Antonio Verri, poeta visionario, contadino, umile ed eclettico, audace e provocatore, era un artista capace di mettere insieme, dal Sud del Sud dei Santi, intellettuali da ogni parte del mondo, radunati attorno ad un giornale dei poeti, autoprodotto in un territorio che, tra gli anni Settanta e Ottanta, era talmente tanto periferia da diventare il centro della produzione culturale poetica ed artistica d’avanguardia. Sul suo giornale hanno scritto nomi come Salvatore Toma, Rina Durante, Maurizio Nocera, Mario Luzi, Susana Degoy, Julio Cortazar, Piero Manni, Giovanni Bernardini, Beppe Lopez, V.S. Gaudio e tanti altri.
Antonio Verri è un poeta poco conosciuto dal “grande pubblico”, perché risente dell’isolamento culturale degli artisti nati e cresciuti nel Sud Italia. Ma non è sempre stato così. Negli anni Settanta e Ottanta riuscì, dall’estrema periferia d’Italia, ad imporre un progetto culturale di ampio respiro nazionale ed internazionale, coinvolgendo tutti i migliori intellettuali del Salento, per parlare di poesia, arti visive, cultura dominante e subalterna, in un’ottica di riproposizione delle culture “altre” alla stessa stregua della cultura egemone. In questo senso riuscì a ritagliare, per il proprio giornale, uno spazio sempre più credibile tra gli intellettuali militanti di allora, in tutta Italia e all’estero. Celebre fu il suo “esperimento” di proporre un quotidiano dei poeti, che riuscì ad arrivare, ogni giorno, per 12 giorni consecutivi, in diverse città d’Italia.
Le origini di Antonio Verri
Antonio Leonardo Verri nasce a Caprarica di Lecce il 22 febbraio del 1949. La famiglia, contadina, sebbene non avesse i fondi necessari per permettergli una vita agiata, si sforzò di mantenerlo agli studi, vista la sua propensione alla lettura e alla scrittura sin da giovanissimo.

Si racconta che da bambino, mentre i suoi coetanei erano fuori in strada a giocare, soprattutto in estate, lui preferiva divorare libri, che si faceva prestare da amici, conoscenti, dallo zio Leonardo, a cui era molto legato, o dalla biblioteca comunale.
Si iscrive all’università degli studi di Lecce, ma la frequenta solo per un anno, probabilmente a causa degli alti costi per mantenersi agli studi.
E’ in questo periodo che inizia la sua raccolta di poesie e mette in campo il suo primo, grande, progetto letterario: fondare una rivista.
A 28 anni, così, fonda e dirige la rivista «Caffè greco» (1977).
Perché Caffè greco?
Il giornale «Caffè greco» vede la prima stampa il 1 febbraio 1977. Qui Antonio Verri sente l’esigenza di gettare le basi della sua avventura letteraria, mettendo in risalto due forti tematiche: la voce degli ultimi e la poesia militante, intesa come poesia non puramente estetica, ma in grado di trasmettere un messaggio forte, di matrice sociale e politica. Fondamentali, per lui, furono le letture di Vittorio Bodini, Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini.
Il suo primo editoriale, citando Camus, recita:
La nostra giustificazione. La nostra sola giustificazione, e ne abbiamo una, la nostra sola volontà, è di parlare a sostegno ed in nome di tutti coloro che non possono farlo, di tutti coloro che sono ostacolati, di tutti coloro che sono deviati da false costruzioni storico-geografico-fisiche proprie del nostro Sud, del Salento in particolare. A sostegno di quella moltitudine, la nostra gente, che vivifica e sorregge il nostro discorso.
Vogliamo parlare un linguaggio chiaro (forse tutte le nostre disgrazie derivano dal non aver mai posseduto un linguaggio chiaro o almeno un linguaggio) ed aperto il più possibile.
Sulla nostra cultura raffinata e «superiore», sulla nostra vita intellettuale cristallizzata, sulle anticaglie, sui resti di una letteratura stagnante, sulle pubblicazioni inutili, sul sedimento culturale in genere non lanceremo strali futuristici, né vi daremo in pasto elucubrazioni sociali o sociologiche. Quel che vogliamo darvi è un “giornale incontro” in cui confluisca tutto ciò che c’è di buono e di vivo nel nostro Salento, con in più un programma di più varia cultura e di problemi e di presenze.
Non vogliamo fare letteratura, almeno non di quella che si rinchiude e conclude, virginale, in un puro sfogo estetico.
Tentiamo di sviluppare certe nostre ipotesi tenendo fede agli insegnamenti del nostro solo Maestro: l’amore per la nostra terra.
Questa la nostra meta ed i nostri molteplici motivi. Lasciamo da parte per un momento, per tutta la vita di «Caffè greco» almeno, lasciamo da parte le esperienze personali, le amare esperienze personali, i dubbi, le mortificazioni dentro, le partenze; cerchiamo di essere storici di noi stessi, di vederci dentro, di parlarci, di chiarirci quanto più è possibile tutto il possibile.
Certamente sorretti dalle nostre volontà, e senza nessun cedimento, cominciamo l’avventura di «Caffè greco».
La gestazione di Caffè greco fu alimentata dall’incontro tra Antonio Verri e Francesco Saverio Dòdaro, barese, classe 1930, poeta visivo, teorico letterario e scrittore, che fondò, il 19 marzo del 1976, il Movimento Genetico, tra la Puglia e Bologna. Antonio vi aderì sin da subito e furono frequenti i viaggi tra Caprarica e Bologna, per creare una connessione forte tra il movimento pugliese a quello della metafisica di Giorgio Morandi.
Pensionante de’ Saraceni
Nel febbraio del 1982 Antonio Verri fonda, come inserto di «Caffè greco», il foglio di Poesia e Letteratura «Pensionante de’ Saraceni» in cui esordisce con la sua poesia per Roberta a Bologna.
per Roberta a Bologna
Se ti accadesse, Roberta, traversando via Ugo Bassi,
all’altezza del Self Service, di incontrare un vecchio giocoliere
un marinaio irsuto dell’Appia, o quel goffo barbuto
che si rosicchiava il niente, in un giorno di libertà
sulla parte sinistra del Reno, andando per Kostanz,
o se ancora ti accadesse, e dovrò spiegarti
come tutto ciò può accadere, di sentire nell’aria
salendo al Rizzoli o, che so, a San Luca, l’odore del pane
o dell’orzo bollito, le mille leccornie
per noi sconsiderati, o che si tingesse a festa
Porta Saragozza (te l’ho mai detto
che volevo scaricarci due carri di fieno?)
o che, poi tanto dà sempre tanto,
si potesse noi portar giù due carri di quella neve
morbida
che servirebbe a mia madre a riempirmi le tasche
a coprire il campo come con cenere
(come faccio a spiegarti i misteri
del pane, l’inverno senza neve
le notti senza luna, i frisi?
O le rivolte senza senso, i contraccolpi
le secche risposte di mio padre, i suoi tormenti
i ceci fritti, i baci in bocca a fine d’anno)
oh come faccio a spiegarti che qui il niente
non può trovare casa, che non siamo molto distanti
dalla vita. O che solo questo è vita.Se qualcosa di questo ti accadesse, Roberta,
in via Ugo Bassi o tra gli alberi a Sciaffusa
quando l’acqua abbuffò il ricordo dei limoni
e mi costrinse alle bifore di Munot, quel fresco di morte
o il grido ai cerbiatti dentro al fossato
(ma forse te le ho dette queste cose)…
Senti Roberta, io arrivai a Wintentur una volta
per non sapere davvero che fare, sopra un treno di menta
a Zurigo, al passaggio, mi parve un giardino di cortesie:
sono stato sempre così, lo sai,
sugli occhi ho sempre avuto
due foglie di basilico – e poi sono
come il padre che non lascia mai il campo,
con gli occhi al cielo aspetto la neve.Se qualcosa di questo ti accadesse
o se qualcuno ti parlasse di un mondo che ormai
gira sul niente, ti prego, stringi i pugni
mangiati il cuore parla delle ragazze di crema
dei loro fiori in petto, delle melodie di velluto
dei bazar in piazza a Martano
caccia le unghie fai capire che volevamo
fare della poesia di lotta, con Conversano,
dei treni che vanno a Milano, del fustagno
che vestono i poeti, delle croci di mia madre
e che il niente da noi non è innocente,
dei lupi mannari, delle tue notti
da strega, di Bodini dei peperoni
o di quando ci aggiustiamo il sole in testa coi lupini,
dei barattoli di camomilla per l’inverno
delle mele cotte dei nostri cortili dei Turchi…oppure dì soltanto che non è da tutti rubare al cielo
i suoi segreti. Non dovercene spiegare le ragioni.
Nel maggio del 1982 Antonio Verri pubblica su Pensionante de’ Saraceni una delle sue poesie più note: Fate fogli di poesia poeti.
Fate fogli di poesia poeti
Cominciate, poeti, a spedire fogli di poesia
Ai politi, gabellieri d’allegria
A chi ha perso l’aria di studente spaesato
A chi ha svenduto lo stupore di un tempo
Le ribalte del non previsto, ai sindacalisti, ai capitani d’industria
ai capitani di qualcosa,
usate la loro stessa lingua
non pensate, promettete… disarmateli se potete!
(al diavolo le eccedenze, poeti
le care eccedenze, le assenze anche,
i passeri di tristezza, i rapimenti
i pendoli fermi, i voli mozzi, i sigilli
le care figure accostate al silenzio
gli addentellati, i germogli, gli abbagli…
Al diavolo al diavolo).
Disprezzate i nuovi eroi, poeti
cacciateli nelle secche del mio gazebo oblungo
(ricco di umori malandrini, così ben fatto)
Fatevi anche voi un gazebo oblungo
chiudeteci le loro parole di merda
i loro umori, i loro figli, il denaro
il broncio della loro donne, le loro albe vivide.
Spedite fogli di poesia, poeti
dateli in cambio di poche lire
insultate il damerino, l’accademico borioso
la distinzione delle sua idee
la sua lunga morte.
Fatevi disprezzare, dissentite quanto potete
fatevi un gazebo oblungo, amate gli sciocchi artisti beoni
le loro rivolte senza senso
le tenerezze di morte, i cieli di prugna
le assolutezze, i desideri da violare, le risorse del tempo
i misteri di donna Catena.
Fate fogli di poesia, poeti vendeteli per poche lire.
Il Pensionante de Saraceni sarà un laboratorio di idee, critica, letteratura, politica e arti visive. Celebre (ma oggi poco conosciuto), un intelligente scritto di V. S. Gaudio sul corpo di Milly Carlucci, i mass media, l’Herkunft di Nietzsche, il potere e la biopolitica di Foucault.

I poeti maledetti
La sua attività letteraria è tutta intrisa di postmodernismo e di destrutturazione dei canoni tradizionali del messaggio poetico. Ne è testimonianza un’ampia analisi della poetica di Carmelo Bene o della Beat Generation di Ginsberg e Kerouac, ampiamente rinvenibili sia in «Caffè greco» che nella sua opera principale, il pane sotto la neve.
Tutto ciò lo colloca nel filone dei Poeti Selvaggi, detto anche dei Poeti maledetti salentini, assieme a Salvatore Toma, che scrive tanto sul foglio di Verri e Claudia Ruggeri, la poetessa dell’Inferno minore, dai versi inquieti e sibillini, che morirà suicida a Lecce nel 1996.
La sua operazione letteraria lo porta, attraverso il giornale dei poeti, a far dialogare il centro con la periferia, a raccontare la meridionalità in una prospettiva internazionale o, viceversa, a raccontare il mondo attraverso lo sguardo “rarefatto” del Meridione, in un periodo storico, quello a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui si tenta, gramscianamente, di rileggere le tradizioni e le culture popolari in chiave di affermazione del particolare sulla gestante operazione di appiattimento culturale ad opera della cultura egemone.
La sua, dunque, è una forma di resistenza, di analisi poetica e di plurilinguismo postmoderno, che tenta in tutti i modi di ricostruire un senso letterario, ma anche politico militante, in una fase storica di destrutturazione di ogni aspetto della millenaria cultura contadina ad opera della cultura egemone. Aspetto analizzato ampiamente da Pasolini, sulle colonne del Corriere della Sera (che poi confluirà negli Scritti corsari), ma analizzato, in un modo diverso, anche da Antonio Verri, Maurizio Nocera, Elio Corlianò, Rina Durante, Piero Manni, Giovanni Pellegrino e tanti altri artisti e intellettuali salentini, con uno sguardo più periferico e meridionale.
Il quotidiano dei poeti
Dal 1989 al 1992 Antonio Verri tenta l’impresa editoriale più folle, creativa e provocatoria nei confronti della cultura dominante, che – nell’ottica neoliberista allora nascente – stava gradualmente trasformando la letteratura e, più in generale la cultura, in un prodotto commerciale, a uso e consumo delle masse, privo di ogni anelito critico e svuotato di ogni particolarismo, al fine di appiattire le culture particolari ed imporre il pensiero unico, aspetto criticato proprio in quegli anni dall’UNESCO, con la Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore del 1989.
Crea dunque il Quotidiano dei Poeti. L’intento era di diffondere, dal basso, un giornale, un quotidiano, appunto, interamente scritto da poeti e che parlasse di poesia, in senso lato.
Nel maggio del 1991, per ben 12 giorni il giornale, partendo da Caprarica di Lecce, viene distribuito, attraverso una fitta rete di contatti e amici, a Milano, Bari, Perugia, Belluno, Matera, Napoli, Roma e Trento.
Le altre idee di Antonio Verri
Chi conosceva Antonio ne parla come di un uomo ricco di idee e che era in grado di trasformarle in azioni artistiche e letterarie, capaci di influenzare la cultura del territorio.
A Cursi, piccolo centro a sud di Maglie, crea il Fondo internazionale contemporaneo Pensionante de’ Saraceni, che il comune di Caprarica definisce un’eccentrica e preziosa biblioteca composta da oltre tremila tra volumi, riviste, manoscritti, cataloghi, spartiti e audiovisivi.
Organizza, agli inizi degli anni Ottanta, due edizioni di una mostra mercato di poesia e grafica dal titolo: Al banco di Caffè Greco, dove espone, oltre alle poesie, grafiche e quadri di numerosi artisti locali, tra cui Edoardo De Candia, eclettico artista leccese, suo caro amico.
Una nota del diario di Antonio datata 24 giugno (probabilmente del 1992), con struggente pathos, racconta delle visite fatte da Antonio e Maurizio Nocera ad un ormai morente Edoardo De Candia, presso l’ospedale psichiatrico di Lecce e documenta delle condizioni pessime in cui versava l’originale ed estroso artista leccese, a dimostrazione del profondo senso di umanità del poeta di Caprarica.
Il pane sotto la neve
Antonio Verri pubblicherà, nel corso della sua vita, diverse raccolte poetiche, ma quella più nota e più strutturata è senz’altro il pane sotto la neve (scritto in minuscolo, come lui stesso voleva), pubblicato nel 1983, nella stessa collana inaugurata, pochi mesi prima, da Salvatore Toma con l’opera Forse ci siamo.
Il pane sotto la neve è stato definito una debordante raccolta-manifesto dove confluisce tutta la poetica contadina e sperimentale del Verri, dove si fondono la destrutturazione linguistica di Carmelo Bene, le evocazioni del territorio rurale (ma in trasformazione) del suo Salento, gli esperimenti linguistici di Vittorio Bodini e le lucide analisi politico-antropologiche di Rina Durante. Una fusione che crea una poetica piena, a tratti esaltante, ma con i piedi per terra. Un manifesto di un Salento ponte tra le culture della Beat generation (tanti sono i richiami a Ginsberg e Kerouac) e quella del sibilo lungo della cultura contadina. Insomma, un esperimento per condurre il Salento ad essere terra di trasformazioni dal basso. Esattamente il contrario di quello che è oggi.
Il pane sotto la neve si apre, appunto, con un elogio a Carmelo Bene. Leggiamo.
(A Carmelo Bene)
Otranto ha gustosissimi grumi di neve
un lungo discorrere della memoria
vuota silenzio invernale nella mia mano
bianca di turco spolpato.E’ lontano ricordo anche l’aria
che penetra tutto che tutto riempie
è ricordo il mare che guarda masse
corpi d’abbandono, memoria ancora
– cristalli morbidi mutanti…, –
scrostata pazienza di casucce di storia.

L’opera, ripubblicata nel 2003 da Kurumuny ed., a cura di Maurizio Nocera, si struttura in 5 sezioni e molte poesie sono senza titolo. Difatti Maurizio Nocera scrive, nella prefazione, che:
In questo nuovo Pane si è cercato di rimanere quanto più possibile nel solco tracciato da Antonio, del primo Pane cioè; ad esso si è anteposto la Raccomandazione, perché così Verri aveva manoscritto nella copia destinata al mio archivio, che era poi l’archivio del «Pensionante». Al vecchio testo sono state aggiunte solo le poesie pubblicate dallo stesso Verri dopo il 1981. Non sono tutte, perché qualcuna forse è sfuggita e poi anche perché altre, ma tante altre, si trovano ancora manoscritte presso archivi privati (…).
La Raccomandazione cui fa riferimento Nocera è una nota scritta da Antonio Verri a Maurizio Nocera nel novembre del 1987, in cui Antonio presenta la prima bozza della sua opera. Leggiamo.
Raccomandazione
Ecco il Pane. Appena uscì me ne innamorai. Mi piace sempre. Penso di ripubblicarlo (monto ampliato e tagliando qualcosa), però fra molto: sarà un mio omaggio ai miei, alle mie radici: fare letteratura, da un bel po’, vuol dire soprattutto corteggiare, avvicinarsi, al romanzo: non può essere diversamente; la poesia (che non è fuoco minore come pure ho scritto) la si lascia per i brutti tonfi, per le dolcezze, per le disperazioni, per gli incanti. Il Pane prossimo sarà una summa di sapore, e non di sapere contadino (tonfi e incanti, ripeto, a bizzeffe), ma conterrà in ogni verso lo strazio del figlio che gira per altri inferni. Appena uscì se ne innamorò anche Astalos, il caro e vecchio Georges: il libro perciò arrivò ad un bel po’ di gente in tutta Europa (vedi qualche recensione, anche non pubblicata, qualche traduzione). E’ nato dai racconti della nonna-madre (“quanto bene fa al grano la neve farinosa”!) che…niente mi spronava, mi sprona ad uscire, a venir fuori dal mio inferno. Amo la neve e le pigne e il miele. E il pane. antonioverri.
Il Georges Astalos cui fa riferimento Antonio è il famoso poeta e drammaturgo rumeno, naturalizzato francese (1933-2014), autore di oltre 40 volumi di poesia e, dal 1972, redattore capo della rivista multilingue Nouvelle Europe, che ebbe modo di conoscere Antonio proprio grazie al foglio di «Caffè greco».
Un’altra poesia, contenuta nel pane sotto la neve, nella raccolta “Ma dov’è Samarcanda?” (1981), senza titolo, recita:
2.
Lo svincolo ferrato sale
scende più giù tra cave muore
sparisce Manduria e l’uomo
scrittore che vuole avere un senso
che deve avere almeno un senso
teoria degli acciottolati Stabat
Mater famelici ulivi chiusini
pompe più a Sud a Sciaffussa
questa nera tragedia un senso!
un senso! al grido di Borges
tra lande fertili un vuoto
le fisime
micisca è avere un bel niente
Orozco grida Leandro è partito
I riferimenti a Borges, la struttura linguistica beniana, la musicalità poetica così vicina a quella di Rosselli e l’ultimo omaggio a Ezechiele Leandro (pittore, scultore e poeta salentino, scomparso proprio nel 1981) fanno di questa poesia una, secondo me, delle più complete. Decisamente una delle mie preferite.
La provincia
Ma il pane sotto la neve è anche, come s’è detto, un manifesto politico, un quadro programmatico-poetico di ciò che quegli illuminati intellettuali, in quel tempo, immaginavano la questione meridionale. Non nel senso dello sviluppo, tanto caro alla classe dominante che vedeva nel Sud un territorio arretrato che doveva rincorrere il PIL e le promesse di industrializzazione (fallita, nel senso sociale ed ambientale). Affatto, quello che immaginavano quegli sprovveduti ed ingenui intellettuali era qualcosa di diverso. Un territorio capace di dialogare con gli altri e di camminare con le proprie gambe, lasciando che la cultura locale si muovesse da sola, senza rincorrere altro se non se stessa, in accordo e in simbiosi con le culture altre, per esprimere ciò che ha di buono, senza imposizioni o ricette cucinate all’altro capo dell’oceano, che sanno di malsano.
Così scrive Antonio Verri, in un suo acceso editoriale intitolato Un punto fermo.
Un punto fermo
Mettiamo un punto fermo. Cos’è la provincia? Che cosa vuol dire provincia?
E’ quanto mai arduo dare una definizione di provincia, meno difficile è, invece, cercare di analizzarla, anche se la sua sintesi culturale, politica, economica, è estremamente complessa.
Provincia è anzitutto la risultante di numerosissimi e diversissimi elementi, più o meno scoperti, che in essa e da essa prendono forma; provincia è quel paese strano e disperato, attraversato da altrettanto strane, disperate e meravigliose energie. Provincia è anche l’oggetto di una violenza, di uno sfruttamento intellettuale perpetrato da chi ha interesse che sia così e solamente così: violenza e sfruttamento sulla cultura locale, che è mortificata e degradata da una sempre continua concentrazione di potere culturale (pure se adesso il discorso sta cambiando grazie all’opera di pochi). Tutto questo, ed anche qualcosa di più, è la provincia.
Per noi salentini vi è una mortificazione in più: la rarefazione della nostra espressione, della nostra cultura, delle nostre idee.
La nostra provincia è «diversa». Siamo tutti ricercatori, esteti e letterati fin dalla nascita. Siamo tutti «forensi» ed ognuno di noi ha avuto almeno uno zio, un parente fra i componenti le Storie Patrie o le Patrie lettere.
Possibile che noi intellettuali, noi politici, noi economisti non riusciamo a vedere quel che ogni giorno di più diventa macroscopico, sempre più visibile? Perché continuiamo a proporre, a dar mano a teorie che ci lasciano e lasciano tutti nel vago?
Tutti siamo tutti. D’accordo. Ma per arrivare dove? E’ molto facile di questi tempi dirsi meridionalisti. Però molti tra di noi sono falsi meridionalisti. Il primo verbo della «meridionalità» dovrebbe essere l’umiltà, quello della «salentinità» (permettetemi il termine) dovrebbe essere solo questo: rimbocchiamoci le maniche… Abbiamo davanti una brutta gatta da pelare: la nostra provincia. La nostra provincia con tutte le sue cose sane ed autentiche (credetemi, ne sono rimaste) ma anche col suo corpus discontinuo, complesso.
Il nostro compito è identificare, essere chiari. Tutti noi, per dirla con Tommaso Fiore, «abbiamo una responsabilità storica precisa: non tradire» e operare.
Purtroppo Antonio non riuscirà a mettere in moto il suo “manifesto programmatico” e ci lascerà prematuramente il 9 maggio del 1993. Accade di domenica sera. Antonio sta rientrando da Lecce verso la sua Caprarica con la sua FIAT 126. Una macchina di grossa cilindrata invade la sua corsia e la sua minuscola vettura, sbandando, va a finire contro un ulivo, uccidendolo sul colpo.
Mi piace ricordarlo così, con una delle sue poesie.
La disperazione
sono queste pietre sopra
le ali che non ho mai avuto
il corpo musivo a bella posta
le rivolte dei miei, il maglio.Rinasco al sortilegio
con meraviglia con furore
ho parole pinnacoli bugnette
gli occhi nel vuoto stanchi
la mia ragione i miei tormenti
cento corsivi sibillini
la mia testa la mia carne
in cento luoghi. I profumi
barocchi le mie storie
i danni il pane l’euforia
i giochi sulla cenere la madre
l’allegria dei suoi scisci
i frisi, la sua morte.
