Una passeggiata facile facile, ad anello, tra le campagne dell’otrantino, con partenza dal Santuario di Montevergine, passando da Anfiano, con la sua masseria isolata e il grande frantoio ipogeo e dalla masseria di Torcito, che, dopo decenni di abbandono, per un po’ di tempo è stata teatro di concerti ed eventi, per poi tornare nell’abbandono.
5 h A/R | |
21 km | |
T | |
16.01.2023 | |
La mappa del percorso
Si parte da Montevergine
La partenza non può iniziare che in un posto così intriso di simbolismo come il Santuario di Montevergine, a Palmariggi. Per svariate ragioni.
Una delle tante è la presenza massiccia di megaliti, tra cui Dolmen e Menhir. Significativo è il Menhir Montevergine, che si ritrova sul lato destro del Santuario, ma che vedrò alla fine del percorso, ormai a notte quasi inoltrata.
Infatti il percorso è iniziato nella tarda mattinata di una soleggiata giornata d’inverno.
Ne ho approfittato, dopo il lavoro, per una salutare camminata, non particolarmente difficile, anche se abbastanza lunga.
Il Santuario è simbolico anche perché su di esso campeggia una leggenda. Diciamo la solita. Quella del pastorello che sta vagando in zona quando, ad un certo punto, perde il suo coltellino e lo ritrova grazie ad una donna, che glielo porge. La donna si rivelerà essere poi la Madonna, che esorta il piccolo a comunicare l’avvistamento alla comunità, che, per devozione, costruirà la prima cappella intorno ad una cripta bizantina, scoperta durante i lavori, che custodisce l’effigie della Madonna.
Difatti oggi la cripta è visitabile dall’interno del Santuario, da dove si scende lungo una scalinata in pietra.
Il Santuario è meta di numerosi pellegrinaggi ed è aperto tutto l’anno. Durante la settimana di ferragosto si svolge l’ormai storica sagra della Bruschetta, con prodotti tipici locali e gli immancabili concerti di musica popolare salentina.
Lasciata l’auto nel grande parcheggio del Santuario, ci dirigiamo verso nord est, in direzione di Anfiano.
Anfiano
Qui incontriamo subito, dopo pochi km, la masseria di Anfiano.
Il nome Anfiano è di origine greca e significa luogo isolato.
Lo è ancora oggi e lo era in passato, quando, già dall’epoca romana e lungo tutto il Medioevo, la masseria era molto distante dalle altre. Pare che la zona fosse già abitata in epoca romana, per via della scoperta di resti di una villa romana risalente al III-IV secolo d.C. e soprattutto per via del fatto che da lì ci passava la via Traiana Calabra.
Il sito di Anfiano, però si sviluppò solo in epoca bizantina, in quanto i monaci basiliani introdussero nuove culture e tecniche agricole, rendendo il sito autosufficiente.
Contava su pascoli, frutteti e uliveti e un grande e significativo frantoio ipogeo.
Nel Salento i frantoi ipogei si sprecano.
Ne sono rimasti diversi un po’ in tutto il territorio, da Veglie a Salve, passando per Nardò, Matino, Patù, Carpignano… insomma, quasi ogni comune ne ha uno.
La dimensione del frantoio ipogeo ci dà l’ordine di grandezza dell’importanza della zona.
Questo è particolarmente grande, segno che – sebbene isolato – il casale fosse ampiamente frequentato durante i mesi che occorrevano per la produzione dell’olio.
La produzione dell’olio nei frantoi ipogei
Difatti, per produrre l’olio ci volevano mesi. I contadini spesso dormivano nel frantoio durante il periodo di lavorazione dell’olio, sia per evitare furti che per sfruttare tutte le ore disponibili di lavoro, senza perder tempo ad andare avanti e indietro dalle rispettive abitazioni.
Ecco perché nei frantoi ipogei troviamo dei giacigli scavati nella roccia.
Ogni frantoio ha un imbocco dall’alto, una sorta di apertura, che serviva per lo scarico delle olive. Qui venivano raccolte e collocate, gradualmente, nelle vasche.
I muli, poi, trainavano le assi in legno che servivano a far muovere il torchio. L’olio scendeva dagli imbocchi e veniva raccolto in contenitori di vari materiali, per poi essere trainato in alto, grazie a delle carrucole, e trasportato con i traìni (carri a conduzione animale) verso la destinazione.
Fino all’inizio dell’epoca moderna la destinazione principale era Gallipoli, dal cui porto partivano le navi per vendere l’olio presso le corti inglesi o veneziane, che lo usavano come olio lampante, cioè olio per alimentare le lampade.
Va detto, infatti, che oltre ad illuminare le case, l’olio serviva in abbondanza quando nacque la prima illuminazione pubblica, a Londra, alimentata proprio a olio.
Dunque servivano grossi quantitativi di olio e buona parte di esso proveniva dalla Puglia.
Ecco perché, fino a quasi i giorni nostri, è rimasta l’abitudine, da parte dei contadini, di raccogliere le olive da terra, quando sono ormai mature.
Ciò perché non importava che l’olio fosse acido, in quanto non serviva all’alimentazione.
Quando, gradualmente, è stata superata questa tradizione, si è iniziato a raccogliere le olive direttamente dall’albero, per favorire una produzione di olio con basse o nulle percentuali di acidità.
La masseria ha avuto fortune alterne.
A causa delle continue incursioni turche che martoriarono l’otrantino lungo il 1400, la masseria fu abbandonata e, solo dopo qualche secolo, più o meno intorno al 1700, tornò ad essere abitata ed utilizzata per i lavori agricoli.
La leggenda narra che in questo luogo vi fosse un’acchiatura. Un po’ come nel caso della grotta delle fate a Salve. L’acchiatura è una sorta di tesoro, che talvolta viene trovata per caso o svelata dal monaceddho, cioè da un folletto un po’ buono e un po’ cattivo, protagonista di numerosi racconti del folklore salentino (e meridionale, in generale).
E’ per questo che, visitandola, si ritrovano diverse crepe nei muri e diversi tentativi di scavi, all’interno. Proprio perché qualcuno avrà creduto alla leggenda e pensato che la masseria celasse tesori preziosi. E invece nisba.
Da Anfiano al parco di Torcito
Adesso percorriamo una lunga via di campagna, tra strade bianche ed asfaltate, in direzione del parco di Torcito. Tra qualche ulivo (in sofferenza) e tanti alberi di fico, ci imbattimo di tanto in tanto in qualche struttura rurale.
Nonostante sia inverno fa caldo, segno che l’estate si preannuncia focosa. E, in effetti, sembra una giornata primaverile e la giacca quasi non serve.
Lasciata Anfiano ci dirigiamo verso nord, verso il parco di Torcito, nel territorio del comune di Cannole.
Giusto il tempo di fare questi pensieri che già si arriva a Torcito…o quantomeno nei pressi, dove incrociamo dei segnali.
Entriamo così nel parco naturale di Torcito.
Cerceto era il nome originario di questa zona e le fonti storiche ci dicono che esisteva sin dall’anno 864 d.C., quando fu distrutto da una delle tante incursioni Saracene.
La masseria, per come la vediamo oggi, è del XII secolo, poi fortificata alla fine del XVII secolo.
Qui troviamo due cappelle dedicate a S.Vito, un altro frantoio ipogeo, una torre colombaia (che poteva ospitare fino a tremila piccioni), una cripta con alcune tombe e altre tracce di insediamenti basiliani.
E’ segnalata anche la presenza di neviere (antiche costruzioni per la conservazione della neve, perché all’epoca nevicava pure nel Salento e la neve si conservava anche d’estate) e un punto di sosta dei pellegrini che transitavano lungo la via Calabra, un prolungamento della romana via Appia e che, costeggiando il feudo di Cerceto, arrivava fino ad Otranto.
Torcito ha avuto una storia difficile
La masseria Torcito divenne proprietà della Provincia sin dagli anni Sessanta e questa spese miliardi di lire, negli anni Novanta, per la sua riqualificazione.
Tornata nel degrado, dovette attendere i primi anni del Duemila perché qualcuno se ne interessasse. L’enorme spazio della masseria fu oggetto di concessione a privati, per farne un parco della musica, ma il progetto durò poco e fu bloccato da un’inchiesta durata anni. E così cadde di nuovo nel degrado e nell’abbandono.
Si torna alla base
Scendendo verso Montevergine, lungo una graziosa strada di campagna, incrociamo ad un certo punto il Menhir Santu Lasi.
Non si tratta esattamente di un Menhir visibile, occorre aguzzare lo sguardo per trovarlo. Una volta si ergeva per circa 4,50 metri.
Fu ritrovato da Francesco e Antonio Piccinno il 16 ottobre 1965, quando ancora stava in piedi, in un terreno molto sassoso, segno che il Menhir era stato realizzato, in origine, in pietra viva, tratta dalle carraie in zona.
Nel 1995 il menhir si è staccato dalla base e abbattuto sul terreno rompendosi in quattro frammenti, probabilmente a causa di collisioni con un olivo cresciuto a ridosso dello stesso.
Nel 2013, per disposizione del Comune, l’albero è stato tagliato per salvaguardare il monolite e renderlo più visibile.
Tornati a Montevergine è ormai sera e facciamo in tempo ad immortalare il Menhir Montevergine prima di tornare alle auto.