La traversata del Bondone è chiamata così perché attraversi buona parte della catena del Bondone, partendo da cima Cornetto fino ad arrivare al monte Stivo. Lunga quasi 12 km, è un po’ un banco di prova dell’alpinista principiante perché somma la lunghezza alle difficoltà dei sentieri di montagna. Trovi un po’ di tutto, dal sentiero sassoso a quello esposto a quello in bosco, ai percorsi su crinale alle salitone spacca fiato fino alle discese ripide e impervie.
Il percorso in sintesi
La traversata del Bondone è caratterizzata da un profondo saliscendi. Si parte da 1540 metri (rifugio Viote), per salire a 2179 metri (cima del Cornetto) tramite il sentiero 607 (Segnavia SAT O607). Dai piedi del Cornetto parte il sentiero 617 che conduce fino al rifugio Stivo (Segnavia SAT O617).
Da qui si scende fino a 1585 metri (località la Becca), fino a salire di nuovo a 1911 metri (monte Palon, cima alta), poi si scende ancora fino a cima bassa – la Madonnina (1683 metri) e, in un’ora, si sale di nuovo fino a 2012 metri (cresta NO del monte Stivo) e si scende di poco fino al rifugio Stivo – Prospero Marchetti.
Troviamo ogni tipo di terreno e di asperità. Dalla radura (dove il sentiero è poco visibile ma intuibile), al bosco, a roccioni, a percorsi abbastanza esposti, a sassi scivolosi, salite su terra morbida dove occorre aggrapparsi per salire, fino a terra battuta e pietrisco in abbondanza, anche in cresta.
A dispetto di quanto dicono i cartelli segnavia, che indicano 5,30 ore dalla base del Cornetto al monte Stivo, occorrono almeno 6 ore, se non 7, a passo normale, incluse piccolissime pause. Lungo il percorso i segnali spesso si diradano e incontreremo pochi cartelli che ci dicono quanto tempo manca alla meta.
Quindi è bene sapere in anticipo che, in base al proprio passo, occorrono dalle 6 alle 10 ore, a seconda della durata delle pause, del livello di allenamento, delle condizioni fisiche in quel giorno, del clima e delle condizioni atmosferiche (che, si sa, in montagna mutano di continuo).
Ciò detto vi racconto la mia esperienza, in un weekend di settembre, dove sono partito in bus da Trento per arrivare al rifugio Viote. Da qui son salito sul Cornetto, poi ho fatto la traversata del Bondone per arrivare al monte Stivo. Ho dormito in rifugio e, il giorno appresso, ho fatto ritorno a Rovereto tagliando per il monte Somator e l’abitato di Patone.
Premessa
Avevo intenzione di fare la traversata del Bondone sin da quest’estate, ma per via dei fastidi al ginocchio ho preferito fare percorsi più brevi. Anche perché va subito detto che nei quasi 18 km che ho fatto e che separano il rifugio Viote dal rifugio Stivo non ci sono punti d’appoggio. Nada malghe o rifugi o segni di civiltà. Nulla. Manco fontanelle dell’acqua.
Questo è uno dei motivi per cui il sentiero è poco battuto dal turismo di massa. E infatti quando l’ho fatto non ho incontrato anima viva, se non alla partenza e all’arrivo.
Sarà perciò che questo percorso l’ho trovato così aspro e affascinante allo stesso tempo. Ma è anche uno dei motivi per cui non va preso sottogamba. Va fatto quando si è in grado di farlo e le condizioni di luce lo permettono. La seconda metà di settembre era il periodo limite, perché tramonta intorno alle 19.30 e, partendo la mattina tardi (compatibilmente con gli orari del bus), si fa ancora in tempo ad arrivare.
Difatti son partito alle 9.00 dal rifugio Viote (apre a quell’ora e volevo prendere un caffè prima di partire) e son arrivato in cima allo Stivo alle 19.15, giusto in tempo per godere del tramonto sull’Adamello-Brenta. Uno spettacolo.
Occorre fare numerose pause durante il cammino, visto che il percorso prevede un saliscendi notevole, alcuni tratti faticosi e, non lo nascondo, in alcuni punti mi tremavano le gambe, per la fatica. Inoltre bisogna portarsi dietro una buona scorta d’acqua, perché non troveremo fonti, se non alla partenza (ma bisogna deviare di pochi minuti) e, all’arrivo, in rifugio, ma solo acqua in bottiglie di plastica. Quindi si cammina con più peso sulle spalle.
Primo giorno della traversata del Bondone: dal rifugio Viote al monte Stivo
10 h solo A | |
17,8 km | |
Dislivello max 639 mt | |
EE | |
21.09.2024 | |
La mappa del percorso
Prendo il bus Trento-Viote alle 7.37 di mattina e arrivo al rifugio Viote quasi un’ora dopo. Il rifugio però apre alle 9.00 e mi è venuta voglia di un caffè prima di partire. L’ho preso a casa, ma non mi è bastato a svegliarmi del tutto. E così aspetto l’apertura del rifugio seduto sulle comode panche nel patio, con vista sulle tre cime del Bondone.
Preso il caffè faccio il solito percorso fatto già altre volte (Da Viote a Cima Verde e ritorno a Trento e trekking sul Cornetto con la neve). Arrivo all’osservatorio, entro nel boschetto e attraverso i prati della malga, facendo attenzione a chiudere sempre la staccionata all’ingresso e all’uscita, per non far uscire le mucche.
La bianca e la mora, che si osservano a vicenda
Salgo sulla scalinata in pietra e poi entro nella rada vegetazione montana salendo dolcemente verso cima Cornetto. In un’oretta arrivo ai piedi della cima Cornetto e incontro il segnale che mi indica il sentiero per il rifugio Stivo.
Il rifornimento d’acqua
Ma prima devo fare un servizio e quindi faccio una deviazione. Deviazione che trovi sul tracciato GPX: devo rifornirmi di acqua.
E così seguo le indicazioni verso il Doss d’Abramo e Cima Verde e, dopo pochi minuti in discesa, ecco giunto alla fonte d’acqua, collocata dalla SAT di Sardagna nel 2003.
L’acqua è freschissima, anzi, gelida, e bevo a più non posso prima di ricaricare le borracce e il camel bag. Porterò con me oltre 3 litri d’acqua, che, sulla base di precedenti esperienze, stimo mi basteranno fino al giorno appresso.
L’intenzione è di non comprare l’acqua, né in rifugio né altrove. L’acqua è un bene comune, è essenziale alla vita e, come l’aria, dev’essere gratis, sempre e per chiunque. Anche se l’economia di mercato che domina quest’epoca in cui viviamo impone un prezzo a qualsiasi cosa.
Ora sono pronto a partire.
Torno indietro e, tecnicamente, dovrei partire da dove il segnale mi indica la direzione verso lo Stivo. Ma la cima del Cornetto è lì, a 10 minuti. E che fai? Non ci vai?
E così salgo verso la cima. Qui il sentiero non è segnato, bisogna andare un po’ a occhio, ma si intuisce. In 10 minuti conquisto la cima e qui trovo dei simpatici alpinisti con cui scambio quattro chiacchiere. Mi raccontano di mandrie di caprioli viste poco prima. Infatti qualcuno l’ho intravisto mentre salivo.
Il paesaggio è, al solito, incantevole.
Iniziamo la traversata del Bondone!
Dopo una piccola pausa scendo di nuovo verso il segnale e imbocco il sentiero 617 che seguirò fino alla fine.
La prima parte del percorso è caratterizzata da ampia radura. Il sentiero quasi non si vede, ma si intuisce che bisogna arrivare sulla cresta.
Dalla cresta si arriva abbastanza agevolmente in località Canale, a 1959 metri, segno che siamo scesi delicatamente di un paio di centinaia di metri.
Qui i segnali ci ingannano un po’. Dicono che mancano 4 ore al rifugio Stivo. In realtà ne mancano almeno 6, senza pause.
Si procede ora tutto su crinale.
Per un po’ saremo in compagnia delle bellissime viste sulle pietre dolomitiche.
Presto si palesa alla vista il percorso che ci resta da fare.
Il primo monte che vediamo è il Palon, che sta subito dopo la località La Rocchetta (la cima boscata) e subito capiamo che dobbiamo scendere un po’, risalire di poco, riscendere di parecchio e poi risalire tanto tanto. Il monte alle spalle del Palon, che si nota perché è un po’ più largo in cima, è lo Stivo ed è lì che dobbiamo arrivare.
Scendendo finalmente entriamo nel bosco, che ci accompagnerà per un bel pezzo.
Dopo circa due ore dalla partenza, ecco che mi si palesa il posto ideale dove pranzare. Son quasi le 14 e non ho ancora mangiato, se non un po’ di frutta secca. Il tavolo invita a sostare per un po’ e il posto è ameno.
Siamo ora in località La Becca, a 1590 metri. Secondo il cartello mancherebbero 3 ore e 40 minuti al monte Stivo. La stima è pressappoco corretta, ma non tiene conto del fatto che affronteremo ancora una ripida salita fino alla cima del Palon e poi ancora una forte discesa fino a cima bassa, che metteranno a dura prova le nostre gambe, prima dell’ultima salita verso lo Stivo.
Quindi occorre pianificare altre pause lungo il cammino.
Me la prendo comoda. Pranzo con calma e mi riposo, godendo della quiete della zona. La giornata è di quelle quasi perfette. Non c’è troppo sole, né è troppo nuvolo. Ci sono circa 19/20 gradi e si sta bene anche a maniche corte.
Ora inizia il bello
Il bosco mi accompagnerà ancora per poco. Dopo una traversata in falsopiano iniziano le prime difficoltà. Bisogna attraversare qualche tratto esposto.
Ma la vista che regala è incantevole. In particolare la vista sul lago di Cei è tra le più belle di tutta la traversata del Bondone.
Ma anche la vista sulla città di Rovereto, che non ci abbandonerà quasi mai lungo tutto il percorso, è degna di nota.
Questa fase del percorso è caratterizzata da tratti un po’ esposti e qualche salita ostica, in cui occorre aggrapparsi alle radici degli alberi per facilitare la salita. Inoltre il sentiero ogni tanto si perde alla vista, ma siamo facilitati dal fatto che questo è l’unico sentiero, quindi è impossibile perdersi.
Dopo tante fatiche, finalmente si raggiunge la cima alta.
Giunti alla cima alta del Palon ora bisogna scendere verso la cima bassa, con un dislivello di poco più di 200 metri. A tratti il sentiero è ripido e per un po’ procede su crinale, ma la cima bassa si raggiunge quasi in fretta.
Qui, guardando lo Stivo, che sembra ancora lontanissimo, ho avuto qualche dubbio se avrei fatto in tempo ad arrivare alla meta. Manca un’oretta al tramonto e avrò poco tempo tra il tramonto e il crepuscolo.
Come sempre ho con me il frontalino, che all’abbisogna tirerò fuori. Ma spero di non usarlo.
Arrivo a cima bassa, dove incontro un altro tabernacolo dedicato alla Madonna (difatti la cima si chiama popolarmente la Madonnina).
Qui trovo finalmente un cartello che mi dice che manca un’ora all’arrivo.
Ce la faccio, penso tra me e me, mentre mi concedo una breve pausa davanti al piccolo tabernacolo in ferro. Mi volto indietro e vedo la tanta strada fatta finora. Il Cornetto (la cima dove si concentra la nuvola a forma di palla) appare lontanissimo.
La pausa dura poco. Son quasi le 18.10 e, stimando di camminare senza più interruzioni, dovrei arrivare intorno alle 19.10.
Così mi faccio forza e proseguo.
Dopo pochi minuti incrocio un bivio. Il cartello (che purtroppo non ho fotografato) mi dice: se vai a destra continui sul sentiero 617, se vai a sinistra, imbocchi il sentiero 617B. Il primo porta 50 minuti di percorrenza, il secondo 45. Per risparmiare 5 minuti, imbocco il sentiero 617B.
Arrivato in rifugio scopro che il sentiero che ho fatto è più ostico e non è più rapido, come dice il cartello.
Ma poco importa, perché è più panoramico e mi porterà direttamente in cima. Mentre l’altro sentiero mi avrebbe portato direttamente in rifugio.
Meglio così. Sennò non avrei goduto del tramonto sui monti dell’Adamello-Brenta. E poi, comunque, il sentiero 617 lo farò all’indomani, per scendere verso Rovereto.
Al rifugio Stivo – Prospero Marchetti
Arrivato in rifugio l’accoglienza è delle migliori. Sia Alberto che le sue colleghe mi accolgono con simpatia e disponibilità. Lascio le cose in stanza e vado a cenare.
Ho scelto questa data, per fare la traversata del Bondone, perché oggi proiettano la prima di un documentario di circa 20 minuti, che parla dell’esperienza di Alberto Bighellini, il rifugista dello Stivo, e delle tante difficoltà e gioie del suo lavoro. Lassù in cima è il titolo del documentario, girato dal giovane regista Giovanni Grossi.
Conoscevo già la storia di Alberto, raccontata da lui e da altri escursionisti quando son salito sullo Stivo da Passo Santa Barbara, in inverno. Ma il documentario racconta con dovizia di particolari l’esperienza di Alberto. Difficile e contornata da scelte etiche. Come quella di scegliere solo prodotti bio, a filiera corta, oppure del mercato equo e solidale, prediligendo quindi piccoli produttori e alimentando il mercato locale, oppure quello fuori dalla GDO.
Ancora, il documentario racconta la delicata fase dell’approvvigionamento in elicottero delle materie prime più a lunga conservazione, oppure del carburante, necessario per far funzionare i generatori di corrente, quando i pannelli solari non possono fare il loro lavoro.
Racconta delle difficoltà nell’approvvigionamento di acqua. Il serbatoio d’acqua, collocato nell’atrio del rifugio, si riempie grazie alle acque piovane o allo sciogliersi della neve. Ma se non piove e non nevica, son dolori.
A margine del documentario, chiacchierando con Alberto, scoprirò pure che le acque grigie e nere sono convogliate in una fossa imhoff, che due tre volte l’anno Alberto svuota a mano. Poi lo smaltimento avviene ad opera di ditte specializzate. Un lavoro di merda, commentiamo insieme.
Così scopro finalmente come funziona il ciclo delle acque e capisco perché in ogni bagno del rifugio ci sono cartelli che invitano gli utenti a non buttare carta nel wc, ma a servirsi di appositi cestini.
Fare il rifugista significa anche sporcarsi le mani (letteralmente), arrangiarsi, adattarsi ad ogni condizione, affrontare le incertezze, senza mai perdere il sorriso con gli ospiti. Ecco perché molti rifugisti mollano dopo appena una stagione. Lui no. E’ lì dal 2017 e lì vuole restare.
Dopo il documentario e un paio di grappette, sono pronto ad andare a dormire.
Secondo giorno, dal Rifugio Stivo a Rovereto
5 h 40 m solo A | |
18,7 km | |
Dislivello max 1776 mt | |
E | |
22.09.2024 | |
La mappa del percorso
Il giorno dopo mi sveglio abbastanza tardi. Saranno le 6 e mezza o giù di lì.
La stanza è talmente calda che il sacco a pelo serve a malapena. Siamo in 4 in stanza e solo uno russa ancora. La colazione inizierà solo alle 8 e ho tutto il tempo di salire in cima a vedere l’alba.
Prendo il sentiero che sale in cima alla destra del rifugio e salgo su una salitella comoda che, in appena 5 minuti, mi condurrà alla croce. Qui assisto ad un’alba che mi emoziona.
Non riesco a smettere di osservare l’orizzonte e di interrogarmi sul nome di quelle cime che vedo in lontananza. Sento l’esigenza, ogni volta che salgo in montagna, di sapere come si chiamano i monti, perché se dai un nome alle cose, le riconosci. Se le riconosci, ti ci affezioni. Se ti ci affezioni, le tuteli.
E infatti qualcuno avrà pensato bene di colmare questa lacuna, costruendo un avanposto della conoscenza. Una sorta di muretto su cui sono collocate delle placche. Ti basta posizionare l’occhio sul vertice del triangolo ed individuare il monte corrispondente.
Resto in cima così a lungo, ad osservare e memorizzare i nomi delle cime, che quasi la salto, la colazione. Infatti arrivo intorno alle 8.10 e trovo già tutti che stanno allegramente mangiando.
La colazione è abbondante e i prodotti che il rifugista offre seguono la sua etica: tutti bio, tutti a km zero, tutti di ottima qualità. Marmellate squisite su pane artigianale, di quello buono. Yogurt sempre artigianale e prugne dal sapore di prugna (trovala te, adesso, la frutta che sa di frutta).
Annaffio tutto con un buon caffè espresso e sono pronto a partire.
Il percorso di oggi sarà più semplice, ma ciò non significa che sarà privo di difficoltà.
Su suggerimento di Alberto, decido di seguire un percorso alternativo a quello che avevo individuato. La mia idea iniziale era di scendere verso il passo Santa Barbara per poi prendere il sentiero della pace, che, passando da Chienis, arriva, in una lunga serpentina, verso il monte Biaena, Lenzima, Folas, per poi arrivare ad Isera e da lì a Rovereto.
Mentre lui mi suggeriva, mostrandomi il percorso su una mappa cartacea, di scendere verso passo Bordala e da lì arrivare a Patone. Da lì sarei sceso verso Folas e mi sarei ricongiunto al sentiero della pace, verso Rovereto.
Una soluzione decisamente più rapida, anche se avrei fatto un tratto di strada su asfalto, cosa che odio. Ma vabbè, ci sta.
Dallo Stivo a Passo Bordala
E così imbocco il sentiero normale 617 che parte lasciando il rifugio sulla mia destra, fino alla madonnina di cima bassa.
Ci arrivo in poco tempo e qui prendo il sentiero 623 per passo Bordala.
All’inizio il sentiero è abbastanza quieto e agevole.
Ogni tanto si incontra solo qualche tratto un po’ più ostico.
La discesa sarà sempre abbastanza ripida, ma non troppo, fino alla località Le fontanelle. Una volta doveva essere, in effetti, un posto dove c’erano delle fontanelle. Oggi, purtroppo, le fontanelle sono state sostituite da una centrale idrica.
Da qui al passo Bordala farò una larga e comoda strada forestale, fino ad arrivare ad un incrocio.
Basta andare a sinistra e subito a destra, seguendo il cartello per le bici.
Percorro una piacevole strada asfaltata, che costeggia ampi campi dedicati all’agricoltura biologica. Almeno così mi pare di capire, vedendo grandi quantitativi di stallatico e piante recise e lasciate in terra, per il sovescio.
Mi volto un attimo indietro e mi rendo conto della strada che ho fatto. Qualche ora fa ero lassù, in cima.
Da Passo Bordala a Patone
Alla fine della strada si arriva ad un bivio, in località sella del Somator, e qui bisogna scegliere.
Qua, in effetti, ho avuto qualche titubanza.
Se vai a sinistra prendi il sentiero 642 per Patone. Se vai diritto prendi il sentiero 671 per Mori, da dove, ad un certo punto, si prenderà la deviazione 673 per Isera.
Tuttavia il cartello dice che per Mori ci vogliono 4,10 ore, mentre per Patone ci vuole solo 1 ora e 20 minuti. E’ vero che è presto e che ho tutta la giornata davanti, ma le gambe mi dicono che è meglio tagliare.
E decido di seguire il loro consiglio.
Purtroppo, però, il sentiero per Patone, sebbene ottimamente segnalato (con segnali che appaiono piuttosto recenti) è molto, molto trascurato e incontro parecchia vegetazione alta, che, se da un lato mi impedisce di camminare agevolmente, dall’altro lato mi rallenta parecchio.
Difatti ogni 5 minuti mi fermo per vedere se ho delle zecche addosso. E siccome la vegetazione è alta, mi controllo non solo sulle gambe, ma anche sulle braccia e sullo zaino.
Dopo una non piacevolissima traversata tra la folta vegetazione, incontro finalmente un segnale che mi dice che Patone è a soli 15 minuti di cammino.
Ma saranno altri 15 minuti intervallati da alta vegetazione e sentiero un po’ più diradato.
Finito il bosco inizia la strada asfaltata, che mi condurrà nel centro di Patone.
Da qui seguo le indicazioni stradali per Isera, facendo un pezzo di provinciale.
Arrivato a Folasso, anziché continuare sulla provinciale, prendo una stradina che conduce verso il parco e, dopo la fontanella (cui faccio rifornimento d’acqua), prendo la strada asfaltata poderale che, attraverso dei vigneti, mi fa scendere fino a Isera senza incontrare una sola automobile.
Arrivato al centro storico di Isera, incontro nuovamente i segnali SAT che indicano il sentiero della Pace, fino a Rovereto.
Comunque basta entrare nel centro storico, fare la scalinata in discesa e poi si scende su un’altra scala in ferro per attraversare il ponte dell’autostrada del Brennero.
In poco tempo arrivo a borgo Sacco, il graziosissimo quartiere di Rovereto dove confluisce la ciclabile Trento-Verona.
Qui si può optare per una bella passeggiata sulla ciclopedonale all’ombra oppure tagliare dall’ex manifattura e si arriva nei pressi del bicigrill.
Da questo punto in poi procedo sempre diritto, verso tutto il lungo Leno fino al ponte degli Alpini, per poi proseguire su via Dante ed entrare nel centro storico fino alla statua del Nettuno, dove finisce il nostro cammino.
Con la statua del Nettuno di fronte è sufficiente prendere la strada a sinistra, arrivare in Piazza Rosmini e da lì fare tutto il viale che ci porterà alla stazione dei treni.
Impressioni
Onestamente, avrei voluto che questa due giorni di cammino non finisse mai. Ho sempre cercato, in montagna, di scegliere percorsi poco battuti dal turismo di massa. Ciò ha comportato, ovviamente, più difficoltà, perché i sentieri meno battuti sono quelli che ti offrono meno comodità (mancanza di acqua e punti d’appoggio, lontananza dai parcheggi, ecc.), ma sono quelli che ti mettono alla prova. E, secondo me, il motivo che spinge un alpinista (o presunto tale) ad affrontare la montagna, dev’essere il mettersi alla prova, il senso misto di sfida e rispetto verso la montagna.
Il Bondone è considerato una montagna minore. Non ha i paesaggi delle Carniche o della val di Sole, non offre le comodità degli impianti di risalita del Latemar. Non ti permette di arrivare col tacco 11 a 2700 metri. Nemmeno ci arriva a quelle altezze. Ma la traversata del Bondone ti regala una sfida.
Quella di partire dabbasso, risalire, riscendere, per poi risalire di nuovo e riscendere ancora, tra mille difficoltà, mille imprevisti, mille tipologie di sentieri e di intoppi. Ti senti così vicino alla città da sentirne quasi i suoni, ma allo stesso tempo in un ambiente del tutto montano, con le insidie tipiche della montagna, compresa la presenza dell’orso. Ti guardi intorno e vedi il nulla e, per ore e ore, puoi anche non vedere anima viva.
Per me la montagna è tutto questo. E la traversata del Bondone mi ha regalato una consapevolezza, quella di cercare non l’apparenza, ma l’essenza della montagna.
L’ho fatta anche io tanti anni fa e vedo che è rimasta la stessa!!! Prima la SAT organizzava spesso delle escursioni su quei sentieri ma oggi la gente vuole le comodità lungo il cammino e questo sentiero è passato di moda, ma per me resta uno dei più belli del Bondone!!!
Ciao Vanni, in effetti al rifugio parlavo giusto con un anziano alpinista che mi diceva la stessa cosa: una volta la SAT organizzava diverse uscite lungo la traversata del Bondone, ma oggi ha difficoltà a racimolare gente e la traversata è passata di moda. Ho conosciuto gente, nei bivacchi, che preferisce farsi giusto due ore di camminata solo per dormire in bivacco e, il giorno dopo, farsi altre due ore per scendere. Quindi cambia proprio l’approccio. Il bivacco, da strumento diventa fine e la montagna da fine diventa strumento. Ragionando in questi termini si capisce perché sorgono impianti, parchi giochi e perché tanta gente arriva impreparata ad affrontare la montagna. Quindi ben venga che il Bondone resti com’è adesso.