo quella, allora sono degli improvvisati esperti di campagne social. Poi, anche se Facebook è il social più grande in assoluto, non è detto che sia il solo che faccia per te. Ti hanno mai parlato di campagne di successo su Linkedin o su Twitter? Se ti propinano solo campagne Facebook, senza prima analizzare la tua attività e le tue esigenze, allora lo ribadisco: scaricali. Meglio perdere tempo per cercare altri professionisti piuttosto che perdere soldi.

Foto / Video

Se hai un e-commerce avrai sicuramente bisogno di fare le foto ai tuoi prodotti. A dispetto di quanto comunemente si pensi, le foto in still-life di prodotti inanimati sono quelle più difficili da fare. Anche in questo caso puoi fare le foto da te, ma prima pensa alla regola fondamentale di ogni e-commerce: senza una buona foto, non vendi. Non occorre essere Steve McCurry per fare buone foto. Occorre solo:

  • una macchinetta fotografica che abbia le impostazioni programmabili (tempo di esposizione, bilanciamento del bianco, ecc.), quindi anche una semplice compatta va bene. Escluderei l’uso di Smartphone
  • almeno 3 luci con lampadine della stessa temperatura (calde o fredde non importa, tanto con il bilanciamento del bianco s’aggiustano i colori)
  • uno sfondo neutro (anche un tavolino e una parete)
  • un programma di ritocco foto (Photoshop e Gimp sono i migliori)

Se non hai quest’attrezzatura o non hai tempo per fare le foto, devi rivolgerti a un professionista. In questo caso qualsiasi fotografo dovrebbe essere in grado di fare foto da studio fatte bene. Per capire se ha competenze di foto still life, fatti mandare una foto di un oggetto bianco (meglio se lucido) su uno sfondo bianco, che rappresenta la paura più grande di ogni fotografo! Se la foto ti sembra soddisfacente, assumilo pure!

Copywriting Contenuti nel sito web

Mai sottovalutare quest’aspetto. La scrittura di testi sul web è una vera e propria arte. Non si tratta solo di saper scrivere, ma di saper scrivere testi leggibili sia dagli utenti che dagli spider dei motori di ricerca! E’ un’arte che sta tra le capacità di scrittura creativa e le capacità di SEO. Inoltre avere dei contenuti originali sul web equivale a superare ogni forma di concorrenza. Evita il copia-incolla, sia perché se ti sgamano ti possono contestare la violazione del copyright sia perché ogni forma di copiatura può essere segnalata a Google con la punizione di vedersi scendere il sito sulla SERP. E questa è la peggiore delle punizioni!

Trovare un professionista che sappia scrivere dei testi efficaci non è facile, ma la maggior parte delle volte questa figura coincide con l’esperto di SEO-SEM.

In conclusione

Mi auguro che questi semplici suggerimenti possano esserti utili per scegliere con cautela e consapevolezza a chi rivolgerti, perché lavorare sulla rete offre molte opportunità, ma oggigiorno offre anche tante fregature, soprattutto per chi si rivolge con leggerezza all’Agenzia sotto casa, senza una precisa strategia e senza molte conoscenze in materia. Quindi chiediti cosa vuoi ottenere, rifletti su quali sono le tue esigenze, poi cerca sul web e magari scoprirai che puoi fare tutto da te oppure che ti servirà l’aiuto di un professionista, ma quando gli spiegherai con chiarezza le tue esigenze, capirai da te se è un dilettante oppure un esperto e ti stupirai di quanto ti sarà facile intuirlo, perché quando sarai in grado di sapere ciò che ti occorre, sarà una passeggiata capire se chi hai di fronte può soddisfare le tue richieste oppure no.

Letterina a Babbo Natale

Babbo Natale

Caro Babbo Natale,

quest’anno ho deciso di scriverti una letterina per chiederti qualcosa. Suvvia, non fare l’offeso, lo so che non ti scrivo da molto tempo e che l’ultima volta abbiamo litigato perché ti ho chiesto un cellulare e tu mi hai mandato la camionetta della polizia. Si, lo so, dovevo essere più preciso, ma pure tu sei un gran pezzo di burlone! Per non parlare di quella volta, tanti anni fa, che ti ho chiesto il calcio balilla e tu mi hai fatto trovare sotto l’albero un fascistello che gioca a pallone. Mi dici che me ne faccio di un fascista che gioca a pallone? Io volevo solo un biliardino! Ora capisci perché ti ho mandato a quel paese e non ci siamo più salutati per anni?

Vabbè, dai, pace fatta. Del resto sono passati così tanti anni che io sono invecchiato e pure tu non te la passi tanto bene, eh? Capisco che sei diventato incontinente, ma l’anno scorso ti ho visto mentre facevi il regalo ai miei vicini, e ti ho anche fotografato.

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Comunque, tornando alla mia richiesta, quest’anno non voglio regali materiali. Quest’anno voglio farti una richiesta molto particolare, però a sto giro mi devi accontentare, ok? Allora, la richiesta è semplice: voglio diventare stupido. Cioè, si, non come lo sono già, dico stupido davvero. Insomma, voglio assomigliare alla maggior parte della gente con cui ho a che fare, voglio fare discorsi idioti, credere alle fake news e condividerle sui social, voglio guardare il grande fratello VIP con la bava alla bocca e appassionarmi alle storie dei partecipanti, voglio finalmente guardare uomini e donne e capire di cosa parlano tutti i giorni, voglio andare alle manifestazioni contro i vaccini e sentirmi parte di una grande famiglia, voglio andare ogni domenica allo stadio e sfasciare tutto per contentare dei giocatori che danno due calci a un pallone per soldi, voglio passare tutte le domeniche al centro commerciale a comprare cazzate che non mi servono, voglio scaricare l’app muscally e diventare pure io famoso mentre faccio finta di cantare al rallentatore e ballare come uno scemo. A proposito, anche io voglio pagare 80 euro per andare a vedere le ragazzine sceme che sono diventare famose con quest’app. Oddio, mi accontenterei pure di fare un video su YouTube dicendo “saluta sto cazzo di barbuto”, ottenere miliardi di visualizzazioni e fare le comparse nelle discoteche a 1000 euro a sera. Insomma, caro Babbo Natale, quest’anno mi regali la scemità? Ma quella di qualità, eh? Non voglio la scemenza, che è di scarsa qualità e finisce subito, voglio proprio la scemità, quella che dura una vita e che non si consuma mai. Così finalmente posso dire addio al mio lavoro e campare di rendita facendo lo scemo sulla rete, così posso finalmente sentirmi parte di una comunità e non un pesce fuor d’acqua. Infine, così posso finalmente iniziare a scrivere a cazzo di cane, tutto sgrammaticato e offendere a morte chi mi corregge. E a proposito di offese, così finalmente posso iniziare a fare l’hater sui social e divertirmi anch’io a dileggiare chi non la pensa come me. Dai, Babbo Natale mio, fammi sto regalo, fammi finalmente sentire un Italiano vero, come diceva Toto Cutugno.

E io ti prometto che d’ora in poi non ti chiederò più niente, perché appena diventerò scemo finalmente mi sentirò realizzato.

Con affetto, tuo Barbuto.

Clacson e nevrosi

clacson

Tra i tanti studi di rinomate (e spesso sconosciute) università del Mondo, mai nessuna ha fatto una ricerca scientifica sul rapporto tra la nevrosi e l’uso (e abuso) del clacson? L’uso del clacson sarebbe il perfetto indicatore per calcolare il livello di nevrosi di una certa popolazione.

Nella mia vita ho trascorso brevi e lunghi periodi in molte città d’Italia, sia per lavoro sia per motivi personali. Praticamente, a parte le Isole, mi sono girato tutta l’Italia. Non so perché, ma ogni volta che ero fermo con la mia auto nel traffico, ponevo attenzione sull’uso del clacson. Se, per esempio, ero fermo al semaforo, notavo dopo quanti secondi le auto in coda iniziavano a suonare. Da lì ho iniziato a riflettere sul rapporto tra nevrosi e clacson e ho stilato una classifica, che però non pubblicherò perché il test è ancora in corso.

In buona sostanza ho notato, come tutti immaginerete, che l’abuso del clacson, soprattutto al semaforo, avviene maggiormente nelle grandi città, dove, si sa, la fretta e lo stress generano la nevrosi. Ma l’aspetto più curioso è che nella mia terra pugliese se ne abusa maggiormente rispetto a tante altre zone del Nord Italia. Curioso, vero? In Emilia o in Toscana o in Veneto, persino in Lombardia, ho sempre notato un uso decisamente minore del clacson al semaforo e raramente agli incroci o durante gli ingorghi.

L’immagine della mia Puglia come terra slow, calma e meno stressata cozza con l’estremo abuso del clacson e, spesso, con l’uso di più o meno colorite bestemmie quando al semaforo non hai il piede schiacciato sull’acceleratore non appena scatta il verde.

Ma l’aspetto che più mi lascia perplesso e stupefatto è un altro. Sono anni che cerco di dare una spiegazione scientifica e razionale, ma al momento per me resta un mistero irrisolto, peggio dell’esistenza dell’Area 51 o di chi ha ucciso Laura Palmer. Il mistero irrisolto è: come fanno sempre a suonare il clacson nell’esatto istante in cui scatta il verde? Ma soprattutto: perché lo fanno? Cioè, già è un mistero capire come fanno a sapere quando scatterà il verde e sincronizzare impulso nevrotico e mano con il momento esatto in cui la luce verde s’accende (se non prima dell’accensione del verde…), ma è un mistero ancora più irrisolto capirne la ragione. Cioè, anche se dovessi stare con gli occhi incollati sul semaforo e il piede pronto sull’acceleratore, stile partenza del GP, non riuscirei mai a partire – a semaforo verde – prima della strombazzata di quello che è in coda. Mai. Ci ho provato tante volte, ma è umanamente impossibile. Quindi, se non ci riesco io, anche provandoci per anni, credo che non ci riuscirà nemmeno il nevrotico suonatore seriale. Quindi a che pro suonare?

Poi v’è un altro mistero che ancora devo risolvere in tema di comportamento nell’uso del clacson e che ritrovo quasi esclusivamente nella mia zona o nelle metropoli come Roma e Milano: l’uso del clacson agli incroci. Cioè, io arrivo calmo e tranquillo sullo stop che incrocia una strada principale, mi fermo, metto la freccia e guardo a destra e a sinistra per capire se posso impegnare l’incrocio. Da lontano vedo sopraggiungere un’auto che inizia a strombazzare. “Cavolo, sto fermo – penso – a che minchia serve che mi suoni?”. Se succedesse raramente non ci farei caso, ma dalle mie parti capita sempre.

https://www.youtube.com/watch?v=puxWmjrSKBI

Insomma, da questi comportamenti deduco che gli automobilisti che abusano del clacson sono nevrotici ed insicuri. Poi potrei sbagliarmi, ma personalmente non ho mai usato il clacson, tranne quando per strada incontro qualcuno che conosco e gli suono giusto per attirare la sua attenzione. Punto. Infatti mi sono sempre chiesto a cosa serva l’uso del clacson: se stai fermo ad un ingorgo, non cambierai certo la situazione; se stai fermo al semaforo, l’auto che ti precede prima o poi se ne accorgerà e – solo trascorsi un buon numero di secondi – un colpettino secco e veloce sarà utile; infine se procedi lungo una strada principale che incrocia tante strade secondarie, è totalmente inutile suonare ad ogni incrocio (o usare gli abbaglianti…). Anche perché mettiti nei panni di chi vive in prossimità di un incrocio di una strada particolarmente trafficata e magari ha la camera da letto che affaccia sulla strada. Non è piacevole essere inondati di strombazzate tutto il giorno e in particolare nel cuore della notte.

Vorrei chiudere con due suggerimenti, uno rivolto ai suonatori seriali di clacson e uno a sociologi e psicologi. Ai primi chiedo di smettere di guidare, perché chiaramente la guida – su questi soggetti – crea forti disturbi e nervosismi eccessivi; ai secondi chiedo di iniziare a studiare il rapporto tra uso del clacson e nevrosi, suddiviso per area geografica, magari usciranno fuori dei risultati inattesi.

Il GPL conviene davvero?

distributore benzina

Negli ultimi anni molta gente ha pensato di passare ad un’auto a GPL, per via del basso costo del carburante, allettata non solo dalla martellante pubblicità di auto con impianto preinstallato e spesso vendute allo stesso prezzo di quelle a benzina, ma anche dalle numerose testimonianze – dirette o sul web – di chi dice di percorrere un buon numero di km con una spesa irrisoria.

Ora, lungi dal voler fare un’analisi universale sulla convenienza o meno del GPL, vorrei solo rendervi partecipi della mia esperienza personale e del confronto che farò tra auto che possiedo e ho posseduto: una diesel, una a benzina ibrida (termico + elettrico) e una a GPL. Stessa potenza in CV e, più o meno, stesso anno di produzione. Quindi il confronto sarà, per così dire, alla pari.

Nel test sulla mia attuale auto a GPL ho percorso circa 10.000 km misti tra strade urbane, extraurbane e autostrada, appuntando i consumi e il prezzo del carburante (sia GPL che benzina), quindi i risultati sono, ovviamente, variabili, perché tutto dipende dal costo del carburante (che oscilla di molto, tra pompe bianche e grandi compagnie o tra paese e autostrada) e dallo stile di guida. Ma su 10.000 km percorsi si può fare una media grosso modo accurata.

Intanto vediamo un attimo cos’è il GPL e come funziona un impianto.

Cos’è il GPL

Il GPL (Gas di Petrolio Liquefatti) è un miscela di propano e butano, che deriva principalmente dalla raffinazione del petrolio, ma anche dal processo di estrazione del gas naturale, quindi il suo costo è determinato in parte dal costo del petrolio e in parte dai costi di importazione del gas naturale.

Come funziona un impianto a GPL

Senza entrare troppo nei tecnicismi, va detto che l’installazione può avvenire su tutti i motori a ciclo otto, anche quelli ad iniezione elettronica o a carburatore. La bombola (che può essere a forma di ciambella o di bombolone) va, per legge, collocata in zona centrale o posteriore (tutte le auto convertite avranno la bombola o nel bagagliaio o al posto della ruota di scorta). Il gas vaporizzato andrà a degli ugelli posti in cima al collettore di aspirazione e la farfalla avrà il compito di dosare il carburante.

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Come funziona un impianto a GPL. Foto di allaguida.it

una volta gli impianti a GPL erano aspirati e dotati di un miscelatore, ma erano tanti i rischi del ritorno di fiamma (non mi riferisco a un ex, ma a qualcosa di peggio!), in quanto i collettori erano spesso pieni di miscele di aria e gas. Ecco perché, per lungo tempo, la legge vietava che le auto a GPL fossero parcheggiate in locali interrati, proprio perché poteva capitare che qualcosa scoppiasse. Oggi non più, perché gli attuali impianti sono detti iniettati, cioè con iniettori singoli per ogni cilindro e una centralina dedicata, che hanno il vantaggio di ottimizzare i consumi, evitare il ritorno di fiamma (il collettore, con questi impianti, è pieno solo di aria e non di aria e gas) e spruzzare il carburante che occorre, senza sprechi.

Tuttavia gli attuali impianti, detti VSR, hanno anche un altro vantaggio (o svantaggio, a seconda di come la prendete…), ossia quello di spruzzare ogni tot km una certa dose di benzina, in modo da lubrificare i componenti meccanici dell’auto, in particolare le valvole. Una volta si usavano appositi additivi, oggi non più. E’ questo l’aspetto economico che va valutato prima di montare un impianto a GPL, dato che quasi tutti gli installatori vi diranno che con il GPL si risparmia più del 40%, ma non vi diranno che l’auto continuerà ad usare la benzina, con tutti i costi che ne conseguono.

La tecnologia VSR

Gli attuali impianti, rispetto a quelli del passato, hanno un vantaggio soprattutto per gli automobilisti che hanno una guida sportiva o che viaggiano spesso in autostrada, in quanto, agli alti regimi, i motori raggiungono elevate temperature e si usurano prima, a cause del minore potere lubrificante del gas. Quindi le valvole, le sedi valvole e soprattutto le guarnizioni della testata si usurano e si rompono con facilità. Per ovviare a questo problema, gli attuali impianti sono dotati di sistemi di iniezione di benzina anche durante l’alimentazione a GPL in modo da lubrificare e ridurre la temperatura dei componenti più delicati.

Quindi la benzina servirà non soltanto alla partenza dell’auto, fino al raggiungimento della temperatura ideale per far partire il gas (di solito 30°), ma anche durante il tragitto, in contemporanea all’uso del gas.

Il GPL influisce sulle prestazioni dell’auto?

Assolutamente no. Rispetto al passato non si notano cali di prestazioni, anzi, l’efficienza del motore rimane la stessa. Va anche sfatato il mito per cui con il GPL si perde il 5-10% di velocità massima. Assolutamente falso. Anche il passaggio da benzina a GPL è indolore, ossia avviene in automatico e non si nota alcuna variazione durante la guida.

La Prova

la prova auto gpl
Si, ok, su 10000 km fatti ogni tanto un riposino in autogrill ci vuole…

Ora veniamo alla mia prova su un’auto 1.3 benzina, 86 CV, con impianto a GPL VSR Zavoli, serbatoio GPL da 30 litri. Di seguito i dati raccolti:

10.000 km percorsi tra: percorso urbano, percorso extraurbano, autostrada.
Prezzo medio del GPL:

in zona: € 0,65
in autostrada: € 0,78
Prezzo medio ottenuto: € 0,71
Prezzo medio della benzina in zona: € 1,50
Capacità serbatoio benzina: 42 litri

Ho consumato, durante la prova, due pieni di benzina, per un totale di 84 litri, per una spesa di 126,00 €. Sui 10.000 km percorsi ho fatto 30 pieni di GPL.

Quindi, calcolando che quando ho montato l’impianto, il meccanico mi ha garantito un risparmio del 40% (percentuale ritrovata anche sulle numerose pagine web degli installatori), ho fatto la prova giusto per capire se il dato è corretto e se il GPL conviene davvero, considerando il dato che nessuno dice, ossia che durante la marcia a GPL il motore consumerà un certo quantitativo di benzina, più o meno alto in base allo stile di guida e alla velocità, necessaria non solo alla partenza, ma anche durante il tragitto, con il GPL attivo.

Con i dati raccolti è sufficiente fare un semplice calcolo matematico:

30*30=900; 10000/900=11,11

Questo dato mi serve per capire quanti km faccio con un litro di gas + benzina.

Il primo dato (30) è il numero di pieni, il secondo dato (30) è la capienza del serbatoio. Quindi ottengo 900. Il terzo dato (10000) sono i km percorsi.

Ora dividerò il prezzo medio del GAS (0,71) per i km al litro, in modo da sapere quanto spendo per ogni km percorso. Quindi avremo:

0,71/11,11=0,064 centesimi

Bene. Ora non resta che fare lo stesso calcolo sulla benzina consumata:

10000/84=119,04

Dunque, con un litro di benzina faccio 119,04 km. Mica male, eh?

Peccato che dovrò ora dividere il costo medio della benzina per i km al litro. E dunque farò:

1,50/119,04=0,013 centesimi

Ossia per ogni km spendo 1,3 centesimi.

Sommando i due dati otterrò la spesa reale:

0,064+0,013=0,077

In poche parole, per ogni km percorso, spenderò quasi 8 centesimi.

Ora, volendo strafare, potrei moltiplicare questo dato per i km che percorro ogni anno e ottenere – sempre in media – la spesa di carburante reale. Quindi farò:

0,077*30000=2310 €

Cavolo, quanti soldi buttati per strada!

Diesel, benzina e ibrida

gpl e auto ibrida

Con i dati che ho raccolto ottengo il costo unitario e il costo annuale, ma per capire effettivamente il vantaggio o meno del GPL, occorre confrontarlo con altre vetture di altre alimentazioni.

La mia vecchia Renault Clio 1.5 diesel, 85 CV del 2003, quindi con la stessa potenza dell’attuale auto a GPL, consumava circa 5 litri di gasolio ogni 100 km, ossia faceva 20 km con un litro. Facendo gli stessi calcoli con l’attuale costo del gasolio, ossia 1,35 €/litro, avremo:

1,35/20=0,068 centesimi

In buona sostanza, rispetto al GPL, che costa meno, ma consuma di più (e consuma anche benzina), ho risparmiato quasi 1 centesimo al km (precisamente 0,0092 centesimi), che, moltiplicato per i miei 30000 km annui, mi avrebbe fatto risparmiare la bellezza di 276 €!

Ma continuiamo. Un’altra mia auto è un’ibrida del 2006. E’ vero che sviluppa solo 77 CV (rispetto agli 85 delle altre due), ma la cilindrata è superiore: cioè un 1500 cc. Vabbè, il confronto, del resto, non si può mai fare sul pelo del cavallo!

Insomma, con la mia ibrida riesco – sempre in media – a stare sui 24 km con un litro di benzina. Rifacendo lo stesso calcolo del precedente, stavolta con il prezzo della benzina a 1,50 €, otteniamo:

1,50/24=0,063 centesimi

Dunque, rispetto al gasolio la variazione è di poco (5 millesimi), ma rispetto al GPL è già qualcosa in più. Perché ottengo un considerevole risparmio di 1 centesimo e 4 millesimi al km che, sempre moltiplicati per i benedetti 30000 km annui, mi fa risparmiare ben 420 € all’anno. E mica son bruscoletti!

Detta papale papale, rispetto al consumo di benzina di prima di fare l’impianto (circa 13 km al litro), ho un risparmio reale del 25% (e non del 40% come promesso) e se confronto l’attuale auto con una vecchia a diesel o ibrida, sto spendendo di più!

E il costo della vettura dove lo metti?

Qualcuno mi direbbe: essì, bravo tu! Come fai a paragonare un’auto, magari vecchia e convertita a GPL, con un’ibrida che costa un’occhio della testa o con un’auto a gasolio, che pure ha il suo bel costo? Beh, la domanda sarebbe azzeccatissima, perché bisogna anche calcolare il costo dell’auto per ammortizzare la spesa. Giusto. Ma se calcoliamo che il costo dell’impianto GPL (fatto bene) oscilla tra le 1200 e le 2000 euro e che, con qualcosina in più, si può tranquillamente acquistare un’ibrida usata di circa 12-13 anni fa (le cui batterie hanno un ciclo di vita uguale a quello stesso dell’auto con minime perdite di efficienza) o un diesel più recente (con motori più efficienti), il gioco è fatto.

Poi c’è da considerare anche il costo occulto, ossia che su un diesel o su un’ibrida gli interventi di manutenzione – se l’auto è buona, certo – si fanno una volta l’anno (filtro, cambio olio…), mentre su un GPL sono più frequenti e dopo 90.000 km occorre fare un collaudo generale. Anche in questo caso i costi di manutenzione, nella mia esperienza, sono stati questi: 250 € all’anno per l’ibrida; 230 € all’anno per il diesel; 320 € all’anno per il GPL. In questo calcolo non ho messo gli interventi straordinari, che si verificheranno sicuramente se l’impianto GPL non è buono o se l’installazione non è stata fatta a regola d’arte.

Altri svantaggi

Qualsiasi sia la motorizzazione della tua auto, sappi che il consumo del GPL si aggira in media sui 10 km/litro. Non supererà mai i 13 km/litro. Inoltre bisogna calcolare che in Italia è vietato rifornirsi autonomamente di GPL alla pompa (in Austria invece è concesso…) e che quindi non puoi andare di automatico e devi rispettare gli orari di apertura del distributore. Inoltre la scarsa capienza delle ciambelle (o dei bomboloni per chi ha un bagagliaio grande) impone di effettuare rifornimenti continui. A proposito, se usi la ciambella dovrai dire addio alla ruota di scorta e se usi il bombolone dovrai sacrificare una parte del bagagliaio.

I calcoli fasulli del gpl sul web

gpl risparmio

Sul web troverai i tool che ti indicano il risparmio se passi al GPL, ma questi calcolatori non sono proprio reali, perché confrontano il vantaggio del GPL sulla base dello stesso consumo di carburante. Perciò ti sembreranno convenienti. Ma è chiaro che se tu adesso a benzina fai, chessò, 14 km al litro, passando al GPL magari ne farai 10 e non più 14. Questi tool, invece, si basano sullo stesso consumo. Per questo li reputo fasulli.

Per fare un confronto reale, dovrai calcolare sempre una media di 10 km/l per il GPL e confrontarla con il tuo attuale consumo reale (che potrà anche essere superiore, certo), senza scordarti di calcolare una media di 3 litri di consumo di benzina ogni pieno di GPL. Il calcolo, chiaramente, è personale ed è basato sulla mia auto. Sulla tua sarà diverso, ma dovrai ricordarti sempre che gli attuali impianti a GPL non vanno più solo a GPL, ma consumano un certo quantitativo di benzina.

Tutto è relativo…

La mia, lo ripeto, è un’esperienza personale basata su un calcolo personale, su percorsi misti, stili di guida diversi e su una sola vettura. Quindi, come detto all’inizio, non posso dare indicazioni universali. Inoltre il confronto che ho fatto con le altre auto è puramente indicativo (anche se realistico) non fosse altro perché i prezzi del carburante oscillano di molto e quindi i risparmi calcolati sono variabili. Ma una cosa è certa: per quanto mi riguarda, il GPL non conviene affatto, sia in termini di consumi che di manutenzione che di comodità di rifornimento (e ho anche sacrificato una parte di bagagliaio).

Il Metano

Non avendo mai posseduto un’auto a metano, l’ho chiaramente esclusa dal confronto. A differenza del GPL, il consumo di metano è più ridotto, anche se il costo alla pompa è superiore. Tuttavia è un sistema che non mi ha mai convinto, non fosse altro perché la distribuzione non è capillare come quella del GPL e in autostrada sono rarissimi i distributori di metano. Inoltre, proprio come il GPL, non si può fare rifornimento con l’automatico e quindi si è legati agli orari di apertura del distributore. Queste valutazioni, ovviamente, non valgono per chi vive nelle vicinanze di un distributore di metano e ha la fortuna di fare rifornimento durante gli orari di apertura, ma per tutti gli altri (me compreso), che magari sono costretti a fare svariati km per fare rifornimento, il gioco non vale la candela.

Il caffè va fatto come Dio comanda

caffe

Ogni mattina il motivo principale che ci spinge ad alzarci è quel buon odore di caffè che proviene dalla cucina e si sparge per le stanze. E’ risaputo che è la bevanda preferita degli italiani e che ogni momento è buono per berlo: la mattina, perché ci sveglia e ci dà quella giusta carica per iniziare la giornata, a metà mattinata, magari al bar con amici e colleghi, dopo pranzo, per concludere in bellezza il pasto e i più ardimentosi lo prenderanno di pomeriggio e persino la sera. I viaggiatori, poi, sanno bene che ogni sosta ad un Autogrill corrisponde a un caffè. C’è chi tollera la caffeina e riesce a dormire, chi invece non prenderà sonno se ha bevuto un caffè dopo le 6 del pomeriggio. In qualunque modo siamo fatti, c’è una cosa che ci accomuna tutti: il buon sapore del caffè che ci resta in bocca è una delle gioie della vita. E infatti qualsiasi barista (principalmente del Sud) che, senza manco chiederla, ti servirà l’acqua insieme al caffè, si offenderà a morte se la berrai dopo aver preso il caffè, perché ciò vorrà dire che quest’ultimo non era buono.

E qui veniamo all’argomento di quest’articolo. Saper preparare un buon caffè.

Ebbene, non è cosa da tutti. Il motivo principale per cui non torniamo più in un certo bar è che fanno il caffè annacquato o se non andiamo a trovare più la nostra vecchia zia è perché ogni volta che ci serve il caffè sa di bruciato. Beh, fare un buon caffè richiede una certa dote di dimestichezza, nella scelta, nella conservazione e nella preparazione. Ecco 7 buoni consigli per preparare un caffè gustoso, che aumenterà sicuramente la considerazione che gli altri avranno di noi!

La scelta del caffè

Sai che esistono oltre 600 generi e 13.500 specie di piante di caffè? Però tra le oltre 100 specie più diffuse commercialmente, quelle che troviamo con molta probabilità sugli scaffali sono l’arabica e la robusta. Dalle miscele delle varie specie acquistate dalle torrefazioni, usciranno prodotti più o meno buoni che dipenderanno non tanto dalla varietà o dalla provenienza, quanto dal tipo di torrefazione. Sulla confezione troverai il tipo di tostatura (chiara, media, forte) e la miscela (es. 75% arabica e 25% robusta), quindi puoi orientarti, nella scelta, scegliendo diversi tipi di miscela e diversi tipi di tostatura, in modo da trovare il caffè perfetto per te.

Un altro consiglio è di confrontare il caffè di una grande marca con uno di una torrefazione artigianale, magari locale, in quanto, se è vero che i costi sono più alti, è anche vero che troverai nuove e particolari miscele, nonché un tipo di tostatura più accurata. Però la regola non è universale. Mi è capitato, in Trentino, di acquistare miscele di una torrefazione locale, di cui tutti ne decantavano le lodi, per scoprire che gusto, aroma e retrogusto erano di poco dissimili da marche più famose e molto più economiche. Quindi è sempre bene scegliere più marche e provare.

La conservazione

Il caffè, sia in chicchi che già macinato, tende ad assorbire gli aromi circostanti, quindi è consigliabile tenerlo sempre ben chiuso e in un luogo fresco e asciutto. I classici barattoli del caffè sono più o meno buoni, ma il must è tenerlo chiuso nella sua confezione originale e in un barattolo in ceramica, perché lo smalto della ceramica tende a conservare gli odori e ad evitare gli sbalzi termici.

La macinatura

Comprare il caffè già macinato è una cosa che facciamo tutti, perché ci risparmia il tempo di macinarlo ogni volta, ma sappi che in questo modo, soprattutto se venduto nelle classiche confezioni in plastica, perde più del 60% del suo aroma. Quello in sottovuoto, magari nella confezione in poliaccoppiato (plastica+alluminio), è migliore, perché lo protegge dall’aria e dagli sbalzi termici.

Però sarebbe preferibile comprarlo in chicchi, perché in questo modo sei tu a decidere il tipo di macinatura e ottenere quella migliore. Già, perché non sempre, nel caffè già macinato, troverai la macinatura ideale.

Su questo punto devi sapere che un macinato troppo fine, anche se di ottima qualità, ti farà avere un caffè tendente al bruciato, troppo amaro, astringente e sgradevole, mentre un macinato troppo grosso ti farà avere un caffè lento che sa di fondo, di pagliericcio.

Il caffè va pressato o no?

Va detto subito: Si. Si e ancora si. Insomma: siiiiii. Va pressato, ma non troppo, altrimenti uscirà poco caffè e saprà di bruciato. Se non lo pressi, uscirà leggero, tipo brodaglia insulsa e senza sapore. Al bar, come già sai, il caffè viene sempre pressato, mentre alcune leggende metropolitane dicono che nella moka di casa non occorre pressarlo. Invece no, va fatto con moderazione, anche con il cucchiaino o con un pressacaffè apposito. Anzitutto devi mettere la giusta quantità di caffè in moka e pressare leggermente finché la polvere non va a livello con il filtro. Non è difficile e non serve nemmeno il dosacaffè. Serve solo quel concetto di quanto basta, tipico delle nostre nonne, che non si può tradurre in numeri e formule, ma che si acquisisce con l’esperienza.

L’acqua

Il caffè va preparato con l’acqua che berresti. Ti piace l’acqua del rubinetto? Allora puoi usare quella. L’acqua del rubinetto sa di cloro o è troppo calcarea? Allora usa l’acqua minerale. E mi raccomando: rigorosamente a temperatura ambiente. Non c’è di peggio che assistere alla preparazione del caffè con acqua bollente perché così faccio presto. Chiunque lo fa, faccia ammenda dei suoi peccati e ripeta con me: mi pento e mi dolgo, non lo farò mai più, giurin giurello.

Inutile dire che anche il livello dell’acqua è importante, perché la giusta dose di acqua e polvere creano il caffè perfetto. In moka l’acqua non deve mai superare la valvola di sicurezza, anzi, dovrebbe stare giusto mezzo centimetro sotto quel livello.

Il fuoco

Il caffè non va assolutamente fatto con la fiamma alta. Capisco che la fretta dei tempi attuali ci porti a voler fare tutto il prima possibile, ma per avere un caffè ottimo…bisogna avere pazienza.

Del resto l’attesa, come direbbe il compianto Riccardo Pazzaglia, ci permette di parlare e di conoscerci meglio. E cosa c’è di meglio che attendere insieme l’uscita dell’amata bevanda?

Quando accendi il gas, metti la fiamma al minimo e poi muovi il regolatore giusto di un paio di millimetri, in modo da alzare il fuoco solo di pochissimo.

La caffettiera ti avvisa quando il caffè sta uscendo perché inizia a borbottare. E’ quello il momento in cui spegnere il fuoco. E’ un po’ come se ti stesse dicendo “spegni il fuoco, sennò brucio!”. Infatti se lasci troppo il caffè sul fuoco è facile immaginare che si brucerà.

Infine, se dopo averlo servito, uno ti dirà “è troppo forte” e l’altro ti dirà “è troppo annacquato”, non sono amici con palati differenti, semplicemente hai scordato di girare il caffè nella moka. Perché la parte più forte sta nel fondo e quella più leggero in cima, quindi va mescolato prima di essere servito.

La caffettiera

Qualunque sia la tua scelta, è indifferente. Una moka vale l’altra, tranne se non l’hai comprata dai cinesi a 2 euro, per cui molto difficilmente sarà composta da materiali di qualità. Ma se spendi il giusto, una forma vale l’altra. Poi, se vuoi optare per la famosa caffettiera napoletana, sappi che è un po’ diversa da quelle comuni. Ecco un video esplicativo su come preparare il caffè nella caffettiera napoletana.

E ricorda: mai lavare la caffettiera col detersivo. Prima di preparare il caffè, sciacquala solo con acqua fredda e di tanto in tanto (tipo ogni 2-3 mesi, a seconda dell’utilizzo) lavala accuratamente, rimuovi i residui di caffè e calcare dai pori e fai un ciclo di pulizie con acqua e bicarbonato. Insomma, Riempi la caldaia con acqua e un cucchiaino di bicarbonato, poi metti un cucchiaino di bicarbonato nel filtro e mettila sul fuoco come se dovessi fare un normale caffè. Dopo fai un caffè normale e buttalo. Et voilà, è tornata come nuova!

Se ti è piaciuto l’articolo, non condividerlo, anzi, offrimi un buon caffè!

Siamo noi le persone sporche, non Asia Argento

asia argento

Ok, Asia Argento non è miss tempismo e forse le altre storie che coinvolgono il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein sono un pochetto edulcorate, anche perché si sa, basta fare da apripista e poi tutti vogliono raccontare la propria storia, più o meno credibile, basta che si racconti in tivvù. Si, forse ha aspettato troppo ad esporsi e ora tutti la seguono a ruota e vanno commentando, chi difendendola e chi (i più) accusandola sostanzialmente di essere, senza mezzi termini, un puttanone.

Chi conosce la vicenda saprà benissimo che oggi, dopo 20 anni dall’accaduto, Asia Argento ha rivelato le violenze subite dall’orco di Hollywood, all’epoca dei fatti terzo personaggio più influente al mondo (oggi un po’ meno, quindi meno invulnerabile), violenze dettate dalla regola aurea nel mondo del cinema quando si parla di rapporto tra uomini influenti e donne giovani e carine: o me la dai o ti scordi la carriera. Insomma, qualcuno direbbe che è così che va il mondo e che le donne che ci stanno se la cercano.

L’aspetto curioso è che la maggior parte dei commenti che ho letto finora e che in sintesi danno della troia alla Argento, provengono da donne e da personaggi la cui opinione conta come il quattro a tressette, tipo Vittorio Feltri. Vabbè. Bit sprecati.

Parafrasando, quello che si dice in giro è: lei era maggiorenne e consapevole, quindi lo ha voluto lei. E’ così, o è bianco o è nero, o ci stava o non ci stava. Non esiste una zona grigia.

Ma la zona grigia c’è. Eccome. La viviamo tutti i giorni, basta pensarci. Basta riflettere un attimo sulla differenza tra volontà e costrizione e allora forse ci accorgeremo che ciò che vogliamo, in realtà, è ciò che siamo costretti a fare.

Il labile confine tra volontà e costrizione

Lungi dal voler giustificare in toto l’attrice, perché le rimprovero di aver aspettato troppo tempo per denunciare l’accaduto, quello che vorrei sottolineare è il labile confine tra volontà e costrizione. Quando parcheggio l’auto e mi si presenta il parcheggiatore abusivo, volontariamente gli do qualche spicciolo, ma è perché sono costretto, casomai mi riga l’auto o mi buca le gomme, per dispetto.

Quando il medico, in ospedale, mi viene a dire passi dallo studio e mi cerca 300 euro per una visita privata, volontariamente caccio quei soldi, ma perché sono costretto dal sistema, che va così, altrimenti, se lo indispettisco, col cavolo mi farà quell’operazione di cui ho bisogno.

Se sono un assegnista all’università e il mio barone firma la mia sudatissima ricerca, io gliela concedo volontariamente, ma perché sono costretto, altrimenti posso scordarmi di essere riconfermato e contare su quel misero assegno di ricerca che mi tiene in vita.

Se il politicante locale mi offre 50 euro per votarlo, io volontariamente lo voto, ma perché sono moralmente costretto da quella dazione di denaro. Se poi vogliamo essere pignoli e mutuare l’esempio nella vita virtuale, quando accedo a un sito e leggo questo messaggio se non accetti i cookie non puoi proseguire con la navigazione su questo sito, io accetto volontariamente, ma perché costretto, altrimenti non posso visitarlo, pur sapendo che magari quei cookie mi stanno spiando. Posso proseguire all’infinito, facendo migliaia di altri esempi che dimostrano come la volontà e la costrizione siano due facce della stessa medaglia.

Quindi siamo sicuri che nella vita di tutti i giorni noi non facciamo le stesse cose che ha fatto la Argento? Solo che – diciamoci la verità – quando il medico ci invita a passare dallo studio privato, quella cosa sì, ci pare normale, mentre quando c’è di mezzo il sesso e un paio di personaggi famosi, quello no, non è normale. Bisogna gridare allo scandalo.

Ma ti rivelo una cosa: noi siamo più colpevole di lei quando intaschiamo i 50 euro dal politico, diamo gli spiccioli al parcheggiatore abusivo o cacciamo i soldi dal medico che deve operarci e ci vergogniamo pure di chiedere la fattura. Siamo noi le persone sporche e immonde, non Asia Argento. Lei, almeno, ha denunciato, seppur tardivamente. Noi saremmo in grado di farlo?

Esame da avvocato. Come passarlo

passare esame da avvocato

L’esame da avvocato non è difficile da passare, occorrono solo poche nozioni. Di seguito tutti i consigli pratici e utili per passare scritto e orale.

Premetto una cosa. Ho passato l’esame a prima botta, dopo anni dalla fine della pratica legale e dopo aver smesso di frequentare tribunali, stendere atti, scrivere diffide, insomma, dopo aver abbandonato il mondo forense per più di 3 anni. Perché ho fatto l’esame? Così, per diletto, per completare un ciclo e perché, come diceva mio nonno, prendi il titolo e mettitelo in tasca, che non si sa mai. Dopo l’esame non mi sono iscritto all’albo solo per paura di dover pagare la cassa forense e di dover fare gli inutili corsi di aggiornamento per me che non ho la minima intenzione di svolgere la professione, almeno per ora.

Premetto un’altra cosa. Non sono un genio (anzi, mi ritengo un italiano medio qualunque) e non ho avuto tempo di aprire un qualsiasi libro di diritto, né prima dello scritto né prima dell’orale. Non occorre essere geni o ultra-preparati per passare l’esame da avvocato. Occorre solo conoscere il minimo indispensabile, usare il ragionamento e non copiare. Ma vediamo nel dettaglio.

L’esame scritto

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Un motto che girava nella facoltà di Giurisprudenza recitava Privato, mezzo avvocato. Enorme cazzata. Credi a questa specie di proverbio solo al primo anno. Poi scopri che c’è penale, commerciale, procedura civile e capisci che al massimo sei 1/20 di avvocato. Il motto giusto dovrebbe essere scritto bono? Avvocato sono. Certo, la metrica fa cacare, ma il concetto è quello: se fai un ottimo scritto, l’orale è solo una mezza formalità (ma tra poco vedremo pure come passare l’orale).

In cosa consiste l’esame scritto

Il primo giorno d’esame ti verrà richiesto di redigere un parere scritto in materia di Diritto Civile da scegliere tra due diverse tracce. Il secondo giorno ti verrà richiesto di redigere un parere scritto in materia di Diritto Penale da scegliere tra due diverse tracce, mentre il terzo giorno dovrai redigere un atto giudiziario a scelta tra uno in materia di Diritto Civile, uno in materia di Diritto Penale e uno in materia di Diritto Amministrativo.

Gli inutili trolley

Non appena arrivi nella sede dell’esame scopri il popolo dei trolley e per uno che si è allontanato dal mondo dei praticanti e non ha mai fatto la scuola legale la visione è un po’ sconcertante: che ci fa tutta sta gente davanti all’ingresso della sede con i trolley? Avrò confuso il posto? Mi troverò per caso in aeroporto? No, quei trolley sono solo pieni di libri e codici. C’è di tutto: civile, procedura civile, penale, procedura penale, amministrativo, tributario, societario, famiglia, successioni, navigazione, enti locali e, non si sa mai, pure canonico ed ecclesiastico. Io che arrivo lì con una borsetta e i quattro canonici codici (civile, penale e le due procedure), comprati 3 anni prima, mi sento un pesce fuor d’acqua. Poi, in sede di esame, mi sento meglio: quei trolley pieni di libri non servono a un cazzo. Alcuni vengono anche “sequestrati” all’ingresso. I quattro codici bastano e avanzano per tutti e tre i giorni d’esame, anzi, a dire il vero i due codici di procedura non li ho proprio usati in quei tre giorni.

L’ingresso

Dopo una lunga fila e una ressa che non ti dico (ma perché tutta sta fretta di entrare? Tanto i posti sono segnati) ti vengono consegnati i fogli su cui svolgere l’esame e viene effettuato un controllo nelle borse. Tutto ciò che non è un “codice” viene sequestrato. Quindi è inutile che ti porti i compendi Simone, tanto non passano. Ti viene assegnato un numero di posto e, da quel momento, per 3 giorni e per 7 ore al giorno, sarai in reclusione tra quelle mura.

Le comunicazioni con l’esterno

Nelle 7 ore di esame non potrai uscire (ma puoi prenderti un caffè alle macchinette o al bar appositamente allestito per l’esame), tenere con te strumenti atti a comunicare né copiare. Tanto in qualche modo ti sgamano, o durante o dopo l’esame. Certo, qualcuno riesce anche a comunicare col cellulare (una tizia, seduta nella mia fila, ci parlava più volte e si connetteva a internet), ma è meglio non rischiare, anche perché tra l’ansia di essere sgamati e la fretta, non credo si possa riuscire a capire qualcosa. Inoltre molti di noi si son sempre chiesti se quegli strani aggeggi usati dai tecnici per captare le onde elettromagnetiche dei cellulari funzionino o meno. Non saprei, forse no. Ma perché rischiare di essere sbattuti fuori dall’esame? Per un esame così facile, poi?

La dettatura delle tracce

L’aspetto peggiore, per uno come me che ha perso l’abitudine di scrivere a mano (ma che per un praticante abituato a scrivere i verbali d’udienza sarà una passeggiata) è la dettatura delle tracce. Si, perché, per qualche strano motivo, le tracce non vengono dettate e poi, che ne so, scritte su una lavagna o stampate e consegnate ai candidati. No, devi occuparti tu di trascriverle mentre le dettano, cercando di trovare il giusto compromesso tra velocità e leggibilità (dato che dovrai rileggerla molte, molte volte).

Quale traccia scegliere?

A dispetto di quanto ti diranno, la scelta della traccia non conta molto. Se ti capita una traccia di un aspetto che già hai affrontato durante la pratica, bene. Ma se capitano tracce di argomenti che non hai mai trattato, scegli quella che ti sembra la più semplice da affrontare. Per esempio, tra una traccia in materia di successioni e una in fatto di anatocismo bancario, meglio la seconda. Le successioni, si sa, nascondono sempre molte insidie.

Come si fa a scegliere la più semplice? Dai una rapida occhiata al Codice e, dopo aver individuato gli articoli di riferimento (cosa molto semplice se usi l’indice analitico), leggiti qualche sentenza. Ti sembrano semplici da comprendere? Si fanno rimandi ad altri istituti o ad altre sentenze? Bene. Meglio perdere una mezz’ora a leggere le sentenze piuttosto che chiedere consiglio agli altri o ascoltare il parere dei commissari, che – di tanto in tanto – verranno a dare qualche suggerimento.

Vuoi copiare?

Ti sconsiglio di copiare, ma se davvero vuoi farlo, portati qualche fogliettino con su scritto, per ogni singolo atto (citazione, comparsa, decreto ingiuntivo, ecc.) l’incipit, le conclusioni, il mandato e la relata di notifica, tranne se non ricordi tutto a memoria (e dopo 3 anni di pratica, ci sta). Il resto dev’essere tutta una tua creazione. Per i pareri, a mio avviso, non importa copiare. Del resto è un parere. Hai già il codice commentato (al momento la riforma è rinviata di un anno, quindi approfittane!), ossia tutto ciò che ti serve per svolgere l’esame.

Quelli che copiano (dal compagno di banco o dal telefono o che si portano intere cartucciere) sono l’esempio di gente che avrebbe dovuto fare altro nella vita e che prima o poi diventeranno (spero di no…) avvocati, ma da quattro soldi. Del resto sai benissimo che sono tanti i candidati bocciati e per giunta indagati per aver copiato all’esame. A che ti serve rischiare? La tua unica forza è la logica e l’originalità. Lascia perdere anche tutte le cazzate che ti diranno per cui gli scritti nemmeno li leggono o che passano l’esame solo i raccomandati e i figli di papà. Puerili falsità.

Ansia? No grazie.

Non c’è niente di peggio che avere un compagno di banco ansioso, che ti chiederà ogni 3 minuti qualcosa. Per svolgere al meglio l’esame occorre silenzio, concentrazione e una buona dose di alienazione da tutto ciò che ti succede intorno. Quindi se ti capita un ansioso o un chiacchierone, con garbo mandalo a quel paese.

I suggerimenti dei commissari

Dopo un po’ di tempo dalla lettura delle tracce, i commissari cercheranno di aiutarvi indicando quelle che, secondo loro, sono le sentenze di riferimento. Sai benissimo che per ogni traccia si fa sempre riferimento a una o più Sentenze della Cassazione (in special modo a SU) degli ultimi due anni che bisogna azzeccare. Su questo i commissari cercheranno di aiutarvi, ma può capitare che ti mandino in confusione perché tu, nel frattempo, hai elaborato un altro tipo di ragionamento. Ecco, prosegui sulla tua strada senza curarti di quello che ti dicono. Non ascoltare proprio. Non occorre.

In verità quello che più importa non è tanto azzeccare la Sentenza giusta, quanto seguire un iter logico-giuridico che ti porti alla definizione del caso, sia esso un parere o un atto (tra poco li vediamo nello specifico). Insomma, anche se nello scritto indichi una o più Sentenze sbagliate, non importa, importa invece quanto tu sia convincente, usando rigore giuridico e chiarezza nell’esposizione. Punto.

La gestione del tempo

All’inizio 7 ore ti sembreranno un’eternità e infatti, quando uscirai da quell’aula, ormai col buio, andrai sballottolando qua e là per la stanchezza mentale. Lo scritto è un’esperienza logorante ed è per questo che occorre organizzare il tempo sia nell’elaborazione sia nella gestione delle energie. Qualcuno ti dirà che è importante passare la prima ora solo a leggere le tracce. Non mi pare il caso. Come detto in precedenza, è importante, dopo aver letto velocemente le tracce e averne tratto le informazioni essenziali, sceglierne una, rileggerla più e più volte, appuntarsi le informazioni essenziali e andare a cercare l’Istituto, gli articoli di riferimento e leggere con calma le Sentenze commentate nonché gli eventuali rimandi. Dopodiché, in brutta copia, è importante appuntarsi gli articoli, le parole chiave ed eventuali citazioni che ti possono sembrare utili. Il resto del tempo lo puoi usare per iniziare a scrivere, curandoti di lasciare almeno 2 ore per ricopiare tutto in bella. Io che scrivo molto lentamente e ho una pessima calligrafia, ho dovuto usare 3 ore per ricopiare. Ma per la maggior parte della gente normale 2 ore sono sufficienti, anche perché durante la ricopiatura ti capiterà sicuramente di cambiare qualche espressione o di ridurre un periodo troppo lungo e articolato. Quindi gestisci le 7 ore a tuo piacimento, ma calcolando circa 4 ore per le ricerche e la stesura, 1 ora di pausa (da spalmare nelle 7 ore) e 2 ore per ricopiare.

Caffè e sigaretta in bagno

Come detto, qualche pausa è necessaria per sgranchirsi le gambe e allentare la tensione. Un buon caffè è sempre un ottimo alleato. A volte può capitare che durante la pausa, con la mente più distesa, si arrivi a quella conclusione geniale che in aula non arrivava.

Per i fumatori: durante le 7 ore dell’esame non si può uscire dalla struttura e, peggio, dall’area delimitata. Quindi l’unico spazio per fumare sarà il bagno (tranne se non è stata prevista un’apposita area fumatori). Il bagno funge da tutto tranne che da luogo per espletare le funzioni primarie: lì ci si incontra per fumare, scambiarsi pareri, copiare, qualcuno pure per sniffare coca (già, purtroppo ho assistito anche a questo…). Se vuoi entrare ancora di più in confusione, meglio evitare il chiacchiericcio da bagno, perché troverai sempre il finto saputello che dispenserà consigli a tutti sulla sentenza giusta o su cosa scrivere. E’ sempre bene usare il bagno per la pipì, una sigaretta o per sciacquarsi la faccia.

Il parere

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E veniamo ora al parere, che impegnerà il primo e secondo giorno.

Come ben sai il parere consiste in un consiglio che un potenziale cliente chiede al proprio avvocato di fiducia in riferimento ad una questione giuridica che lo coinvolge. Quindi si tratta di un caso concreto da risolvere. Tu allora dovrai assumere le vesti dell’avvocato per risolvere la questione giuridica proposta, cercando di sostenere la tua tesi corroborata dalla Giurisprudenza di legittimità e di merito. In buona sostanza dovrai:

  • introdurre il parere con una breve esposizione dell’istituto giuridico in esame;
  • fare tutti i riferimenti normativi e dottrinali dello stesso;
  • indicare la giurisprudenza risolutiva del caso di specie;
  • dare la soluzione al cliente.

Non per forza la soluzione dev’essere favorevole per il cliente. Non stai scrivendo un atto, per cui difendi il tuo cliente, ma stai solo dando il tuo parere sulla questione posta, quindi, in base alla traccia e alla giurisprudenza trovata, calcola che dovrai fargli capire cosa dice la giurisprudenza maggioritaria e quella minoritaria, e se vuoi dargli una soluzione favorevole, ma sostenuta da una giurisprudenza minoritaria o carente, dovrai sottolinearlo.

Il parere è lo scritto più importante, per cui bisogna seguire questi semplici consigli: dev’essere breve (al massimo 2 o 3 facciate di foglio), rigoroso ma di semplice comprensione, inoltre l’introduzione con l’inquadramento dell’istituto dev’essere giusto di 3 o 4 righe. Niente di più. Quello che conta nel parere è la capacità di applicare l’istituto astratto al caso concreto. Quindi è molto importante evitare lunghe copiature delle sentenze o della dottrina, ma citare solo le parti che fanno al caso nostro, in modo che il cliente capisca ciò di cui stiamo parlando. Insomma, devi fondere nel tuo discorso le parti giurisprudenziali e dottrinali che ti interessano, in modo da rafforzare la tua tesi. Cita le sentenze favorevoli e quelle contrarie e metti in risalto i possibili vantaggi e svantaggi per il cliente nella soluzione della questione. La classica struttura hegeliana di tesi antitesi e sintesi funziona sempre: indica la tua opinione, corroborata dalla giurisprudenza (anche minoritaria, non importa), indica la giurisprudenza o la dottrina che dice il contrario e poi sintetizza evidenziando i pro e i contro. Se c’è una recente Sentenza della Cassazione a SU che conferma la tua opinione, è fatta. Non occorre citare altro.

Il linguaggio usato dev’essere rigoroso, ma a tratti colloquiale, perché non stai parlando a un giudice, ma all’uomo della strada, che deve capire ciò che dici.

L’atto giudiziario

In questo caso stiamo parlando a un Giudice e la forma è determinante per la buona riuscita dell’atto. Se hai fatto una buona pratica, scrivere un atto sarà molto più facile che scrivere un parere. Anche in questo caso vale la stessa regola: brevità. L’atto dev’essere lungo al massimo 3 facciate. Non c’è niente di peggio che costringere il futuro esaminatore a leggere lunghi panegirici e noiose copiature di Sentenze. Come per il parere, le Sentenze da citare dovranno essere quanto più brevi possibile e stilisticamente fuse nelle nostre argomentazioni.

Quali sono gli atti che usciranno? Ti potrà capitare di tutto, ma di solito propongono sempre la comparsa di costituzione e risposta con domanda riconvenzionale (civile) e l’atto di appello (penale).

In sintesi

Non smetterò di ripeterlo. Uno dei segreti della buona riuscita dello scritto è: semplicità e brevità. Vai subito al sodo, evita complessi giri di parole, lunghi periodi e lunghe citazioni di Sentenze e fondi le massime delle Sentenze nel tuo discorso. Evita soprattutto gli errori grammaticali. Inutile dire che sono la prima causa di bocciatura. Anche una buona calligrafia è essenziale. Scarteranno subito il tuo scritto…se non capiranno cosa c’è scritto! Ti sembrerà paradossale, ma dai più importanza alla copiatura in bella che a tutto il resto. Il diritto è fatto di interpretazioni, quindi ogni tesi (se sostenuta da dottrina e giurisprudenza, anche minoritaria) ha diritto di cittadinanza. L’importante è far capire cosa si sta dicendo, in termini di sintassi, grammatica e logica. L’esame da avvocato non è difficile, anzi. Il numero elevato di bocciature dipende da tanti che non sanno nemmeno scrivere in italiano e che non sanno far capire agli altri cosa stanno dicendo.

Hai sbagliato la Sentenza?

Andando a rileggere, dopo ogni scritto, le soluzioni trovate in rete, potrai deprimerti, perché magari hai scoperto di aver citato Sentenze sbagliate. Come detto più volte in precedenza, fregatene. Tu devi seguire un tuo iter logico-giuridico e citare le Sentenze che sostengono la tua tesi. Se sono maggioritarie, ben venga, altrimenti non importa. Tu devi dimostrare di saper fare l’avvocato, non il giudice, quindi devi usare lo strumento della giurisprudenza a tuo vantaggio e dimostrare di saper essere convincente seguendo un processo logico tuo personale. Del resto saprai meglio di me che i grandi avvocati sono quelli che cambiano il diritto e che convincono i giudici a seguire una certa tesi, anche priva di giurisprudenza. Non devi certo arrivare a tanto, ma devi essere consapevole che l’esame non è un quiz a premi che consiste nell’indovinare la Sentenza giusta, ma è la dimostrazione che tu sai scrivere un testo giuridico, usando argomentazioni valide, citando la giurisprudenza (e la dottrina) a tuo vantaggio e risolvendo un caso pratico o convincendo un giudice a seguire la tua tesi.

L’Esame orale

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Intorno a metà giugno conoscerai l’esito dello scritto. Il minimo per passarlo è 90, quindi con un minimo di 30 punti per prova, superi lo scritto.

Se avrai seguito questi consigli l’avrai passato, anche con un punteggio minimo. Chissenefrega. Io ho preso 35 per ogni scritto, senza aver aperto un libro di diritto per 3 anni.

Quali materie si portano all’esame orale?

Dovrai scegliere 5 materie, che avrai precedentemente indicato in fase di iscrizione, tra costituzionalecivilecommercialelavoropenaletributario, procedura civile o penale, internazionale privato, ecclesiastico, comunitario, amministrativo. Ricorda che una delle cinque materie scelte deve per forza essere una procedura a scelta tra civile e penale. Infine l’ultima domanda dell’orale è relativa alla conoscenza dell’ordinamento forense e dei diritti e doveri dell’avvocato.

Scegli il pre-appello

Tutti quelli che hanno passato lo scritto sceglieranno di sostenere l’orale all’appello ordinario, che di solito parte a settembre. Ma dato che tu che mi stai leggendo non sei tutti quanti, sceglierai di sostenere l’esame al pre-appello, che di solito si svolge a luglio. Ma come! – mi dirai – dovrò fare l’esame nemmeno un mese dopo aver conosciuto l’esito dello scritto? Si, certo. Per due ragioni: la prima è che sarete in pochissimi, quindi eventuali figure di merda si attenueranno; la seconda è che gli esaminatori sono molto più distesi, tranquilli e benevolenti nei confronti degli arditi candidati che hanno scelto il pre-appello.

Chiaramente non potrai studiare tutte le materie che hai scelto di portare all’orale in pochissimo tempo. E infatti, se puoi, inizia a studiare subito dopo lo scritto. Avrai 7 mesi per prepararti. Non sono pochi. Mettiti in testa che se non copi e segui i consigli appena dati, lo scritto lo passi. Non dar retta alle leggende metropolitane. Se sei originale e chiaro nell’esposizione, breve, segui un iter logico e conosci la lingua italiana, lo passi.

All’orale ti faranno partire con un breve commento allo scritto. Quindi è bene ripassarlo (tanto la brutta copia resta a te). Poi ti chiederanno un argomento a piacere oppure inizieranno – a turno – a farti domande sulle materie che hai scelto di portare.

Il tutto si svolge in un clima tutto sommato colloquiale, perché – lo ripeto – siete in pochi e gli animi sono più distesi. Alla fine di ogni esame tutti gli astanti escono dall’aula e i commissari stabiliscono il voto, che va a sommarsi a quello dello scritto. Il minimo per passare l’esame è di 180 punti.

Insomma, vai con tranquillità a fare scritto e orale e ricorda che viene premiato chi dimostra una cosa semplicissima: saper scrivere e usare la logica. Nient’altro. In bocca al lupo!

5 buoni motivi per evitare i centri commerciali

centri commerciali

Alzi la mano chi non hai mai fatto la spesa nei centri commerciali. Ok, ci siamo tutti. In effetti per molti di noi andare a fare la spesa in un centro commerciale spesso diventa il pretesto per farsi una passeggiata, soprattutto domenicale, cazzeggiare, incontrare gente, prendersi un caffè o un gelato e, tra un negozio e l’altro, spendere parte dello stipendio in cose più o meno utili.

Il vantaggio dei centri commerciali è che ci trovi tutto, e anche qualcosa in più. Quelli grandi e moderni, poi, hanno al loro interno negozi monomarca o negozi specializzati (in articoli sportivi, scarpe, abbigliamento, ecc.) che si trovano solo lì, e per questo spesso la visita al centro commerciale diventa una tappa obbligata. Alla fine ti ci abitui così tanto che ogni volta che ti serve qualcosa, non pensi di andare in qualche negozio in centro, magari vicino casa, ti fiondi direttamente al centro commerciale. Non è così?

Personalmente da giovane ci andavo pazzo. Un po’ perché il centro commerciale più vicino a casa mia (che distava circa 30 km) praticava prezzi particolarmente vantaggiosi rispetto al supermarket sotto casa e un po’ perché rappresentava una novità e una comodità assoluta: trovavi tutto, a prezzi vantaggiosi ed era comodo girare col carrello tra vari negozi, per non parlare del wi-fi gratuito, un’altra delle principali attrattive che mi spingeva ad andare lì ogni volta che potevo, in un periodo in cui internet in casa era un lusso per pochi.

Ma poi col tempo qualcosa è cambiato. Se da un lato sono diventato sempre più insofferente ai posti affollati, dall’altro ho consapevolizzato il fatto che ormai i centri commerciali non sono più quelli di una volta, non sono più convenienti, sono diventati fonte di stress (che aumenta con l’aumentare della gente), sono pericolosi per l’ambiente e, soprattutto, sono la prima causa della morìa del piccolo commercio, cioè l’anima dell’economia reale italiana.

Insomma, i motivi per evitare i centri commerciali ci sono. Ne elenco solo 5, quelli che per me sono i principali.

1. I centri commerciali creano ansia e fastidio soprattutto nei giorni prefestivi

folla ai centri commerciali

C’è una regola che pervade la mia vita in fatto di relazioni con il centro commerciale. Se da un lato so che andando lì troverò tutto quello che mi serve (o almeno l’illusione di trovarlo), dall’altro lato so che quando uscirò avrò sicuramente dimenticato qualcosa.

Senza una rigorosa lista della spesa, il rischio che corro ogni volta tra quegli immensi scaffali è di non sapere più di cosa ho bisogno e di prendere cose a casaccio.

In effetti, passeggiando per quei grandi spazi mi avranno nel frattempo rincoglionito tra migliaia di prodotti, offerte speciali, fastidiose luci fredde, il nervoso crescente nel non trovare subito quello che sto cercando e lo stress da folla di gente, che si attenua solo se ci vado nei giorni feriali o negli orari di minore affluenza. Cioè, se ho un lavoro con orari standard, praticamente mai.

L’ingresso

Lì iniziano le bestemmie sin dalla ricerca del parcheggio. Sì, perché appena varchi con la tua auto la soglia del centro commerciale, nei giorni prefestivi o in una qualsiasi domenica, ti accorgi di aver fatto un’enorme stronzata: dal cavalcavia già vedi i parcheggi pieni e preghi iddio affinché ti faccia trovare uno stallo libero vicino all’ingresso. Ovviamente non lo troverai e ti toccherà lasciare l’auto chissà dove, sperando di ricordarti l’impossibile combinazione di lettere e numeri che rappresentano le uniche coordinate per ritrovare la tua auto in quella sterminata radura di asfalto tutta uguale. Dopo 3 minuti di camminata verso l’ingresso ti starai già chiedendo: “ma il parcheggio era il B2 o il P9?”.

Il carrello

I guai non sono certo finiti. Perché è domenica e siamo in orario di punta, in un giorno in cui tutta la città pare essersi riversata nel centro commerciale e chiaramente non ci sono carrelli. L’unico che trovi è quello che tutti hanno snobbato, perché ha le ruote bloccate e fa un rumore così stridulo che ad ogni passo tutti si gireranno a guardarti, mentre inizi a sudare e già non vedi l’ora di andartene via.

Tra un “permesso” e un “mi scusi”, avrai già dato una pedata a un vecchietto e una gomitata ad una tizia che ti guarda con fare infastidito. E siamo solo all’inizio. Se non hai una lista, hai già dimenticato cosa prendere. Allora cerchi di fare in fretta, arraffando quello che ti capita a tiro. Ovviamente non guardi le scadenze dei prodotti, ma ti fai abbindolare dalle offerte. Rinunci anche a fare la fila in salumeria. Il numerino che hai preso ti anticipa che a te toccherà quando sarà ormai orario di chiusura. Meglio prendere gli affettati o i formaggi già imbustati, anche se sai che fanno schifo.

Il guanto per la frutta

guanti_frutta

Il peggio, però, non è passato, perché devi prendere la frutta. Lì inizia il bello, già quando proverai a indossare quell’immondo guanto in plastica sulla mano sudaticcia. Romperlo è un attimo e indossarlo una tortura.

L’Italia, chissà perché, è l’unico Paese in Europa che obbliga i supermercati ad avere i guanti in plastica per prendere la frutta, dandoti l’illusione dell’igiene. Quando, per anni (e ancora oggi) palpi la frutta dal fruttivendolo, senza l’obbligo del guanto, sai che mai nessuno ci è morto o ha preso strane malattie, ma se lo fai al supermercato rischi che qualche dipendente ti riprenda, magari sgridandoti ad alta voce, come si fa ad un bambino scoperto con le mani nella marmellata.

La fila in cassa

La fine della spesa segna l’inizio di una nuova fonte di stress: la fila alle casse. Proprio come la fila in autostrada, capiterà sempre di metterti in coda nella cassa che ti sembra meno affollata, ma in realtà, per qualche strano motivo, diventa più lenta di quella accanto, dove c’era più gente. Il cliente che ti precede avrà sicuramente un buono pasto da calcolare, un prodotto che non passa e che bisogna cambiare, oppure difficoltà a contare le monetine. Qualunque sia il motivo, chi dopo di te è andato alla cassa accanto starà già imbustando la roba, mentre tu, ticchettando nervosamente con le dita sul carrello, bestemmi cliente e cassiere che staranno discutendo allegramente infischiandosene di te e della tua fretta.

Certo, qualcuno mi dirà che ci sono le casse automatiche. Sì, solo che lì non ti rendi conto della fila, vedi solo un ammasso di gente, poi per forza di cose ti devi rivolgere al personale, o per una placca antitaccheggio da rimuovere, o perché hai i buoni pasto da usare o perché c’è uno sconto che lo scanner non ha preso e soprattutto perché non è da tutti seguire quella semplice – eppur complessa – procedura che ti porta sempre e comunque a sbagliare qualcosa. Meglio la buona e vecchia cassiera.

L’uscita

Uscito dal supermarket, sempre se ti ricordi da quale ingresso sei entrato (Nord o Sud? Est o Ovest? Boh, mi ricordo che entrando ho trovato la Bata…o forse era la Globo?), non avrai più la forza e il tempo di andartene a spasso per altri negozi. E’ ormai orario di chiusura e tu ricordi vagamente di esserci entrato dopo pranzo, quando ancora fuori splendeva il sole. Dopo aver ritrovato (a fatica) la macchina, ti calerai la mano in tasca e trovando lo scontrino ti chiederai: “come ho fatto a spendere 100 euro per due buste?”. Già.

2. Spesso hanno prezzi più alti rispetto al piccolo supermercato sotto casa

Chi è abituato a fare la spesa seguendo la rigida logica delle offerte da volantino, quindi in grado di frequentare anche due o tre supermercati in un giorno, e mette un po’ di attenzione sui prezzi pieni e non solo sulle offerte, si renderà conto che tra un supermercato e l’altro lo scarto di prezzo è davvero minimo. Se la giocano sui centesimi. Chiaro che questa comparazione non vale tra supermercati e discount. Per i discount, che trattano prodotti sottomarca (ma spesso di qualità uguale alle marche più note) la logica è diversa. Il paragone va fatto tra GDO (grande distribuzione organizzata) dello stesso livello (es. tra Coop e Conad). Quindi se andiamo a paragonare le GDO, scopriremo che molto spesso i prezzi sono uguali, anzi, il piccolo supermercato sotto casa (che spesso appartiene a una GDO) arriva anche a praticare prezzi di poco inferiori rispetto al supermarket del centro commerciale.

Fai una prova

Fai una lista di una decina di prodotti da comparare, stessa marca, stesso peso e di diverso genere (es. pasta, snack, detersivo, vino, olio, ecc.) e vai in un centro commerciale, segna i prezzi e poi vai al supermercato sotto casa. Scoprirai che i prezzi si differenziano di pochi centesimi. Per i prodotti insaccati o venduti a peso è sufficiente calcolare il prezzo al kilo, spesso riportato in piccolo sull’etichetta del prezzo esposto sullo scaffale. Alla fine ti renderai conto che facendo la spesa al supermercato sotto casa avrai fatto un affare: i prezzi sono pressappoco uguali, eviti lo stress da parcheggi, da folla, da fila in cassa e puoi pure scegliere il carrello!

3. I centri commerciali sfruttano i dipendenti

Nota dolente, che è venuta a galla negli ultimi anni quando qualcuno si è reso conto che è inumano far lavorare la gente anche la domenica e i giorni festivi (capodanno, Pasqua, ecc.). I casi di sfruttamento dei lavoratori nei centri commerciali sono all’ordine del giorno. Basta leggere questo interessante reportage dell’Espresso per capirlo. Turni massacranti, aperture straordinarie e diminuzione del personale connesso all’aumento del carico di lavoro rendono la vita in queste moderne cattedrali un vero inferno.

Nel centro commerciale in cui sono andato per anni, per esempio, il personale è passato, in 15 anni, da 120 dipendenti a circa 40, anche a causa dell’introduzione delle casse automatiche. Oggi, su circa 20 casse, solo due sono aperte, tre o al massimo quattro nei giorni prefestivi.

La gestione prettamente familiare dei piccoli supermercati, invece, è certamente più distensiva e rispettosa dei diritti dei dipendenti. Quanti sono i piccoli supermercati aperti anche la domenica? Se lo fanno, probabilmente, è per volontà, non certo per costrizione calata da un lontano e sconosciuto CdA, con cui i dipendenti non possono assolutamente rapportarsi.

4. I centri commerciali sottraggono suolo

Un centro commerciale di medio-piccole dimensioni è grande circa 15.000 mq, ossia un ettaro e mezzo di terra. A Segrate, vicino Milano, sorgerà presto ciò che viene definito il centro commerciale più grande d’Europa, con 185.000 mq, ossia quasi 20 ettari di terra. Moltiplica 15000 mq per 1000 (il numero dei centri commerciali attivi in Italia) e capiremo l’enorme quantità di terra sottratta per creare cattedrali dello shopping di cui, onestamente, possiamo farne a meno. Perché la quantità di terreno sottratto, ossia 1500 ettari (stima al ribasso) sarebbe sufficiente, se coltivata, a sfamare per un anno una Regione grande quanto il Lazio.

Curioso che in Lombardia si saluti con entusiasmo il nuovo centro commerciale (che sorgerà, spero di no, nel 2019), elogiandone la grandezza e il lusso, mentre al contempo il lungimirante Trentino delibera lo stop definitivo a centri commerciali di grandezza superiore a 10.000 mq, per tutelare e favorire il piccolo commercio e la vocazione montana. Il Trentino non è grande quanto la Lombardia, certo, ma dimostra – nel suo piccolo – che la terra è più importante del cemento e che i borghi vanno valorizzati, anche grazie alla vivacità del commercio cittadino.

5. Muore il centro cittadino

Il vero cuore di ogni città italiana sono le attività commerciali del centro che però stanno progressivamente morendo per molte ragioni. Un interessante studio di Confcommercio mostra come dal 2008 al 2015 in Italia, soprattutto al Sud, siano sensibilmente diminuite le piccole attività commerciali del centro contestualmente alla crescita delle attività di ristorazione e del commercio ambulante. Ciò vuol dire due cose: chi prima aveva un negozio molto probabilmente ha optato per l’attività di ambulante, con meno costi (ma più fatica…) e, a causa dell’aumento dei flussi turistici in alcune zone e del conseguente aumento del costo degli affitti, gli unici a potersi permettere un locale in centro sono i gestori di bar, ristoranti e fast food. E’ il caso di Lecce, citato da Confcommercio come città col peggior rapporto popolazione/numero di negozi, ma preda dell’assalto nel centro storico di locali di street food, che esasperano i piccoli commercianti. Ma basta guardare anche il caso di Matera che, come Capitale della Cultura 2019, paradossalmente sta cacciando via attività storiche e librerie per far posto a chi può permettersi affitti da capogiro.

La causa della morìa del piccolo commercio, però, è legata principalmente all’aumento vertiginoso negli ultimi anni dei centri commerciali, che hanno inglobato al proprio interno negozi di ogni genere, costringendo talvolta i negozi in franchising, spesso presenti in centro, a trasferirsi all’interno dei centri commerciali.

Il caso di Trieste

Tuttavia i gestori dei negozi del centro cittadino, spesso aiutati da una lungimirante politica locale, hanno saputo dare una risposta alla morìa del commercio in centro, grazie a innovativi servizi al cliente, tradotti nel concetto di centro commerciale diffuso. Il caso di Trieste è interessante e unico nel suo genere, ma molte città d’Italia – forti della cooperazione tra commercianti e con l’aiuto degli amministratori locali – hanno seguito l’esempio, fornendo servizi tipici di un centro commerciale…ma nel centro città.

Del resto ciò che un centro commerciale, seppur moderno, non è in grado di offrire è proprio il rapporto diretto, e spesso amicale, tra gestore del negozio e cliente: il rispetto delle esigenze del cliente, il servizio pre e post vendita, i consigli e i favori tipici del vecchio rapporto umano basato sulla fiducia, sono elementi che nessun centro commerciale può mai mutuare e che rappresentano la vera forza del negozio sotto casa.

Tra l’altro va sfatato il mito per cui i prezzi dei negozi del centro sono più alti rispetto ai centri commerciali. Al netto di promozioni, sconti speciali e fumo negli occhi, se si guarda bene a fondo, i prezzi non sono poi così diversi, ma l’assistenza, quella sì, non ha prezzo e spesso viene servita gratis dal negoziante sotto casa, insieme agli sconti, che i clienti – in una strana logica di forti con i deboli e deboli con i forti – pretendono dal negozietto del centro ma si spaventano a chiedere nel centro commerciale, anche quando si tratta di un paio di centesimi.