Questo percorso l’ho inventato così, all’ultimo momento, per arrivare al villaggio fantasma di Monteruga e rivivere le vecchie storie che mi raccontavano i nonni e che sopravvivono ancora nei ricordi dei più anziani. Partendo da Torre Lapillo, un agglomerato di case che, per un breve lasso di tempo, fu dedicato a Gramsci. Perché lì, a due passi, c’è stato il capitolo più importante della storia contadina del Salento: le occupazioni dell’Arneo.

6 h A/R
22 km
T
1.2.2023

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Qualche consiglio di base? Leggi l’articolo!

La mappa del percorso

Andiamo a Monteruga da Torre Lapillo

Nessuno sospetterebbe che Torre Lapillo, una delle località più in voga del Salento, per un paio d’anni, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, fu intitolato ad Antonio Gramsci, lo statista, politico e intellettuale sardo, padre fondatore del Partito Comunista italiano, primo teorico del concetto di egemonia e dell’intellettuale organico. Di ciò resta traccia nella memoria dei più anziani e nelle cronache dell’epoca.

Ma andiamo con ordine.

Si parte dalla chiesa di Torre Lapillo

E’ pieno inverno e Torre Lapillo è deserta. E’ mercoledì. C’è aperta una pescheria, a due passi da dove ho parcheggiato. Nemmeno il bar è aperto. Lo è solo la domenica, forse. E’ difficile immaginare che questo luogo così quieto, da qui a quattro mesi, diventerà una bolgia infernale, tra corpi ammassati sulle spiagge e auto incolonnate nelle vie del paese, anche per ore.

Non fa freddo oggi. Anzi. E’ una giornata parzialmente nuvolosa, come direbbero i metereologi, e si sta bene. Non fa né freddo né caldo. La temperatura ideale per una lunga camminata, come quella che mi attende. Lascio l’auto in via De Dominicis e m’incammino verso Boncore da una via interna, per evitare di passare dalla provinciale.

Boncore

Arrivo a Boncore, un piccolo villaggio sorto negli anni Cinquanta e subito m’imbatto in due piazze. Una si chiama Piazza d’Arneo, l’altra si chiama Piazza Rogo delle biciclette. Che c’azzeccano sti nomi?

Le piazze sono dedicate ad una delle vicende più importanti della storia dell’Arneo, di questo grande bubbone di terre, tra il nord della provincia di Lecce e il sud delle province di Brindisi e Taranto, che oggi è conosciuto per lo scempio della Porsche.

Ma ieri era ricordato per altro. Per una storia di lotte, redenzione e giustizia.

Le lotte per la riconquista delle terre d’Arneo.

Terra d’Arneo. 1944-1951

La terra d’Arneo è un’immensa distesa di terra situata nel Nord Salento e ricompresa nelle province di Brindisi, Lecce e Taranto. 42.000 ettari di terreno, di fitta boscaglia e terra sassosa, fino ad allora, la parte più estesa, di proprietà del Senatore liberale Vincenzo Tamborino di Maglie, che le usava solo per la caccia. Ma anche dei conti Del Balzo, dei Baroni Bozzi-Colonna e di altri notabili del posto.

Siamo in un periodo, tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, di riforme agrarie, più promesse che attuate, di lotte contadine per la riappropriazione delle terre un po’ in tutta Italia, di organizzazioni politiche e sindacali sempre più forti e sempre più penetranti nelle società contadine, tra cui il Partito Comunista e la CGIL, che inizieranno un lento processo di acculturazione delle avanguardie dei contadini, fino ad allora tenuti volutamente nell’ignoranza, come spesso ricorderà il grande sindacalista Giuseppe di Vittorio.

E’ in questo quadro che s’installa un vero e proprio movimento fatto di contadini che reclamavano il diritto a coltivare le terre incolte, di proprietà di grandi latifondisti.

Ma facciamo un passo più in sù, per capire meglio il quadro della situazione.

Il dopoguerra

E’ finito il secondo conflitto mondiale e i soldati superstiti ritornano, piano piano o dal fronte o dai campi di prigionia, in Germania o in Polonia o in Austria.

Tornano più poveri di quando erano partiti, alcuni in condizioni fisiche talmente precarie da non riuscire più a sopportare il faticoso lavoro di bracciante.

Quello del bracciante agricolo era il lavoro che dava occupazione al 60% della popolazione pugliese in età lavorativa (che allora iniziava presto, anche a 10 anni). Era un lavoro precario, mal pagato, sfibrante, ma era l’unico che si riusciva a trovare. Erano pochissimi i contadini proprietari terrieri o mezzadri.

Il grosso delle terre era in mano ai latifondisti, che per mantenere le proprie terre davano lavoro ai braccianti, quando gli faceva comodo e con paghe che decidevano loro, arbitrariamente.

Si servivano di curatoli (oggi li chiamano caporali), che erano il punto d’unione tra il latifondista e i braccianti.

Il bracciante

Il bracciante agricolo si poteva permettere solo una zappa, un roncone e poco più. I più fortunati possedevano una bicicletta. Il resto si pagava un trasporto sui traini, i carri trainati dai cavalli. Tutti gli altri andavano a piedi. Anche per 10 o 20 km al giorno. Si partiva in piena notte e si tornava, dopo una giornata a zappare la terra, al tramonto ormai inoltrato.

Ogni mattina, quando era ancora buio, si ritrovavano in piazza e il curatolo sceglieva i braccianti, a suo piacimento. Se non gli stavi simpatico o se il giorno prima ti eri lamentato della paga, non ti avrebbe più scelto.

La paga, poi, era da fame. 500 o 600 lire al giorno, se ti andava bene. Se eri particolarmente obbediente, lavoravi fino a spaccarti la schiena, eri l’ultimo ad andare via e facevi qualche regalo al curatolo, allora arrivavi a 900 lire.

Paghe basse, anche a causa della galoppante inflazione post bellica. Basti pensare che un kg di pane arrivava a costare fino a 200 lire. Toglile dalle 500 che prendevano e il conto è fatto.

Poi va precisato che il lavoro era stagionale e non continuativo. Giorni lavoravi, giorni no. E non esistevano indennità di disoccupazione. Questa è stata, appunto, una delle conquiste del sindacalismo contadino.

Quando non lavoravi, facevi la fame.

La misura era colma

Frotte di contadini, in tutta Italia, reclamavano le terre. Il Governo era alle strette. Ormai quel retaggio feudale del latifondismo era destinato a finire, grazie alle pressioni del PC, che spingeva ad organizzare e formare i contadini.

Fu così che iniziarono, timidamente, le prime occupazioni delle terre. Erano gli anni tra il 1944 e il 1949 e i contadini, guidati dalla CGIL e dalle sezioni locali del PC, iniziarono i primi scioperi.

Ma erano spaccati. Alcuni contadini mollarono, impauriti dalle rappresaglie dei curatoli o dei picciotti locali, assoldati dal latifondista per minacciare i contadini. Quindi le proteste furono perlopiù simboliche e non ottennero i risultati sperati.

Poi arriva la svolta

La DC non stette lì a guardare. Non poteva lasciare che il PC governasse la questione e diffondesse tra le masse contadine le teorie marxiste. Ne andava della tenuta dello Stato borghese. Lo stesso Cossiga, giovanissimo segretario sardo, ammise che la DC doveva prendere in mano la situazione, per togliere potere al PC.

E così, anche sulla spinta del Piano Marshall, che finanziò l’operazione, fu approntata una grande riforma agraria, avallata dagli americani.

E’ il 12 maggio del 1950 quando l’allora Ministro dell’Agricoltura Segni presentò la sua riforma agraria, la cosiddetta Legge Stralcio, una riforma che aveva l’intenzione di espropriare migliaia di ettari di terre, in tutta Italia, da assegnare ai contadini.

Con la Legge Stralcio (legge n. 841 del 21 ottobre 1950) furono espropriati 800.000 ettari di terreni agricoli, dei quali 650.000 nel Mezzogiorno.

Ma ne rimase fuori la Provincia di Lecce. Anzi, per la precisione, l’Arneo.

Le occupazioni dell’Arneo del 1950

La marcia dell'Arneo

La marcia dell’Arneo. Fonte.

Si diceva che il senatore Tamborino avesse fatto pressioni affinché non fossero toccate le sue terre. Insieme a lui i baroni Bozzi-Colonna, i conti Del Balzo (ancora oggi grossi proprietari terrieri) e altri notabili della zona si opposero fermamente.

a fine dicembre del 1950 si radunarono nell’Arneo circa tremila contadini, da Nardò, Copertino, Veglie, Salice Salentino, Avetrana, San Pancrazio salentino.

Quella non fu più un’occupazione simbolica, ma misero le coperte a terra per la notte e iniziarono a lavorarla di giorno, per evidenziare che quella terra era la loro.

Giunse presto il sostegno delle sezioni del PC di Erchie, Avetrana, San Pancrazio salentino, che portarono sostegno materiale e politico all’operazione.

Il rogo delle biciclette

Il ministro dell’Interno Scelba reagì in modo cruento. Inviò truppe di carabinieri, con l’intento di stanare e disperdere i rivoltosi. Fu ordinato di usare lacrimogeni e la violenza, all’occorrenza. Che venne usata, in abbondanza.

I dirigenti locali del PC sapevano che ciò sarebbe accaduto ed esortarono i contadini a tenere le posizioni. E questi le tennero.

Fu così che Scelba decise di inviare persino un aeroplano militare (per la prima volta per fini non militari) per tentare di scovare i contadini nascosti nelle macchie.

Il 7 gennaio del 1951 molti contadini furono arrestati.

I carabinieri ricevettero l’ordine di radunare le biciclette e le coperte dei contadini e dargli fuoco.

In quegli anni la bicicletta era una risorsa preziosa per i braccianti, come oggi l’auto per noi, anzi di più, visto che non era facile trovarle e costavano assai.

Le biciclette vennero incendiate. Si colpì, in questo modo, l’unica ricchezza di cui potevano disporre i poveri contadini.

Il fatto fu denunciato alla Camera dei deputati, dall’onorevole comunista Giuseppe Calasso, di Copertino. Grazie alle sue tonanti denunce, il fatto fu conosciuto in tutta Italia e costrinse la DC a prendere posizione.

Difatti di lì a poco il Ministro Segni inserì la provincia di Lecce nella legge Stralcio.

I contadini avevano vinto. Ma a che prezzo. Quelli arrestati furono processati.

Il processo ebbe forte risonanza mediatica e diversi avvocati comunisti decisero di difendere gratuitamente i contadini, che furono quasi tutti prosciolti. Gli unici condannati ebbero delle condanne simboliche.

Le cronache di quel tempo e gli atti del processo sono stati puntualmente ricostruiti nel libro di Grazia Prontera Una memoria interrotta, Lotte contadine e nascita della democrazia 1944-1951. Ma è soprattutto il racconto di Vittorio Bodini ad aver consegnato alla storia una vicenda che, forse, si sarebbe persa nell’oblio.

Lasciamo Boncore e andiamo verso la strada case arse

Strada case arse, come le biciclette, penso tra me e me, mentre cerco di immedesimarmi in quei contadini. Alcuni di questi li ho conosciuti, da bambino, quando si raccontava delle storie dell’Arneo, ma ero piccolo e mi interessavano poco questi racconti. Oggi sarebbero stati oro.

Continuo a camminare. Non c’è nemmeno un albero a farmi da riparo. Ma il paesaggio è struggente e consunto, tra rovi, macchia mediterranea, piante che crescono basse e che timidamente iniziano a germogliare.

Peccato per l’incuria e l’immondizia che trovo di tanto in tanto. Pure quella pubblica.

Faccio 10 km così, lungo una strada deserta, dove non passa nessuno.

Da lontano vedo le torri dell’acquedotto.

Segno che tra poco dovrò svoltare sulla ciclovia dell’acquedotto pugliese, una sorta di progetto andato un po’ a male, che doveva connettere Campania, Basilicata e Puglia, in un percorso slow, che passa, appunto, sui tracciati dell’acquedotto, ma che è diventato un progetto monco, buono solo sulla carta e come propaganda politica da usare nelle fiere del turismo.

Imbocco la ciclovia che presto mi porterà a Monteruga. Il percorso appare abbandonato e costeggia la provinciale. Passa da strutture, anch’esse abbandonate, del consorzio di bonifica dell’Arneo.

Ad un certo punto incrocio una stradina. E qui iniziano i primi segnali minacciosi.

Siamo a Monteruga

 

E’ il segno che siamo arrivati a Monteruga, il villaggio fantasma.

Il borgo di Monteruga iniziò la sua storia nel periodo fascista. Esattamente come accadde con il borgo di Cardigliano a Specchia, nacque per imitazione delle fortune dell’ACAIT di Tricase, fondata da Giuseppe Codacci Pisanelli ad inizio secolo.

Fu attivo per 50 anni, per la produzione di tabacco, olio, vino e ortaggi. Nel periodo di massima espansione, arrivò a contare quasi 1000 persone, tutte provenienti dai paesi limitrofi (Veglie, Salice salentino, Guagnano, Leverano, Copertino) e alcune dal basso Salento (Salve, Acquarica, Presicce, Casarano, ecc.).

Si sviluppò a tal punto da diventare un vero e proprio centro abitato. C’era la chiesa dedicata a Sant’Antonio Abate, lo spaccio alimentari, i grandi dormitori, il dopolavoro, il campo da bocce, oltre a diverse case coloniche, sparse nella periferia del borgo.

 

Le prime crisi arrivarono negli anni Settanta, quando si interruppe la produzione del tabacco nostrano, preferendo – l’Italia – acquistare il tabacco statunitense. Poi il declino vero e proprio arrivò negli anni Ottanta, quando l’azienda fu smembrata e i terreni frammentati. Ma, soprattutto, a causa della massiccia emigrazione verso Nord, verso le fabbriche del Nord Italia o della Svizzera. Dove i salari erano più alti e non si sgobbava tutto il giorno con una zappa in mano.

Da allora iniziò lo spopolamento del borgo e restò abbandonato, fino ad oggi.

Le speculazioni mancate e il vincolo storico

Il borgo è oggi custodito da un burbero gestore che non tollera la presenza di visitatori. Ce ne accorgiamo dall’enorme mole di cartelli che invita chiunque ad abbandonare il loco, perché “proprietà privata”. Ogni tanto ci imbattiamo in qualche cartello che ci ricorda che il cane è pericoloso, ma il padrone di più.

Ho sentito storie di persone che sono state prese a fucilate per aver invaso la proprietà e infatti mi muovo in punta di piedi.

La zona sembra essere poco curata. Ci stanno le gabbie dei conigli, delle galline, ma i campi intorno al borgo sembrano incolti.

Non si sa bene a che titolo questo personaggio abiti il borgo e si arroghi il diritto di cacciare via i visitatori. Si sa solo che, nei primi anni Duemila, l’ex presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, avanzò una proposta per acquistare il borgo, con l’intenzione di farci un villaggio vacanze.

Ma l’operazione non andò a buon fine.

Nel frattempo il borgo continuava a versare nello stato di abbandono e, vista la presenza di numerosi visitatori, si è deciso di chiudere l’accesso alla chiesa di S. Antonio, puntellata perché a pericolo crollo, come anche altre strutture del posto.

Dopo numerose battaglie giuridico-amministrative e grazie all’interessamento della locale Soprintendenza, nel 2023 il borgo è stato sottoposto a vincolo storico-culturale, da parte del Ministero della Cultura. Una buona notizia, che quantomeno limita il tentativo, da parte dei speculatori della falsa green economy, di farci i mega parchi eolici.

Ci si augura che questo sia l’inizio di un percorso che porti al restauro e alla libera fruizione di un luogo che ha rappresentato la memoria storica della cività contadina, fino a pochissimi decenni fa.

Si torna indietro

Dopo la visita al borgo si torna indietro, facendo un’altra strada.

Percorreremo una strada di campagna, che costeggia la SP 109 e, ad un certo punto, costeggeremo un muro grigio da cui, ogni tot di tempo, sentieremo il rombo di motori.

E’ l’anello della pista di Nardò.

Una pista costruita negli anni Settanta, nell’ambito del processo di industrializzazione del Salento. Non mi dilungo tanto sulla storia. Ne ho parlato molto qui.

Dove ho parlato anche del progetto, da parte della Porsche, di distruggere quel piccolo pezzo di bosco dell’Arneo (sopravvissuto chissà come), per allargare la pista e farci dei tracciati per le prove delle auto a conduzione automatica. Ma non solo. Anche uffici, mense, strutture di servizio. Un progetto che, attualmente, è fermo, ma che non è ancora stato bloccato.

Lasciata alle nostre spalle la pista seguiremo stradine di campagna che ci evitano di passare dalla provinciale, per tornare a Torre Lapillo, su percorsi che quasi nemmeno i locali conoscono e che ci consentono di camminare in piena tranquillità, senza passare nuovamente da Boncore.

E siamo tornati al punto di partenza.

Ma perché villaggio Gramsci?

Siamo a Torre Lapillo, di nuovo, dopo aver fatto più di 20 km. Ma non abbiamo ancora sciolto un nodo: perché, per 2 anni, questo che, all’epoca, era un villaggio di quattro case, fu intitolato a Gramsci?

Perché durante l’occupazione delle terre d’Arneo, i contadini che qui vi abitavano stabilmente, decisero che questo piccolo villaggio fosse dedicato al grande statista sardo, come omaggio ad uno dei fondatori del PC, ucciso dal regime fascista.

Lo Stato, ovviamente, non riconobbe mai la nuova denominazione, ma per i contadini quel villaggio si chiamava così. Per due anni. Durante la più grande stagione di rivendicazioni dei poveri contro i ricchi che il Salento abbia mai conosciuto.

 

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