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Gig economy, chi sono i big che comandano il mercato del food

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Per molti la Gig economy è un’opportunità e un’innovazione, per altri, come il Ministro Di Maio, un settore da regolamentare con contratti collettivi o concertazioni con le Aziende. In realtà è solo una nuova veste di un modello che punta allo sfruttamento e che porterà l’economia reale alla stagnazione e a nuovi e sempre maggiori … Leggi tutto

Il GDPR spiegato semplice

GDPR

Il GDPR, acronimo di General Data Protection Regulation è il nuovo regolamento generale europeo sulla protezione dei dati (Regolamento UE 2016/679) che si prefigge l’obiettivo di tutelare in modo più stringente rispetto al passato la privacy dei cittadini europei e di chi risiede nel territorio europeo.

Il regolamento è già entrato in vigore nel 2016, ma sarà efficace a partire dal 25 maggio 2018, data in cui si presume che tutti i destinatari del provvedimento (ossia: Enti Pubblici, Imprese, professionisti, ecc.) si saranno adeguati alla normativa. Ma sappiamo bene che non è così e che a meno di un mese dall’inizio dell’applicazione del regolamento sono tante le persone che non ne conoscono l’esistenza o che ancora non si sono adeguate.

Quest’articolo nasce quindi dall’esigenza di spiegare in modo semplice le pratiche necessarie per adeguarsi al GDPR ed è rivolto soprattutto a micro imprese, artigiani e liberi professionisti che rappresentano la maggior parte del tessuto produttivo nazionale. Non toccherò argomenti che riguardano le PMI e le multinazionali, per cui il GDPR impone misure più stringenti, né mi rivolgerò a quelle imprese o start-up ad alto contenuto tecnologico che gestiscono numerosi dati personali degli utenti in modo da profilarli e rivenderli. L’obiettivo è quello di rivolgermi a tutti coloro che si trovano a trattare dati personali ma non ne fanno un business, ossia alla gran parte delle attività economiche italiane.

I principi del GDPR

Iniziamo col dire che i tre pilastri su cui si fonda il GDPR sono: il principio di accountability, un approccio ai dati by design e by default (tra poco ci torneremo) e una gestione preventiva in riferimento alla valutazione dei rischio e alla valutazione d’impatto sulla raccolta dei dati.

Altri principi del GDPR

Gli altri pilastri su cui si fonda il nuovo regolamento sono: Principio di liceità e correttezza del trattamento nei confronti dell’interessato (i dati devono essere corretti e ci dev’essere un consenso informato); Principio di trasparenza (i dati devono essere facilmente accessibili da parte del titolare e le comunicazioni devono essere chiare e comprensibili da parte di chi gestisce i dati); Principio di limitazione e di minimizzazione dell’uso dei dati (ossia occorre richiedere solo i dati strettamente necessari a fornire il servizio a cui l’utente è interessato); Principio di esattezza (i dati devono essere esatti e aggiornati qualora non lo fossero); Principio della limitazione temporale (i dati possono essere conservati per il tempo necessario a raggiungere le finalità perseguite da chi li tratta); Principio di integrità e riservatezza (i dati devono essere al sicuro e protetti da trattamenti non autorizzati oppure da eventuali danni).

A chi si rivolge il GDPR?

A tutti coloro che trattano i dati personali di fornitori, clienti, utenti, dipendenti, ecc. e che operano sul territorio europeo oppure al di fuori dell’Europa ma trattano i dati di cittadini e residenti nel territorio europeo. In altre parole, che tu abbia sede al di fuori dell’UE non importa, l’ambito di applicabilità del regolamento si estende a tutti coloro che hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con i dati di qualunque persona si trovi a risiedere sul territorio europeo.

Soggetti esclusi

Gli unici soggetti che non sono destinatari del provvedimento sono le persone fisiche che trattano i dati per finalità esclusivamente personali o domestiche nonché i Tribunali penali (e le procure) per finalità giudiziarie relative al perseguimento di reati.

Il principio di accountability

Questo è il principio cardine del GDPR. Si traduce con responsabilizzazione e significa che il titolare del trattamento dei dati (che spesso coincide con il titolare dell’Azienda) ha l’obbligo di dimostrare in modo documentale l’adeguamento alle prescrizioni del Regolamento mediante l’adozione di misure tecniche (per la sicurezza dei dati) e organizzative (politiche e procedure interne, formazione del personale, verifiche periodiche, ecc.) adeguate. In altre parole si può intendere come una sorta di inversione dell’onere della prova, per cui, a differenza del passato, spetta al titolare del trattamento dimostrare di aver messo in campo tutte le misure tecniche e organizzative necessarie per conformare l’utilizzo dei dati al nuovo regolamento. La normativa, detta in altri termini, dà per scontato che in caso di perdita o furto dei dati il responsabile è solo il titolare del trattamento e a lui toccano sanzioni molto pesanti (ci torniamo tra poco).

Tuttavia il regolamento non dà indicazioni precise su quali siano le misure pratiche da adottare, ma lascia intendere che si dovrà valutare caso per caso, in base alla tipologia di organizzazione, alla natura e alle finalità dei dati raccolti.

Privacy by design e Privacy by default

Sono due principi che, di fatto, applicano il principio di accountability. Nonostante l’anglofonia ostica, vogliono dire semplicemente che bisogna adottare tutte le misure di protezione dei dati sin dalla fase di progettazione del trattamento e che i dati vanno utilizzati, per impostazione predefinita, al solo fine per cui sono stati raccolti. Così non è chiaro? Facciamo un esempio chiarificatore in relazione ai due principi.

Privacy by design

Se tu hai intenzione di aprire un e-commerce, prima di farlo dovrai stilare un documento in cui raccoglierai tutte le tipologie di dati personali che intendi raccogliere (es. nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, email, ecc.) e indicare in che modo intendi raccogliere e proteggere questi dati (es. dicendo che li terrai su un server sicuro oppure li passerai sul tuo gestionale e, in tal caso, dovrai dire chi accede a questi dati, come sono conservati e quali protezioni stai usando in caso di un eventuale attacco hacker).

Privacy by default

In questo caso dovrai creare un documento in cui dici che i dati che raccogli sono finalizzati solo per uno o più scopi per cui tu hai dato l’informativa all’utente. Ad esempio, se l’utente ti contatta attraverso il form di contatto del tuo sito, dovrai scrivere che, di default, i dati che raccogli serviranno solo a ricontattare il cliente e a proporgli i tuoi prodotti/servizi, mentre non userai quei dati per mandargli newsletter, sempre se non ha espresso un esplicito consenso a questo tipo di trattamento. Parimenti non userai i suoi dati per vendergli pubblicità di terze parti, sempre se non lo hai reso edotto nell’informativa. Insomma, dovrai standardizzare il processo e usare quei dati solo per le finalità che ti sei prefissato e per cui hai scritto un’informativa chiara.

La valutazione del rischio

Questa è un’altra operazione che dovrai fare per rispondere al principio di accountability. In caso di un ipotetico data breach (rischio di perdita, distruzione o diffusione indebita, ad esempio a seguito di attacchi informatici, accessi abusivi, incidenti o eventi avversi, come incendi o altre calamità) come fai a recuperare i dati o a contattare gli utenti per dire loro che i dati sono andati persi o sono stati rubati? Quest’evento – anche se ipotetico e molto remoto – dovrebbe essere preventivato e scritto su carta. In altre parole devi indicare tutte le misure e le garanzie previste per una adeguata protezione dei dati personali trattati. Come farlo? Anche se sembra complicato è semplice. Rifletti: Qual è la natura dei dati che potrebbero essere violati? Quanto gravi potrebbero essere i danni  causati agli individui a cui i dati violati si riferivano? Se effettui una copia di backup almeno una volta al mese, se hai adottato protocolli di sicurezza (https) sul tuo sito web, se ai dati che hai sul gestionale non accede nessuno tranne te, allora sei apposto. Devi solo riportare su carta quello che già fai e valutare l’impatto di un eventuale (remoto) attacco nei tuoi confronti o di un’eventuale perdita di dati a seguito di un evento insolito. In altre parole devi solo valutare un ipotetico rischio e scrivere quali possono essere le cause e quali le conseguenze.

Se poi il data breach accade davvero, la norma impone che occorre comunicare la violazione all’autorità di controllo (il Garante della privacy) entro 72 ore dal momento in cui ne sei venuto a conoscenza.

Come adeguarsi al GDPR in sintesi

L’adeguamento al GDPR ti porterà via si e no mezza giornata di lavoro. Quello che dovrai fare è semplice: fermati a pensare ai dati personali che tratti: clienti, fornitori, utenti del sito web, dipendenti. Poi pensa alla natura dei dati: nome e cognome? Indirizzo? Numero di telefono? Fai una lista della tipologia di dati che tratti e metti tutto per iscritto su un foglio excel (lo chiamano registro del trattamento, obbligatorio per aziende con più di 250 dipendenti, ma comodo per te da usare in quanto è un buon promemoria per adeguarti alla normativa). Poi su un foglio word scrivi come utilizzi quei dati. Devi solo scrivere che, per esempio, i dati degli utenti che ti contattano per ricevere un preventivo saranno usati al solo scopo di inviare il preventivo. Nulla di più e nulla di meno. Dirai, nel documento, che di default (cioè in modo predefinito) tutti i dati di quelli che ti contattano per avere un preventivo saranno usati al solo scopo di inviare il preventivo. Se hai più mezzi per ottenere dei dati, lo metterai su carta. Scriverai, per esempio, che i dati degli utenti ti arriveranno da:

  • form di contatto
  • ordine sul sito web
  • ordine telefonico
  • ordine da email
  • altri sistemi

Fatto ciò dovrai scrivere sullo stesso foglio word in cui dirai ogni quante volte effettui un backup dei dati, dove li salvi e chi può accedere a quei dati. Poi dirai i sistemi che usi per conservarli. Ad esempio scriverai che salvi i tuoi dati su un hard disk esterno e che lo conservi gelosamente nel cassetto della tua scrivania a cui tu solo puoi accedere. Poi scriverai che in caso di potenziale attacco hacker o potenziale danneggiamento sul tuo sito web il rischio di perdita dei dati è minimo perché, in fondo, gestisci solo dati non sensibili, ma generici (cosa se ne fa un hacker di un indirizzo di consegna?). Ad ogni modo dovrai scrivere come prevedi di risolvere la faccenda in caso di perdita o furto dei dati degli utenti con cui interagisci.

Infine, se sul tuo sito web hai diversi mezzi di ottenere i dati (ad esempio un form di contatto e un carrello con cui accetti gli ordini) dovrai rilasciare un’informativa specifica per ogni sistema di acquisizione dei dati e scrivere quali sono le finalità dell’acquisizione e come tratterai i dati. Tra l’altro, per ogni informativa dovrai rendere edotto l’utente che è suo diritto accedere ai dati, rettificarli, cancellarli, ecc.

Se sponsorizzo la mia azienda su Google Adwords o su Facebook ads che succede?

Il GDPR ha espressamente impostato un bilanciamento d’interessi tra il diritto degli utenti e l’interesse dell’Azienda a fare marketing diretto. In altre parole possono essere trattati i dati di utenti in caso di pubblicità sui social o su google, salvo obbligare il titolare del trattamento alla minimizzazione dei dati, per cui si dovranno usare quanti meno dati possibile per la finalità del trattamento. Insomma, il nuovo regolamento mette l’utente nelle condizioni di compiere un consapevole esercizio dei poteri di controllo sui propri dati, garantendogli il diritto all’informazione, all’accesso, alla rettifica, alla cancellazione, alla limitazione del trattamento e il diritto di opposizione dei dati che lo riguardano.

Sanzioni

Le sanzioni sono pesanti. Il regolamento dice: fino a 10 milioni di euro o fino al 2% del fatturato mondiale annuo se superiore. In caso di violazione degli obblighi del titolare o del responsabile del trattamento fino a 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato mondiale annuo se superiore (e non il 2% o 4% del tuo fatturato, come qualcuno sostiene…). Sembrano cifre assurde, ma è capitato in passato di assistere a sanzioni comminate a piccole aziende per importi di 10.000,00 euro solo perché non avevano rilasciato un’informativa sull’uso dei cookie. Quindi non è detto che si arrivi a cifre così elevate, ma anche 1.000,00 euro di multa sono pesanti se rivolte a micro imprese.

Io non tratto dati personali

Ne sei sicuro? Il regolamento si rivolge a tutti coloro che, anche incidentalmente, trattano i dati delle persone. Quindi, per esempio, se hai un locale di generi alimentari con un impianto di videosorveglianza, dovrai adeguarti al regolamento seguendo le prescrizioni imposte a tutti gli operatori a cui è rivolto. Lo stesso vale per i dati di eventuali dipendenti o dei fornitori. Quindi il GDPR non si rivolge solo a realtà che operano su internet, ma a tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con i dati delle persone, inclusi quelli biometrici. In buona sostanza, se hai installato un impianto di videosorveglianza nel tuo negozio, dovrai adeguarti al nuovo regolamento, valutare i dati che raccogli e rilasciare un’informativa adeguata.

GDPR e Codice della Privacy

Come dice il proverbio? Fatta la legge, trovato l’inganno. Il nostro codice della Privacy (D.Lgs. 196/2003) sarà abrogato, perché i regolamenti dell’UE sono, per loro natura, direttamente applicabili presso gli Stati membri. Però tra le fonti normative sono, di fatto, sullo stesso piano delle leggi ordinarie dello Stato italiano. Quindi che succede? Succede che al momento il GDPR non sarà ancora applicato in quanto è necessario che il Parlamento crei una legge di raccordo tra la vecchia e la nuova normativa, soprattutto nelle parti in cui confliggono. Quindi, di fatto, finché non ci sarà un provvedimento normativo ad hoc il GDPR non dispiegherà tutti i suoi effetti e, paradossalmente, sarà ancora in vigore il D.Lgs. 196/2003. Difatti il 21 marzo 2018 il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legislativo che introduce disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento, ma ancora non è stato ultimato l’iter di approvazione nelle commissioni parlamentari e in aula. Comunque è sempre bene arrivare preparati all’appuntamento e non c’è niente per cui preoccuparsi. Il GDPR, per le micro imprese e per i professionisti, sarà un’occasione per riflettere sui dati che raccogliamo e su come li trattiamo. Il resto sarà solo vuota burocrazia finalizzata ad accontentare una normativa che per i piccoli imprenditori è solo una lieve perdita di tempo.

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Vuoi realizzare un sito web? Ecco come riconoscere un vero professionista

google seo sito web

Oramai oggigiorno se non sei presente in rete non ti conosce nessuno. Questo lo sappiamo più o meno tutti e soprattutto le Aziende. Con un sito web è possibile trasformare una piccola realtà locale in un brand internazionale, anche grazie alla capacità della rete di superare i limiti geografici.

E’ sufficiente, in linea di massima, aprire un sito web e uno o più profili sui tanti canali Social, in breve tempo e soprattutto gratuitamente.

Ma c’è un problema.

Rispetto a 10 anni fa il numero dei siti web presenti in rete è decuplicato. Basti pensare che solo gli e-commerce, dal 2010 a oggi, sono aumentati del 25% mentre i siti vetrina, le landing page e i blog sono aumentati del 78%. La rete offre numerose opportunità, ma per emergere e per farsi conoscere è necessario investire numerose risorse, non solo economiche, ma anche in termini di tempo e di competenze. Inoltre bisogna valutare un altro aspetto essenziale sulla presenza in rete, ossia che gli utenti del web oggigiorno vengono continuamente bombardati da contenuti, spesso commerciali, con conseguente calo di attenzione su contenuti ritenuti poco interessanti o comunque poco influenti, specie se pervenuti da brand poco noti.

In poche parole…

Che tu sia un imprenditore affermato localmente o un hobbysta che vorrebbe trasformare la sua passione in attività imprenditoriale o un artista che vuole far conoscere le sue opere al Mondo, devi per forza investire sulla rete, o con il sito web o con un canale social o, meglio, con entrambi.

Sono cambiati i tempi, è cambiato il mezzo, ma la meccanica resta sempre la stessa: se non investi, soccombi.

La pubblicità ai tempi del Marketing tradizionale

Una volta per far conoscere un’Azienda (o qualsiasi altra attività) occorreva investire un certo budget in pubblicità: dalle inserzioni sui giornali al volantinaggio ai manifesti sparsi per le città per poi passare alla radio, alle TV locali o nazionali, in base al budget e alla strategia di crescita aziendale, c’erano soluzioni di ogni tipo. A occuparsi di ciò ci pensava quasi sempre un’Agenzia specializzata in pubblicità, soprattutto quando l’Azienda si proponeva sul mercato nazionale o internazionale.

Oggi cos’è cambiato? Nulla. Sono cambiate le forme con cui fare pubblicità, ma la filosofia di fondo resta: senza investimenti in marketing non ti conosce nessuno. Oddio, per fortuna con il web è molto più economico – rispetto al passato – fare pubblicità e c’è un’unica, sostanziale, differenza rispetto alle forme di pubblicità di massa tipiche dei media tradizionali: ti puoi rivolgere ad un pubblico specifico (in gergo si dice profilazione), con conseguenti notevoli risparmi in termini economici e maggiore efficacia del ritorno d’investimento (in gergo si chiama ROI).

Il famoso cuggino che fa il sito web con pochi soldi

Per anni si è radicata l’idea che per operare on-line occorre munirsi di un sito web fatto da soli o, al più, dal famoso cuggino informatico che te lo fa per 200 euro, nella becera concezione per cui “tanto basta fare il sito, piazzare due immagini e mettere la mappa per vendere dappertutto”. Già, perché un professionista che ti chiede cifre alte per un sito web sembra un ladro in quanto in Italia c’è l’idea che il lavoro intellettuale non ha un valore economico e va regalato.

La diffusione dei Social, poi, ha amplificato questa concezione, anzi, per molti avere un sito web è sembrato persino inutile: “Tanto vendo su Facebook o su Instagram. Mi apro il profilo, pubblico le foto, i prezzi, faccio un’inserzione ogni tanto e vendo”. In realtà i Social non sono concepiti per vendere (anche se ultimamente si stanno aprendo ai Marketplaces) bensì per far interagire Aziende e utenti, per ampliare la web awarness e la web reputation nonché per attività di remarketing.

I Social, insieme ad una sapiente attività di posizionamento web e di link building, sono un ottimo strumento per far veicolare il brand, ma sono solo un sistema marginale per vendere direttamente. Chiunque pensi che sia sufficiente avere un profilo o una pagina su Facebook, uno su Instagram e un semplice sito web vetrina fatto in modo amatoriale, senza una precisa strategia, senza prevedere investimenti e senza un piano di marketing digitale, prima o poi finirà per dire che su internet non si vende e darà la colpa alla concorrenza, ai cinesi, al sovraffollamento della rete, persino a Google che lo posiziona in ultima pagina, piuttosto che a sé stesso.

Lo stato delle cose al giorno d’oggi

Difatti con l’aumentare della popolazione di siti web diminuisce esponenzialmente la possibilità di emergere, soprattutto oggi che i motori di ricerca filtrano i risultati sulla base di complessi algoritmi che tengono in conto di numerosi fattori tra i quali: la presenza di contenuti originali e in linea con quanto cerca l’utente, la presenza di parole chiave coerenti e omogenee, una struttura del sito fatta bene e che rispetta le regole in relazione al SEO (con tutti gli attributi inseriti), la velocità e la reattività del sito web, la presenza di un codice scritto bene e senza errori o ridondanze, la presenza del protocollo di sicurezza e tanto altro ancora. Sulla base di questo complesso rapporto ecco che alcuni siti web vengono mostrati prima degli altri e, nei casi peggiori, alcuni siti web non compaiono affatto nella SERP di Google.

E’ evidente che non comparire sui motori di ricerca significa non esistere affatto, con l’ovvia conseguenza che non venderemo mai i nostri cappotti fatti a mano o quell’ebook che abbiamo scritto con tanta passione.

Per ovviare a questo problema ci sono soluzioni a pagamento come la pubblicità pay-per-click, ma siamo sempre punto e a capo: se arrivi al punto di pagare per la pubblicità su Google vuol dire che hai fatto bene tutto il resto. Non attivi la pubblicità a pagamento se non hai una chiara strategia di marketing on-line.

Tempo e competenze o soldi?

Sia chiaro, non è proprio necessario pagare Google, Facebook oppure uno sviluppatore bravo o un’Agenzia di web-marketing per emergere sulla rete.

La rete, per fortuna, offre numerosissime fonti da cui imparare a fare tutto da soli, inoltre ormai ci sono molti servizi che offrono siti web già impacchettati e funzionali. Tuttavia non sempre queste soluzioni sono professionali e non sempre un imprenditore ha il tempo di imparare a fare tutto, anche perché, a dispetto di quanto si pensi, per operare in rete occorrono tantissime competenze in molti campi: dal linguaggio di programmazione (php, css, asp, java, ecc.) alle tecniche per fare buone foto, dalla capacità di scrivere testi leggibili (sia dagli utenti che dai motori di ricerca) all’editing video, dal SEO all’analisi dei dati, e tanto altro ancora.

Fare tutto da soli è possibile?

Si, ma occorre tempo e una buona dose di curiosità e voglia di imparare sempre cose nuove. Se manca il tempo o mancano le competenze (oppure non si riesce ad acquisirle) occorre prevedere un certo investimento in termini di denaro e rivolgersi a un professionista. Anzi, uno non basta, perché più è diventato complesso operare on-line e più si sono sviluppate figure professionali autonome: non è detto che uno sviluppatore di siti web sappia lavorare con il SEO o che un esperto di campagne promozionali su Facebook sia in grado di leggere i dati di Google Analytics (il più importante mezzo per studiare l’efficacia di un sito web). Dunque un solo professionista non basta, occorre rivolgersi a diverse figure.

Come riconoscere un Professionista valido

Per farlo occorre prima chiedersi: cosa voglio ottenere dalla mia presenza in rete?. Voglio più vendite? far veicolare il mio brand? Oppure che la gente scarichi e condivida le foto delle mie opere? Voglio che si iscrivano ad una newsletter per offrire loro le mie conoscenze sul settore in cui opero? O farmi conoscere da un pubblico locale perché ho – chessò – un’autocarrozzeria e voglio ottenere più clienti? Oppure voglio emergere sui mercati internazionali? Senza una chiara strategia sarà molto difficile trovare il professionista giusto e scartare quelli che non servono.

Questo è il primo campanello d’allarme: se trovi qualcuno che ti dice: ok, facciamo tutto noi senza nemmeno avergli spiegato di cosa hai bisogno (perché, forse, non lo sai ancora nemmeno tu…), allora hai di fronte uno dei tanti millantatori che ultimamente si spaccia per un professionista del web. Già, perché un asso piglia tutto che si occupa di sviluppo, grafica, campagne social, SEO-SEM, persino di stampa volantini è, molto probabilmente, solo un povero disperato che ha imparato a fare i siti con WordPress e ti farà solo perdere soldi (che a te sembrano pochi in confronto ad altri professionisti, ma sono solo soldi buttati).

Quindi armati di pazienza, cerca tanto e non ti fermare alla prima agenzia sotto casa che ti chiede poco e ti fa tutto.

Sviluppo sito web

Questo è il primo aspetto da considerare. Oggi troverai migliaia di agenzie o singoli sviluppatori che si occupano di realizzare siti web. Ma come riconoscere quelli migliori? Anzitutto fatti mandare il loro portfolio (cioè i siti che hanno già fatto). Come ti sembrano? Lascia perdere la grafica, concentrati sull’usabilità. Hai provato ad aprire uno dei loro siti con lo smartphone? Il sito è responsive (ossia si adatta alle dimensioni dello schermo)? Se non lo è, scartalo subito. Ancora, hai analizzato la velocità del sito? Con un semplice tool di Google (questo) puoi analizzare la velocità del sito e ricevere un rapporto dettagliato sui problemi da risolvere. Se non ha nemmeno ottimizzato le immagini, salutalo. Non è un professionista. Conosco gente che non si cura nemmeno di cambiare la favicon (ossia l’icona che trovi in alto a sinistra sulla scheda del browser) e mi basta questo per considerarli degli sfigati che si spacciano per professionisti.

Dunque nello sviluppo del sito devi tener presente:

  • velocità e reattività
  • usabilità (anche da mobile)
  • omogeneità strutturale
  • omogeneità grafica

Non importa se lo sviluppatore farà il sito da zero o userà un CMS (tipo Joomla, WordPress, ecc.), l’importante è che faccia un buon lavoro con un codice pulito, prestazioni accettabili e un’usabilità sia in termini di navigazione che di grafica.

SEO del sito web

Per molti pseudo-professionisti il SEO equivale solo a inguacchiare il sito di molte parole chiave buttate a casaccio nell’idea per cui più parole chiave si mettono e meglio è. In realtà Google e tutti i Big della rete stanno ormai abbandonando gradualmente il concetto di key-word per abbracciare una filosofia che porti a ottenere risultati sempre più vicini alle ricerche dell’utente. In altre parole stanno finendo i tempi in cui scrivevi “rivenditore caldaia Cagliari” e ti comparivano i risultati di negozi o e-commerce che dappertutto stanno meno che a Cagliari. L’esperienza utente è al centro dell’attività di Google e gli spider di Google vengono continuamente aggiornati in modo da premiare i siti con key-word omogenee e penalizzare i furbi. Quindi attenzione a chi tratta con leggerezza il SEO.

Fai una ricerca per immagini su Google e non compaiono i tuoi prodotti? Chiedi spiegazioni a chi ha realizzato il tuo sito e forse scoprirai che non sa nulla di SEO…

Quindi sul SEO devi almeno valutare:

  • tipo di parole chiave usate e coerenza con il testo
  • presenza di contenuti nei tag title, metatag title, metatag keywords, metatag description, alt image e image description
  • densità delle parole chiave all’interno del testo

Un buon professionista spiegherà il senso di tutto ciò e ti darà un sito web con tutti questi attributi compilati in modo coerente.

Social Media

Se ti rivolgi a un’Agenzia per migliorare la tua presenza sui social e ti farà un discorso del genere: “ti promettiamo 10.000 like in 3 mesi al modico prezzo di 1000 euro”, beh, scartala subito. I like o i follower sono importanti, certo, ma non così tanto come pensi. Perché tutto dipende da quella che è la tua strategia. Se a te interessa aumentare le vendite del tuo shop on-line non è detto che molti like faranno al caso tuo. Magari te ne serviranno pochi, ma mirati. Magari per te servirà una strategia di lead generation o di remarketing e non una volta a far conoscere la tua pagina o il tuo profilo.

Quindi se un’Agenzia ti promette tanta popolarità, magari senza ascoltare le tue esigenze, non è seria. Va scaricata. Inoltre fatti dire quante e quali campagne hanno già realizzato. Sai che su Facebook ci sono 11 format pubblicitari? Non esiste solo la sponsorizzazione di un post, ma se fanno solo quella, allora sono degli improvvisati esperti di campagne social. Poi, anche se Facebook è il social più grande in assoluto, non è detto che sia il solo che faccia per te. Ti hanno mai parlato di campagne di successo su Linkedin o su Twitter? Se ti propinano solo campagne Facebook, senza prima analizzare la tua attività e le tue esigenze, allora lo ribadisco: scaricali. Meglio perdere tempo per cercare altri professionisti piuttosto che perdere soldi.

Foto / Video

Se hai un e-commerce avrai sicuramente bisogno di fare le foto ai tuoi prodotti. A dispetto di quanto comunemente si pensi, le foto in still-life di prodotti inanimati sono quelle più difficili da fare. Anche in questo caso puoi fare le foto da te, ma prima pensa alla regola fondamentale di ogni e-commerce: senza una buona foto, non vendi. Non occorre essere Steve McCurry per fare buone foto. Occorre solo:

  • una macchinetta fotografica che abbia le impostazioni programmabili (tempo di esposizione, bilanciamento del bianco, ecc.), quindi anche una semplice compatta va bene. Escluderei l’uso di Smartphone
  • almeno 3 luci con lampadine della stessa temperatura (calde o fredde non importa, tanto con il bilanciamento del bianco s’aggiustano i colori)
  • uno sfondo neutro (anche un tavolino e una parete)
  • un programma di ritocco foto (Photoshop e Gimp sono i migliori)

Se non hai quest’attrezzatura o non hai tempo per fare le foto, devi rivolgerti a un professionista. In questo caso qualsiasi fotografo dovrebbe essere in grado di fare foto da studio fatte bene. Per capire se ha competenze di foto still life, fatti mandare una foto di un oggetto bianco (meglio se lucido) su uno sfondo bianco, che rappresenta la paura più grande di ogni fotografo! Se la foto ti sembra soddisfacente, assumilo pure!

Copywriting Contenuti nel sito web

Mai sottovalutare quest’aspetto. La scrittura di testi sul web è una vera e propria arte. Non si tratta solo di saper scrivere, ma di saper scrivere testi leggibili sia dagli utenti che dagli spider dei motori di ricerca! E’ un’arte che sta tra le capacità di scrittura creativa e le capacità di SEO. Inoltre avere dei contenuti originali sul web equivale a superare ogni forma di concorrenza. Evita il copia-incolla, sia perché se ti sgamano ti possono contestare la violazione del copyright sia perché ogni forma di copiatura può essere segnalata a Google con la punizione di vedersi scendere il sito sulla SERP. E questa è la peggiore delle punizioni!

Trovare un professionista che sappia scrivere dei testi efficaci non è facile, ma la maggior parte delle volte questa figura coincide con l’esperto di SEO-SEM.

In conclusione

Mi auguro che questi semplici suggerimenti possano esserti utili per scegliere con cautela e consapevolezza a chi rivolgerti, perché lavorare sulla rete offre molte opportunità, ma oggigiorno offre anche tante fregature, soprattutto per chi si rivolge con leggerezza all’Agenzia sotto casa, senza una precisa strategia e senza molte conoscenze in materia. Quindi chiediti cosa vuoi ottenere, rifletti su quali sono le tue esigenze, poi cerca sul web e magari scoprirai che puoi fare tutto da te oppure che ti servirà l’aiuto di un professionista, ma quando gli spiegherai con chiarezza le tue esigenze, capirai da te se è un dilettante oppure un esperto e ti stupirai di quanto ti sarà facile intuirlo, perché quando sarai in grado di sapere ciò che ti occorre, sarà una passeggiata capire se chi hai di fronte può soddisfare le tue richieste oppure no.

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Le Aziende italiane e la lenta digitalizzazione

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Oggi tutti parlano di Industria 4.0, ma molte Aziende sono ancora ferme a vecchi modelli di business. La digitalizzazione? Per molti è solo una pagina su Facebook e messaggiare con i clienti tramite WhatsApp.

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Quello che vedete in foto è Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico sotto il Governo Gentiloni. L’ultima sua iniziativa a favore della digitalizzazione delle imprese italiane è stata l’istituzione di un voucher a fondo perduto finalizzato all’adozione di interventi di digitalizzazione dei processi aziendali e di ammodernamento tecnologico. Con quest’iniziativa il Ministero intende finanziare tutte le imprese italiane, che ne facciano richiesta, per attività volte a:

  • migliorare l’efficienza aziendale;
  • modernizzare l’organizzazione del lavoro, mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici e forme di flessibilità del lavoro, tra cui il telelavoro;
  • sviluppare soluzioni di e-commerce;
  • fruire della connettività a banda larga e ultralarga o del collegamento alla rete internet mediante la tecnologia satellitare;
  • realizzare interventi di formazione qualificata del personale nel campo ICT.

Il voucher copre la metà dell’investimento, fino a un massimo di 10.000 euro. E’ scaduto a metà febbraio e pochi giorni fa è stato pubblicato l’elenco delle aziende finanziate.

A fare richiesta del voucher digitalizzazione sono state quasi 95.000 imprese.

Questo dato mi ha fatto riflettere.

L’Italia conta 4.400.000 imprese attive (fonte ISTAT). Cioè, quasi 4 milioni e mezzo di imprese che funzionano (perché di imprese inattive ce ne sono molte di più). Ciò significa, all’incirca, un’impresa ogni 13 abitanti, anziani e bambini inclusi. Un così alto numero d’imprese è sempre un buon segno, perché – nonostante la crisi economica degli ultimi anni – dimostra che da Nord a Sud ci sono tanti italiani che hanno voglia di fare impresa e di mettersi in gioco. Ma il dato delle Aziende che hanno partecipato al bando è significativo di quanto siano ancora poco avvezze al concetto di digitalizzazione. E attenzione, perché il bando non imponeva alcun tipo di vincolo, quindi poteva partecipare chiunque.

Ora, a parte l’ovvia considerazione che molte imprese abbiano rinunciato a partecipare al bando per via del misero importo finanziato (solo 100 milioni di euro) oppure per evitare le solite rogne burocratiche legate all’ottenimento del voucher, c’è però da dire che il 2,2% delle imprese attive che hanno partecipato al bando è un dato estremamente basso rispetto alle aziende sconfortate e quindi va letto in un’ottica diversa, ossia che le aziende italiane, soprattutto quelle vecchie e quelle B2B (ossia imprese che si rivolgono solo ad altre imprese), sono ancora solidamente ancorate a stantie logiche di business.

Basta farsi un giro tra i siti web di imprese B2B, che, per esempio, hanno come business la produzione di macchinari per altre imprese. Siti vecchi e statici, lenti, con immagini minuscole e chiaramente non adatti alla navigazione mobile. Se provi a contattarli dal form (quando c’è), non ti rispondono mai. Segno che non guardano la mail oppure non fanno manutenzione al sito web.

Insomma, molte grandi Aziende B2B guardano a internet come a una semplice vetrina, senza curarsi dell’interazione con vecchi e potenziali nuovi clienti.

La mail, questa sconosciuta

Le mail sono il mezzo più veloce ed economico per comunicare con un’Azienda. Eppure ci sono moltissime aziende che non le usano, perché preferiscono i vecchi metodi di contatto con i clienti: telefono e appuntamenti dal vivo. Chiedere loro di farti mandare un listino via mail è cosa impossibile. Ti diranno: fissiamo un appuntamento. Se tu vivi a Torino e l’Azienda è di Napoli, qual è il vantaggio in termini economici e di tempo? Tu o loro spenderete inutilmente soldi e tempo per un appuntamento dal vivo che si sarebbe risolto con l’invio di una mail.

Ultimamente, però, con l’avvento di WhatsApp, le Aziende hanno saltato a piè pari i mezzi canonici del web rappresentati dalle mail, passando direttamente al sistema di messaggistica tramite smartphone. Molti però ne fanno un uso così promiscuo da inviarti, insieme al materiale lavorativo, anche le foto dei loro figli o le meme più stupide che ricevono da amici e parenti. Anche questo è un segno di quanto molte Aziende, anche grosse, non hanno idea delle potenzialità della rete e non sanno distinguere la realtà lavorativa da quella personale.

Il commercio e il manifatturiero

Il maggior numero di imprese attive in Italia fanno parte di queste due categorie: commercio e manifatturiero. Le prime sono circa 1 milione, mentre nel manifatturiero (che comprende il famoso e celebrato Made in Italy) sono attive più di 300 mila Aziende. Se nel settore del commercio si registra un più vivace utilizzo dei canali web (in particolare siti di e-commerce e vetrine social), il manifatturiero soffre ancora di un abisso mostruoso in termini di innovazione. Gran parte delle Aziende hanno attivo solo un canale social e un sito web realizzato con vecchie metodiche e aggiornato solo (e forse) nell’aggiunta di nuovi prodotti. Il mobile-friendly, per queste Aziende è ancora un concetto sconosciuto e le comunicazioni avvengono solo tramite WhatsApp. Altro che digitalizzazione.

Il famoso “cuggino”

L’idea che internet sia un qualcosa che “forse funziona, ma boh?” è esplicitata dal fatto che numerosissime Aziende si rivolgono a improbabili e improvvisati sviluppatori per farsi fare il sito web, nell’ottica del maggior risparmio possibile e con l’idea che “il sito ce l’hanno tutti, me lo faccio anch’io, ma voglio spendere poco”. Se uno sviluppatore serio, consapevole del lavoro che c’è dietro la creazione di un sito web efficace, arriva a chiedere anche 10.000 euro per realizzare un lavoro fatto ad arte, un Imprenditore poco avveduto penserà che tale richiesta è una truffa, in quanto il cuggino (o l’amico o lo sviluppatore paesano, che ha aperto un’agenzia improvvisata) ha chiesto solo 500 euro. Ed è così che ci si ritrova con siti fatti in 5 minuti con Joomla o WordPress, senza alcuna ottimizzazione, senza alcun lavoro sul SEO e senza curarsi nemmeno di cambiare la favicon. Alla lunga, quando il nostro Imprenditore si accorgerà di non vendere nulla su internet, dirà che internet non funziona, che il suo prodotto non funziona sulla rete e che è inutile spendere soldi per il web-marketing. Non penserà che il cuggino ha fatto un lavoro da schifo e ha solo fatto perdere 500 euro all’Imprenditore.

Forse è anche per questo motivo che molte Aziende hanno snobbato il voucher per la digitalizzazione, perché pensano che internet non funziona.

Non credo nelle sponsorizzazioni e su Facebook ci sto solo perché mi hanno detto che serve, ma non vendo

Tra le Aziende presenti in rete, molte hanno deciso – ultimamente – di aprire una fan page su Facebook, perché boh? lo fanno tutti e pure io. Chiaramente, senza una strategia, senza una visione di ciò che l’utente del web cerca, senza budget e senza misurazioni dei risultati, non si va da nessuna parte. Ecco che ti ritrovi brand famosi (o comunque radicati nella realtà produttiva di un territorio e noti in zona) con 400 like o pagine che hanno speso un mucchio di soldi per promuoversi su Facebook, con 10.000 like ma zero interazioni.

E’ chiaro che con queste politiche di marketing non venderai. Perché in rete l’utente cerca informazioni, divertimento, coinvolgimento. E se tu, Azienda, pensi di comunicare usando vecchi sistemi di marketing, non otterrai mai un lead, ossia una conversione da utente a potenziale cliente. E’ il meccanismo ad essere diverso da come lo si interpretava fino a un decennio fa e non è così difficile da interpretare, basta solo pensare che la gente, su internet, e soprattutto sui social, non è un telespettatore a cui propinare passivamente una pubblicità, ma un utente attivo, che cerca, che confronta, che si informa e chiede rassicurazioni. Sarà per questo che Facebook ultimamente dà importanza al tempo di risposta dei messaggi o che Google propone i risultati più pertinenti alle ricerche degli utenti.

Giusto per concludere…

Con un paradigma da web 1.0 o da “al massimo uso WhatsApp per comunicare con i miei clienti”, non si va da nessuna parte.

Quindi, sì, internet funziona, per quasi tutte le categorie merceologiche. Insomma, puoi vendere di tutto. Però va usato con approcci diversi dal vecchio sistema di marketing e soprattutto va usato secondo metodiche nuove, più rivolte alla comunicazione, alla personalizzazione, al rapporto diretto con gli utenti. Ma mi rendo conto che questo tipo di approccio sarà adottato dalle nuove generazioni di imprenditori, perché quelli attuali sono ancora presi dal dare colpa alla crisi, mentre inviano ai propri clienti, su WhatsApp, l’ultimo video del criceto affamato e non immaginano quanti vecchi e potenziali clienti li bloccano, erodendo quote di fatturato e reputazione on-line. L’unica che oggi conta.

 

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Trump e i dazi. Ha fatto bene o no?

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Ogni mattina, quando mi sveglio, corro a leggere il giornale per scoprire – oltre alle divertenti news riguardanti l’intricata matassa della politica interna – le ultime trovate di Donald Trump. Mi diverte troppo. Tuttavia l’ultima sua trovata, quella di imporre dei dazi doganali alle importazioni di acciaio e alluminio, rispettivamente del 25 e del 10%, … Leggi tutto

iPhone X e le nuove frontiere del controllo sociale

iPhone-X

Mi chiedo se gli utenti Apple che acquisteranno il nuovo iPhone X sappiano quanto è paradossale spendere tra 1189,00 e 1359,00 € (questo è il range di prezzo imposto da Apple) per comprare un telefono che ha installato una tecnologia per il riconoscimento facciale. Detto in altri termini, davvero ci sarà gente che spenderà uno stipendio mensile (per alcuni anche lo stipendio di 2 mesi…) per dare la possibilità ai giganti dei Big Data di farsi controllare meglio?

Vediamo se così riesco a spiegarmi meglio.

Tutti ormai sappiamo che molte agenzie private o governative e quasi tutti gli hacker più talentuosi possono accedere con molta semplicità ai nostri smartphone e controllare praticamente tutto: gli accessi, i siti visitati, le app utilizzate e tutte le conversazioni fatte, la rubrica, l’agenda degli appuntamenti, le foto e i video e possono persino accedere alla nostra fotocamera e usarla come una sorta di “mezzo di intercettazione ambientale”.

Del resto le Iene, nel 2015 e nel 2016, hanno fatto quest’esperimento e hanno scoperto che è molto facile farsi “infettare” il telefono, anche tramite un messaggino innocuo (o uno script facilmente scaricabile se si visitano siti pericolosi o app non certificate) per cui il telefono può essere controllato senza che noi ce ne accorgessimo.

Sappiamo anche un’altra cosa. Se è vero che normalmente la Magistratura attua forme di intercettazione solo in caso di notizie di reato e in fase di indagini (con tutte le garanzie imposte dalla Legge) è anche vero che le agenzie di sicurezza governative non hanno questi limiti e che le Società di Big Data e gli hacker ne hanno ancor meno. Ognuno ha diverse finalità: i Governi (teoricamente) agiscono per sicurezza nazionale, le aziende di Big Data lo fanno (prevalentemente) per scopi commerciali (anche se ultimamente si stanno orientando verso forme di monitoraggio e controllo sociale…) e gli hacker? Beh, alcuni per finalità politiche, altri, invece, per vera e propria criminalità organizzata, se non peggio (il terrorismo, per esempio, oggi sta inseguendo queste nuove frontiere di controllo). Quindi è evidente che gli smartphone – quegli oggetti in cui ormai abbiamo messo tutta la nostra vita sotto forma di foto e video, contatti, applicazioni, conversazioni – rappresentano l’oro per tutti quei soggetti che – con le finalità più disparate – vogliono accedervi, controllare e, perché no, manipolare.

Ma finora c’è stato un limite. Non era possibile associare un nome e una storia (quella contenuta in ciascuno dei nostri dispositivi) ad un volto. Ora, con il nuovo iPhone X, ciò è possibile.

E’ vero che i vertici Apple hanno dichiarato che FaceId (la tecnologia per il riconoscimento facciale) non conserverà in un database i volti e che l’app, secondo Edward Snowden è robusta, ma è lo stesso Snowden che in un tweet, ha dichiarato che questa tecnologia sarà oggetto di abusi.

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Edward Snowden

Edward Snowden era tecnico della Cia e di recente ha pubblicato tutte le tecniche e i programmi di sorveglianza di massa che il governo americano e quello britannico attuavano all’insaputa di milioni di cittadini. Lui, per aver ricondotto questa tematica nell’alveo democratico, è stato costretto ad esiliare in Russia, in attesa di conoscere il proprio destino.

Sembra anche irrisorio il concetto per cui la tecnologia è robusta e non sarà preda facile di attacchi informatici. E’ scontato dire che l’informatica non è una scienza esatta né perfetta e che le falle si trovano sempre. Anche i sistemi più impenetrabili nascondono, nel proprio codice sorgente, qualche bug. Del resto l’informatica è un’attività umana e come tale non è mai esente da rischi.

Tanto non ho nulla da nascondere

Questa è la frase che sento dire più spesso quando parlo di Big Data, privacy e controllo sociale.

In effetti è vero. Queste tecnologie sono utili per finalità di sicurezza, per prevenire e contrastare i crimini o le attività terroristiche. Del resto una tecnologia simile, unita alla tecnologia di riconoscimento delle impronte digitali (e presto vedremo queste due tecnologie su tutti i dispositivi in commercio) è davvero utile per finalità di pubblica sicurezza. Ma dovremmo avere davvero il prosciutto sugli occhi se non dovessimo riconoscere che in questa materia ci sono Società gigantesche e lontane dalle regole democratiche che ne approfittano per mere finalità commerciali e per attuare esperimenti sociali di massa. E’ il caso di Facebook (qui ne ho parlato), di Google e di circa una trentina di altre Società che sfruttano i Big Data per riconoscere le persone, delineare i loro gusti e attuare pratiche commerciali volte a vendere. Ma non solo. Anche a orientare, persino manipolare.

E poi, diciamoci la verità, davvero ci fa piacere sapere che qualcuno di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza ci spia, ci profila, ci controlla e ci manipola? Davvero siamo impassibili davanti all’ipotesi che qualcuno conosca le nostre più intime faccende e le colleghi a un volto? Non parlo solo di banali scappatelle o litigi tra amici e familiari su WhatsApp o su Messenger di Facebook, ma sul nostro stato di salute, sulle nostre conversazioni che riteniamo intime, sui nostri desideri che non confessiamo, sulle nostre inibizioni che riteniamo di custodire nella sfera privata e su tutto ciò che fa parte della nostra interiorità.

Pensa a come questa tecnologia possa rendere facile la vita a un possibile regime dispotico e antidemocratico. Pensa a quanto sarà facile monitorare, associare delle conversazioni a un nome e un volto e poi imbavagliare con i modi più disparati le opinioni diverse dalla “cultura dominante”, pensa a quanto sarà facile controllare le comunità locali che magari lottano contro le decisioni del governo per la tutela del proprio ambiente e della propria salute, pensa a quanto sarà facile egemonizzare le diversità culturali, sociali, individuali, non solo da parte dei governi, ma soprattutto della cultura globalista.

E infatti siamo così convinti che rischiando di mostrare il nostro Io tramite un dispositivo non saremo poi preda dell’omologazione delle nostre individualità? Del resto l’omologazione culturale parte proprio dalla conoscenza delle diversità sociali e individuali e dalla loro lenta erosione. L’erosione che parte proprio da quel dispositivo con cui, forse, starai leggendo quest’articolo.

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Lo Stato privato

romano prodi privatizzazioni

La crisi economica scoppiata nel biennio 2006-2008 ha messo in luce le debolezze del Sistema-Italia e la capacità delle Istituzioni di far fronte all’indebolimento economico della classe media, ormai pressoché scomparsa. La crisi ha rappresentato la batosta finale, ma i presupposti c’erano ed erano sotto gli occhi di tutti: le privatizzazioni.

Quando uno Stato detiene il controllo dei servizi fondamentali e attua politiche tese a calmierare i prezzi dei servizi offerti, anche le peggiori crisi economiche possono essere superate, perché i cittadini possono comunque sempre contare su uno Stato Sociale che li tutela nei bisogni primari e nei servizi essenziali quali acqua, sanità, trasporti, energia, gas, ecc.

L’Italia, invece, ha scelto la strada dello smantellamento dello Stato Sociale e della privatizzazione di tutto, anche di ciò che compete ad uno Stato, come la Sanità e la Giustizia. Ma perché oggi ci troviamo a pagare (salato) qualsiasi servizio pubblico e a vederci negato persino l’accesso alla Giustizia e ai servizi minimi essenziali?

Facciamo un salto indietro.

La Storia delle privatizzazioni

Siamo agli inizi degli anni Novanta. Uno spudorato Romano Prodi, presidente dell’IRI, inizia lo smantellamento di un Ente che contava 500.000 dipendenti. Dovete sapere che l’IRI gestiva Alitalia, Autostrade, Finmeccanica, Fincantieri e Aeroporti di Roma, i quali saranno poi immessi sul mercato ad uno ad uno. L’IRI, ormai svuotato di ogni suo ramo, verrà messo in liquidazione il 28 giugno 2000.

Ora sapete perché Alitalia è in crisi (ma viene comunque “salvata” da contributi pubblici) o perché il pedaggio costa così tanto (ma le strade sono cantieri eterni): vengono gestiti in modo privato, ma – dato che le gestioni sono fallimentari – le SpA vengono poi aiutate dallo Stato.

Dopo è la volta del Credit (Credito Italiano), che godeva di ottima salute, dell’IMI e della Banca Commerciale Italiana (Comit), tutto tra il 1993 e il 1994. L’idea di Prodi era quella di “smantellare il Paese pezzo per pezzo” (così disse il 17 gennaio 1998 in un celebre discorso in provincia di Lecce). E infatti ci è riuscito. Nel luglio 1996 iniziano le prime privatizzazione dei servizi pubblici locali grazie alla costituzione di società per azioni in cui i Comuni possono partecipare solo con quote minoritarie.

Il 16 aprile 1997 viene privatizzato l’Istituto San Paolo di Torino.

Nel 1999 Massimo D’Alema prosegue il disegno staticida di Prodi approvando un disegno di legge che privatizza definitivamente i servizi pubblici locali. Tutte le aziende municipalizzate che erogano in regime di monopolio acqua, gas, elettricità, trasporti urbani, rifiuti urbani vengono trasformate in imprese private.

Nel gennaio 1998 il Parlamento liberalizza il commercio abolendo licenze e regole sugli orari. Poi è la volta della liberalizzazione della telefonia fissa (febbraio 1998) e dell’energia elettrica, fino alla privatizzazione dell’ENEL (1999).

A maggio del 2000 si provvede a liberalizzare il commercio del gas.

Poi è la volta delle TV. La legge Maccanico apre alla privatizzazione della RAI e di fatto salva le reti televisive di Berlusconi.

Infine, sempre nel 1998 le Ferrovie dello Stato vengono smembrate per poi costituire RFI (Rete ferroviaria italiana, pubblica) e Trenitalia (privata). Stessa sorte toccherà alle Poste, che diventeranno SpA.
D’Alema, non contento, si sbarazza anche di molti beni pubblici, tra cui il Foro italico e lo Stadio olimpico, passati nelle mani dei privati.

Le privatizzazioni così realizzate non si avvicinano nemmeno minimamente a quelle poste in essere dal governo Thatcher e dal governo Blair in Inghilterra (criticati per le politiche eccessivamente liberal). Tutto è in nome di un alleggerimento dello Stato che – invece – a distanza di 20 anni non è avvenuto e che, anzi, è sempre più indebitato ma privo degli Enti che, invece, avrebbero garantito ai cittadini molteplici oneri economici in meno. Insomma, se avessimo avuto ancora le Poste, i trasporti, l’energia, il gas e i servizi comunali ancora pubblici, non pagheremmo le tariffe esose che paghiamo oggi.

La Sanità privata e gli Ospedali chiusi

Il sistema sanitario nazionale, così com’è impostato oggi, non può essere soggetto a privatizzazioni, ma dato che il disegno di alleggerimento dello Stato è ancora in corso (prova ne è il fatto che Prodi, D’Alema e Bersani non sono ancora stati cacciati a calci nel sedere dalla politica), si deve comunque ridurre la spesa. E come? Semplice, costringendo le Regioni (oppure favorendo le Regioni) a chiudere gli Ospedali, nel nome dell’ottimizzazione delle risorse. Ecco che numerosi centri ospedalieri, anche di recente costruzione, vengono o chiusi o trasformati in centri di lungo degenza oppure in laboratori di analisi gestiti privatamente.

Se poi ci metti le liste d’attesa lunghissime, che arrivano anche a un anno, e i medici che ti “suggeriscono” la visita privata o l’analisi di laboratorio con pochi giorni d’attesa, allora la privatizzazione della sanità è un dato di fatto.

privatizzazioni sanità
Gli ospedali chiusi dal 2013. Articolo de La Stampa

La giustizia privata. Tribunali periferici chiusi. Mediazione

Nemmeno la Giustizia è esente da questo percorso di alleggerimento e privatizzazioni. La riforma della geografia giudiziaria, iniziata nel 2011, ha portato alla soppressione di 30 tribunali, alla chiusura dei tribunali periferici e a un drastico taglio degli Uffici del Giudice di Pace. Oggi è in discussione anche la chiusura dei Tribunali per i minorenni e del taglio di competenze per i Giudici di Pace. A questo disegno giustizicida va aggiunto un altro tassello: la creazione e l’incentivazione della mediazione, addirittura obbligatoria per legge per molte materie (persino per materia di risarcimento danni da circolazione stradale, cioè il 50% del carico giudiziario), ossia una branca delle privatizzazioni.

Cos’è la mediazione? è l’attività professionale svolta da un privato, in veste di arbitro terzo e imparziale, che cerca di far trovare un accordo tra le parti in lite. Insomma, il mediatore è un privato e la mediazione è una forma (oggi obbligatoria per molte materie) di risoluzione delle controversie alternativa a quella giudiziaria. Inutile dire che in questi anni le Agenzie di mediazione si sono moltiplicate a dismisura e che spesso il costo dell’accesso alla giustizia è più elevato rispetto alla mediazione. Questa, dunque, è una forma sottile di smantellamento del sistema giudiziario in Italia che, unita alla chiusura dei tribunali e allo svuotamento di funzioni del Giudice di Pace, mostra apertamente quale strada sta percorrendo lo Stato italiano in materia di giustizia.

I Trasporti privati

privatizzazioni trasporti

Se prima, per andare da Torino a Taranto, pagavi 40.000 lire oppure 25,00 € nei primi anni Duemila, oggi con quella cifra non esci fuori regione. E’ colpa dell’euro? No, è merito delle privatizzazioni. Trenitalia è il soggetto privato (ma aiutato dallo Stato quando i bilanci sono in passivo) che gestisce i trasporti su rotaia. Le rotaie sono ancora di proprietà degli Enti Pubblici, ma i treni non più. Le liberalizzazioni servivano a creare concorrenza, ma a distanza di 20 anni quanti imprenditori hanno investito nei trasporti su rotaia in Italia? Escludendo Italo (che fa poche tratte e i cui costi sono pressoché simili a quelli di Trenitalia), nessuno. Ecco servita la liberalizzazione: aumento spropositato delle tariffe e tagli indiscriminati delle tratte economicamente meno vantaggiose. Infatti prima i treni arrivavano ovunque, perché l’obiettivo non era la massimizzazione del profitto, ma l’offerta di servizi necessari, mentre oggi il Sud soffre i tagli delle tratte dovuti alle privatizzazioni, perché l’obiettivo di Trenitalia non è offrire un servizio, ma massimizzare il profitto. Quindi chi vive al Sud o in zone disagiate avrà sicuramente apprezzato la privatizzazione di un servizio così necessario.

Le Poste privatizzate

privatizzazioni poste

Poste Italiane SpA non ha grande interesse a continuare il servizio di consegna della posta, anzi, si sta concentrando soprattutto sui servizi finanziari, insomma, vuole diventare una banca, perché così i profitti sono più alti e i costi minori. Tra l’altro quello della corrispondenza è l’unico settore dove si è sviluppata una minima forma di concorrenza, con le poste private che svolgono gli stessi servizi a costi inferiori. Però, sapete, le pensioni le pagano ancora in posta, ma oggi i pensionati sono costretti a ricevere la misera pensione su un conto corrente e i bollettini, nonostante l’apertura degli sportelli Lottomatica di molti tabacchi convenzionati, continuano ad essere pagati in posta da molti utenti, sì, ma con commissioni che arrivano a 1,50 €.

Dunque mettiamo una famiglia che deve pagare il bollettino di: luce, acqua, gas e telefono. Solo di commissioni pagherà 6,00 €. E non parliamo del costo delle bollette. Anzi, ne parliamo ora ora.

Le privatizzazioni di energia, telefonia e il mercato libero

Con lo smantellamento dell’ENEL e di SIP sono nati, come ben sappiamo tutti, ENEL distribuzione (maggior tutela), ENEL Energia (mercato libero) e Telecom Italia (oggi venduta agli spagnoli), con l’intenzione di creare un mercato concorrenziale, ma nei sistemi capitalistici nostrani “concorrenza” è sinonimo di “fregatura”.

Oggi, rispetto ai primi anni 2000, paghiamo il 20% in più sia di corrente elettrica che di telefonia. Vero è che oggi si è aggiunta la voce “internet” alle spese telefoniche, ma è anche vero che in molti Paesi europei il costo dell’ADSL (o della fibra) è nettamente inferiore.

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Confronto prezzi ADSL in Europa. Fonte: SOS tariffe

Le compagnie telefoniche in regime di concorrenza in Italia sono diverse, ma se spulciamo le offerte, al netto del fumo negli occhi, sono pressoché uguali in termini di costi e si differenziano minimamente in termini di servizi offerti e di qualità del servizio. Per non parlare poi delle numerose fregature che si annidano nei caratteri minuscoli dei contratti, spesso sottoscritti senza essere letti e che riaffiorano solo all’arrivo delle prime fatture.

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Contratto telefonico e ADSL. Tra spese e spesucce, le iniziali 40,00 € a bimestre promesse dall’operatore telefonico diventano 61,80 €.

In materia energetica, poi, abbiamo raggiunto l’apice della fregatura con un regime di concorrenza basato su una componente minima e insignificante in fattura: la materia energia. Tutte le compagnie energetiche ci martellano la testa con sconti e offerte sulla materia energia, senza ovviamente specificare che il grosso da pagare in bolletta non è la materia energia, ma: trasporto, gestione contatore, oneri di sistema. Voci che in fattura risultano incomprensibili ma che rappresentano la maggior somma da pagare. Hai voglia a cambiare fornitore, i costi resteranno sempre altissimi!

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Notare il costo della materia energia e il costo delle “altre spese”. Lo sconto promesso dall’operatore è solo sulla materia energia, quindi un nonnulla.

Le privatizzazioni dell’acqua

Se l’acqua è un bene primario e comune, la sua gestione è privata. E se è vero che le Regioni possono controllarne la gestione, è anche vero che non possono legiferare sulla sua forma giuridica (quindi non possono rendere gli acquedotti Enti pubblici). La competenza spetta allo Stato. Lo stesso Stato che in questi anni ha privatizzato ogni cosa, ha privatizzato anche il bene più prezioso che abbiamo, con conseguenti aumenti di tariffe, tanto che in alcuni casi gli aumenti sono arrivati anche oltre il 200%.

Acqua bene comune. In Italia non più.

Lo Stato risparmia e ci guadagna (come fosse un privato)

Lo smantellamento dello Stato Sociale voluto da Prodi, D’Alema, Bersani e compagnia bella ha una duplice funzione: da un lato ha permesso di risparmiare sui costi degli Enti controllati dallo Stato, dall’altro ha favorito introiti maggiori sotto forma di IVA, contribuzione, imposte di bollo e altri emolumenti che ora queste aziende private versano allo Stato. Quindi oggi lo Stato da un lato ci risparmia e dall’altro ci guadagna. A rimetterci, chiaramente, sono i cittadini e gli utenti che hanno visto lievitare le tariffe, chiudere i servizi necessari e peggiorare, talvolta, gli stessi servizi a fronte di oneri maggiori.

Addio allo Stato Sociale

E’ ovvio che, con le privatizzazioni selvagge e rinunciando ad erogare tali servizi, lo Stato italiano ha smantellato lo Stato Sociale in favore di uno Stato liberista di stampo capitalista. Ma si tratta di una forma di capitalismo truccato, perché se è vero che nel capitalismo l’unico vantaggio che hanno i consumatori è rappresentato dalla concorrenza, è anche vero che in Italia la concorrenza è truccata, perché le aziende che si sono accaparrate i servizi pubblici fanno cartello (cioè si mettono d’accordo) oppure sono controllate dalle stesse persone, seppur con nomi diversi. Quindi si tratta di monopoli di fatto mascherati da regimi di concorrenza.

In questo quadro, l’unico “rimedio” predisposto dallo Stato è stato quello dell’istituzione del Garante della Concorrenza, un Ente che in Italia non ha alcun potere se non quello di comminare multe di lievissima entità a grandi aziende che non rispettano la concorrenza, che pagano volentieri le multe, tanto rappresentano una misera percentuale rispetto al fatturato.

Questa è stata l’unica concessione fatta dallo Stato a noi cittadini che, oggi, siamo costretti a pagare tanto per servizi pessimi in una realtà che andrà sempre peggio, visto che l’opera di smantellamento dello Stato Sociale sta continuando e presto ci vedremo negato persino il diritto a farci una passeggiata al mare o in campagna o in montagna senza pagare il pedaggio a Paesaggi per l’Italia SpA. Ma tranquilli, c’è pur sempre l’abbonamento annuale e se ti iscrivi alla newsletter avrai diritto a uno sconto del 5% sull’eccedenza dei passi consentiti.

 

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Non aprire quella partita IVA

steve jobs partita IVA
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Steve Jobs, il fondatore di Apple, in un discorso all’Università di Stanford nel 2005 disse la storica frase: “siate affamati, siate folli”, rivolgendosi agli studenti laureandi, per invogliarli a crescere e a creare idee e imprese.

E ci credo. Negli USA sta frase ha un senso, in Italia ne ha un altro, soprattutto per le Partita IVA.

“Siate affamati”

Tra INPS, IVA, anticipi IVA, irpef, commercialista, tenuta dei libri contabili, diritti camerali, fornitori, luce, acqua, gas, tasse comunali sull’immondizia, l’insegna, il suolo pubblico, oltre a tante altre spese quali commissioni sui bonifici, sulle transazioni, spese di C/C, corrieri, merce danneggiata, assicurazioni, spese pubblicitarie, costo carburante, affitti e registrazione del contratto (all’Agenzia delle entrate da corrispondere ogni anno) e altre spesucce varie, a chi ha una Partita IVA la fame viene davvero, ma non nel senso prospettato da Jobs.

“Siate folli”

Si, perché per aprire una Partita IVA, in Italia, devi essere davvero folle.

Anzi, non folle, devi essere proprio scemo.

Perché oltre alle spese devi sorbirti mille impegni, non hai nessuna garanzia sindacale, nessun tipo di ferie pagate, se ti ammali sono cazzi tuoi e, per racimolare qualche soldo in più, lavori anche con la febbre e anche durante le “ferie”.

Poi mettici i clienti assurdi, che ti chiedono le cose più disparate che, se non hai o non puoi avere, ci restano male e “ti cambiano”, poi – in questo quadro roseo – mettici anche la concorrenza cinese, Amazon, la Tunisia, la Spagna e tutti i paesi Extra-UE che, tramite simpatici accordi, fanno entrare roba (alimentare e non) a basso costo e ad alti profitti.

Mentre tu, piccolo imprenditore, ti smanetti ogni giorno per cercare di ridurre i costi, aumentare la produttività, ottimizzare i processi produttivi e cercare di restare a galla, riducendo sempre più il tuo guadagno netto (che, tranquillo, andrà via tra tasse, imposte, spese varie e i figli che ti chiedono l’ultimo Smartphone alla moda da 800 euro, dopo poco meno di 6 mesi dalle ultime 800 euro spese per lo Smartphone che è passato di moda).

Se questo non è essere folli…

La verità è che quello parlava facile, in America

Già, perché negli USA non esiste l’obbligo di avere un commercialista. Oddio, nemmeno in Italia, ma qui è così complesso il sistema fiscale che il commercialista è la prima cosa che devi cercare quando apri una Partita IVA.

Negli USA no. E’ solo un consulente, che ti aiuta, ma non è necessario. Poi, negli USA tu dichiari il tuo reddito il 15 aprile (e hai tempo per farlo entro il 15 ottobre, senza ravvedimenti onerosi, come in Italia…) e loro si fidano di quello che dici (a meno di eventuali controlli, e allora so’ cazzi, se menti).

Paghi più o meno il 15% di tasse (se sei ricco arrivi al 10%) e non hai a che fare con mille enti diversi (INPS, Agenzia delle Entrate, CCIAA, Comune, Provincia, Ente Nazionale per la fessadimammata, ecc.) e diecimila scadenze (ogni 3 mesi l’INPS, poi le scadenze di IVA e quelle degli anticipi IVA, poi la scadenza della spazzatura, della registrazione del contratto di affitto, della CCIAA e tante altre piccole e grandi scadenze).

Insomma, è facile dire “siate affamati, siate folli” in un paese che ti fa pagare una cippa di tasse e la dichiarazione la può fare un fesso qualunque.

La pressione fiscale al 70% per chi ha una Partita IVA

Se Steve Jobs fosse nato in Italia avrebbe mandato a quel paese l’Apple, lo sviluppo, la conoscenza e non avrebbe mai proferito simili parole agli studenti dell’Università di Camerino. Anzi, gli avrebbe detto: “siate raccomandati, siate nipoti (se potete), altrimenti emigrate e andate a fare i camerieri a Tenerife”.

Perché in Italia, anche se hai una buona idea, il fisco ti salassa. Arrivi a pagare fino al 70% di tasse e imposte e, di quello che ti resta, devi pagare affitto, luce, acqua, telefono, internet, arredi, merce e tutto l’occorrente per far campare l’impresa.

E attenzione, perché luce e telefono hanno costi più alti. Essì, solo in Italia funziona così: costano di più perché tanto “puoi scaricarti i costi”. Ma che mi significa? Io pago circa il 25% in più di energia elettrica e di telefono e ADSL solo perché posso scaricare i costi (neanche integralmente). E se mi trovo nel regime forfettario? M’attacco.

Oltre alla pressione fiscale, pure la concorrenza

Già, perché se hai un’attività che produce o commercializza prodotti agroalimentari, devi fare i conti con la concorrenza tunisina, spagnola, marocchina, che esporta nel bel paese le stesse cose che vendi tu, ma alla metà del prezzo.

E tu, per restare sul mercato, devi abbassare i prezzi. Ah, giusto, vuoi vendere prodotti di qualità e puntare su un mercato di nicchia? Giusto, si. Ma quanto ti costa in pubblicità? Quanto in packaging e hai fatto due conti su quanto ti costa l’internazionalizzazione? Per non parlare della merce che il corriere – chiaramente – ti danneggerà e dei costi di trasporto che una piccola impresa non riesce a sopportare.

Ah, vero, ci sono le associazioni di categoria che ti supportano nei processi di innovazione e internazionalizzazione…ah, no. Scusa, lasciamo perdere!

Hai un’e-commerce? Bene. Peccato che realtà come Amazon ormai monopolizzano il mercato e offrono prezzi bassi e spese di spedizione gratuite. Come fanno? Semplice, sfruttano i dipendenti.

Tu non lo puoi fare, sennò l’Ispettorato del lavoro ti fa un culo così, per non parlare del dipendente, che con una vertenza ti fa chiudere e si piglia pure le tue mutande.

Quindi devi abbassare i prezzi, essere concorrenziale, ridurre i tuoi guadagni. Per di più devi essere veloce nelle consegne, fornire un packaging all’altezza, il reso gratuito e forme sempre migliori di assistenza post vendita. Come? Non ce la fai? E allora t’attacchi.

Sei un piccolo commerciante? Eh, lo so, a pochi km dal tuo negozio hanno aperto un nuovo Hong Kong dove vendono di tutto a prezzi stracciati e la tua clientela, anche quella più fedele, ti ha mollato e ti ha tradito, affascinata dagli occhi a mandorla e dalle tenui cadenze cinesi dei dipendenti del mega negozio.

Provi a fare i saldi? Dovresti vendere i tuoi prodotti al 50% e andare sotto prezzo di costo, ma vabbè, pur di vendere…Peccato che nel tuo piccolo negozietto la gente non può passeggiare con i carrelli e non hai nemmeno l’aria condizionata e il wi-fi gratuito. Quindi che li fai a fare i saldi?

La verità è che siamo fottuti

C’è chi parla di “resilienza” come capacità di resistere agli urti della vita e chi parla di “innovazione” come capacità di aggiornare i processi produttivi e di vendita per adeguarsi ai cambiamenti del mercato, ma la realtà è una sola: la gente vuole la qualità, si, ma a prezzi cinesi.

La gente è tendenzialmente e generalmente stupida e se ne frega che tu offri prodotti di qualità, sei cortese e sei sul mercato dal 1921. Se ne sbattono. Vogliono la roba buona a pochi soldi. Tu non puoi offrirla (chiaramente), loro non possono averla (logicamente) e quindi tendono ad acquistare cagate a pochi soldi.

Puoi anche fare i salti mortali e dire alla gente che tu hai “la roba meglio”, ma non c’è molto da fare: la gente vuol spendere poco. Allora tu che fai? Ti butti sul mercato del lusso e di nicchia? Certo, puoi farlo, ma per entrare in mercati simili devi spendere tanto (più di quanto vale la tua casa già ipotecata o la tua macchina scassata che non vede ombra di meccanico dal 1999) e devi fare tanta attività di lobbying, cosa che tu non farai mai perché non riuscirai mai ad entrare nei “giri che contano”.

E allora rassegnati e cerca di sopravvivere finché…boh? Allora che fai? Entri in concorrenza con i cinesi? Peccato che i tuoi fornitori ti offrono la stessa merce a costi più elevati, i corrieri ti offrono gli stessi servizi a costi più elevati (e ti rimborsano 1 € al kg se rompono la merce…), il costo del dipendente è 10 volte tanto rispetto a un cinese e non puoi vendere a nero, perché il cliente (stronzo) ti chiederà lo scontrino con la faccia indignata (lo stesso cliente che dai cinesi non osa nemmeno chiedere un reso…).

La crisi…

Non è colpa tua che hai commesso l’insano gesto di aprire una Partita IVA, come non è colpa dei clienti o della “gente”.

Il fatto è che in questi ultimi 20 anni la classe media è scomparsa. Lo leggi su tutti i giornali e lo ascolti in televisione. Tutti lo dicono, ma tu lo stai vivendo sulla tua pelle: la classe media non c’è più.

E qual è la classe media? Erano quelli che non erano né ricchi né poveri, erano quelli che avevano uno stipendio discreto e si potevano permettere di togliersi qualche sfizio. Erano quelli che durante il finesettimana andavano a fare shopping e spendevano un po’ di soldini nei negozi del centro, durante la passeggiata e prima di andarsi a fare una pizza. Erano quelli che non dovevano spulciare i volantini del discount per trovare le offerte migliori, ma andavano all’alimentari sotto casa a fare la spesa senza badare ai prezzi. Semplicemente compravano quello che gli serviva.

Erano quelli che “il mio negoziante di fiducia non lo cambio, perché oltre ai prodotti mi fornisce assistenza, e poi è così gentile…”. Quella stessa gente oggi va a fare la spesa ai discount (solo quando ci sono le offerte), compra dai cinesi e se ne sbatte dell’assistenza e della gentilezza, al centro ci va sempre a fare le passeggiate, ma si limita a guardare le vetrine e a commentare con toni sbigottiti i prezzi (come se i commercianti fossero dei ladri) per poi prendere un kebab a 3 euro o, al massimo, una pizzetta, prima di tornare a casa.

E tu? Ti deprimi dentro al negozio vuoto d’inverno oppure metti la sedia fuori d’estate e guardi, sconsolato, il via-vai di gente che guarda distrattamente il tuo negozio, ma di entrare non gli passa manco per la testa.

Per concludere

Quindi, caro commerciante, piccolo imprenditore e mia cara Partita IVA, la colpa non è la tua. Semplicemente hai sbagliato periodo e paese in cui nascere e operare.

Tu fai tutto il possibile, ma non c’è rimedio a questa realtà. E lascia perdere gli articoli fake che ti parlano del tizio che non vuole pagare le tasse. Se lo fai tu, ti arrivano cartelle, ingiunzioni di pagamento, ufficiali giudiziari che – levati – te li toglierai di torno solo dopo 40 anni di trafile giudiziarie.

Lascia perdere pure le cazzate di escapologia fiscale propinate da trasmissioni del cazzo come Le iene. Sono cazzate, fumo negli occhi, inutili tentativi di prenderti in giro. Ma tu sei furbo e intelligente e lo sai, l’unica è chiudere o emigrare oppure sfruttare il sistema.

Ora parlo a te, giovane pieno di speranze e di talento. Vuoi aprire una Partita IVA in Italia? Sicuro? Se sei ancora sicuro, fallo. Sappi solo che ti aspettano piccole soddisfazioni e grandi sofferenze. Se ti piace soffrire, allora aprila. Non dire però che non te l’ho detto.

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