Un ferragosto alternativo al parco memoria Malga Zonta a Folgaria (TN), a riscoprire, ottant’anni dopo, la storia di Bruno Viola “Il marinaio” e dell’eccidio di Malga Zonta. Una storia che mi ha talmente emozionato da non riuscire a non raccontarla.
Intro
Devo dire che la storia del ventenne Bruno Viola e del sacrificio dei suoi 14 compagni (tutti giovanissimi, tra i 18 e i 20 anni) mi ha particolarmente colpito. Vuoi per la loro giovanissima età, vuoi per il senso del sacrificio di una generazione che ha gettato le basi del processo democratico.
Ho tentato di sintetizzare le fonti storiche rinvenute in rete e di rivivere quelle emozioni vissute dai partigiani, durante le celebrazioni dell’ottantesimo anniversario dall’eccidio, nella zona dove non esiste più Malga Zonta, che è stata rasa al suolo. Poi la struttura è stata ricostruita fedelmente negli anni Sessanta.
Negli stessi anni – grottescamente – è stato realizzato anche campo Base, una base antiaerea della NATO, attiva tra il 1966 e il 1978, in piena guerra fredda, come base strategica in caso di conflitto aereo o nucleare. Nei primi anni Duemila la base è stata acquistata dal Comune di Folgaria per farci un luogo di memoria storica e oggi è accessibile (a pagamento).
Nei pressi del laghetto di Coi sorge un piccolo museo alla memoria di uno degli eventi più significativi dei fatti successivi all’armistizio, che purtroppo ho trovato chiuso.
Agiografie e revisionismo
I fatti successivi all’armistizio spesso sono raccontati nella nebbia della confusione, oppure in modo agiografico, disegnando la resistenza partigiana come buona e i nazisti come cattivi, secondo l’ormai immancabile dicotomia che caratterizza il dibattito pubblico dalla seconda Repubblica in poi (bianco/nero, bello/brutto, buono/cattivo, giusto/ingiusto, ecc.).
Oppure secondo la logica del revisionismo, spesso di matrice post fascista, portando a delegittimare la resistenza e giustificare i misfatti dell’esercito tedesco e dei repubblichini fascisti.
La realtà sta nel mezzo e la storia è sempre più complessa di come la si riduce. Sintetizzando estremamente, i partigiani non erano buoni. Erano costretti ad ammazzare, talvolta anche persone solo sospettate di essere spie assoldate dai fascisti. Del resto non erano, quelli, tempi in cui ci si poteva permettere il lusso di indagare e applicare le leggi dell’equo processo. Si era in guerra e ogni giorno si rischiava la pelle.
Non erano nemmeno uniti, perché in mezzo al movimento di liberazione nazionale ci stava di tutto: dai comunisti ai repubblicani ai monarchici ai cattolici. C’erano screzi e opposte visioni del mondo, ma c’è stata, per un breve lasso di tempo, una comunanza d’intenti.
C’era, infatti, la ferma intenzione di cacciare dall’Italia l’invasore e finirla con un regime totalitario, che ha trascinato l’Italia in guerra e ha perpetrato violenze per oltre un ventennio, impedendo qualsiasi forma di libera espressione e soffocando nel sangue ogni visione diversa da quella dominante.
Piccolo antefatto
Per capire l’eccidio di Malga Zonta va contestualizzato lo stato del conflitto all’agosto del 1944.
Il mio è solo un racconto molto sintetico. Per una ricostruzione dei fatti più puntuale, rinvio a questa fonte.
Nella primavera del 1944, sull’Altopiano dei 7 Comuni (tra le Province di Vicenza e Trento) inizia lentamente a formarsi un fronte di resistenza composto da diverse brigate e compagnie.
I fatti dell’armistizio non faranno altro che accelerare il formarsi di bande partigiane, inizialmente disorganizzate e presenti a macchia di leopardo per tutto il Centro-Nord Italia, poi man mano sempre più organizzate e coordinate dal comando alleato.
Una di queste bande è la Compagnia dei “Piccoli Maestri” (raccontata nel film del 1997 di Daniele Luchetti e tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello), formatasi sull’altopiano di Asiago nel 1943, quando, firmato l’armistizio e formatasi la Repubblica sociale di Salò, molti giovani si danno ai monti pur di sfuggire alla leva obbligatoria voluta dal nuovo regime. La banda sarà operativa a lungo e sarà protagonista di lotte e sabotaggi ai danni dei repubblichini e dei nazisti, ma sarà completamente fatta fuori da un attacco tedesco nel 1944.
Grazie ad una serie di scambi di comunicazione tra le brigate formatesi in montagna e gli alleati sotto il comando di Winston Churchill, si genera un piano di forte impegno militare e logistico volto ad impedire ai tedeschi di riorganizzare le fortificazioni della Linea Blu e, anzi, costringerli a ritirarsi attraverso le valli, per facilitare le operazioni militari degli alleati: il Piano Vicenza.
Il Piano Vicenza
Il piano prevedeva, nel dettaglio, azioni di sabotaggio dei rafforzamenti delle linee nemiche, azioni di consolidamento delle aree libere per facilitare gli sbarchi degli alleati e continue comunicazioni al fine di coordinare le attività degli eserciti alleati con quelle dei partigiani.
L’operazione prevede che si creino delle zone libere, alle spalle dei tedeschi, in modo da accerchiarli e costringerli alla ritirata. Tra queste zone libere viene individuato, tra gli altri, il Massiccio del Pasubio e l’Altopiano dei 7 Comuni.
Qui i gruppi di bande ribelli (come le definivano i tedeschi e i repubblichini di Salò) si erano organizzati a tal punto da occupare numerose zone, tanto da costringere i tedeschi a reclutare quanti più uomini possibile e predisporre una controffensiva che divenne, in realtà, una rappresaglia nei confronti delle popolazioni inermi.
Numerosi furono gli stupri e le violenze perpetrate nei confronti di donne, anche giovanissime, come si evince dai resoconti dell’epoca.
Nel frattempo le speranze dei partigiani vennero alimentate da frequenti comunicazioni per cui gli Alleati erano in procinto di liberare il Nord Italia, entro l’inverno.
Fu così che, nonostante le pessime condizioni in cui versavano, la mancanza spesso di cibo e la paura di essere accerchiati dai tedeschi, mantennero le posizioni.
Il Piano Vicenza fu salutato con giubilo dai partigiani, salvo scoprire, in corso d’opera, che era stato accantonato dagli alti comandi degli Alleati per rafforzare la linea gotica.
Quindi niente Alleati per adesso. Ma anche niente rifornimenti e niente speranza di liberare le montagne, chissà fino a quando. Questo significava che i partigiani dovevano cavarsela con le scarse munizioni che avevano con sé e con scarsi rifornimenti alimentari. Ma soprattutto solo sulle loro forze, visto che non era più previsto l’invio di altri uomini su quelle montagne.
Fu così che i tedeschi e i fascisti, ricevuta la notizia, si rinvigorirono e organizzarono una serie di rastrellamenti volti a stanare e far fuori i rivoltosi.
Predisposero una serie di operazioni: l’Operazione Belvedere contro la Zona libera del Pasubio, l’operazione Timpano in Lessinia, l’operazione Hannover nell’Altopiano dei 7 Comuni e l’operazione Piave sul Massiccio del Grappa.
L’operazione Belvedere
Oggi parlerò solo di questa. Visto che ricorre l’anniversario degli 80 anni dall’eccidio di Malga Zonta.
Nell’estate del 1944 il Pasubio era zona libera, dove i partigiani erano riusciti a trovare vie di comunicazione per rifornimenti e scambi di informazioni.
Non durerà molto. Tra la fine di luglio e gli inizi di agosto del 1944 inizieranno i primi scontri tra partigiani e nazi-fascisti. Gli scontri sono cruenti e pochi partigiani perdono la vita, ma riescono a coprire la ritirata dei compagni.
La reazione dei nazi-fascisti sarà crudele.
Nella valle del Pasubio s’installerà una compagnia della 40a brigata “Verona”, sotto il comando dei repubblichini di Salò, che inizia a saccheggiare la città, a picchiare uomini e donne, costringendoli a rivelare le posizioni dei partigiani. Le donne saranno brutalmente violentate e le abitazioni incendiate.
In un susseguirsi di violenze, reazioni da parte dei partigiani (faranno saltare un ponte, per evitare i rifornimenti alle brigate nazi-fasciste) e rappresaglie per vendetta contro le azioni partigiane, si arriva all’apice.
E’ il 12 agosto del 1944
Alle prime luci dell’alba del 12 agosto ’44 parte il rastrellamento nazi-fascista.
Parte praticamente da ogni località che costeggia il massiccio del Pasubio, con il chiaro intento di accerchiare i partigiani ed impedire loro vie di fuga. Sono più di 15.000 uomini, con mezzi corazzati, mentre sul Pasubio si concentrano circa 400 uomini, in attesa di ricevere comunicazioni e aiuti dagli Alleati.
Già, perché i partigiani arroccati sui monti sanno che presto arriveranno aiuti dagli Alleati, ma ancora non sanno che il Piano Vicenza è stato sospeso.
Quindi si troveranno in pochi e mal equipaggiati, contro un vero e proprio esercito. La sproporzione è evidente e il loro destino è già segnato, anche se sperano fino alla fine in un aiuto che non verrà mai.
Bruno Viola il Marinaio
Una di queste squadre di partigiani, impegnate a tenere la zona libera del Pasubio, è comandata da Bruno Viola, detto il Marinaio.
Bruno curiosamente condivide lo stesso cognome di Berardo Viola, il protagonista del romanzo Fontamara di Ignazio Silone, passato da contadino ignorante e un po’ vandalo a martire della resistenza, dopo l’incontro con il solito sconosciuto, che lo renderà cosciente della sua condizione di subalterno e della necessità di combattere il regime fascista.
La stessa sorte capita a Bruno.
Originario di Coldogno, classe 1924, sin da giovanissimo decide di arruolarsi in Marina dove diviene radiotelegrafista.
E’ il giorno dell’armistizio quando si trova a Roma, presso il “Distaccamento Marinai”.
Decide così di rientrare a casa per seguire da vicino gli sviluppi del conflitto. Ma soprattutto perché sa che, restando nell’esercito regolare, presto sarà sotto il comando della Repubblica di Salò, l’ultimo e disperato tentativo da parte del regime fascista di mantenere un controllo politico-militare sul Nord Italia, che sarà fondata pochi giorni dopo l’armistizio.
Torna dai suoi e, nella primavera del 1944, si aggrega ad un gruppo di partigiani che poi confluirà nel battaglione “Marzarotto”, operante nell’alta Val Posina.
Nel frattempo entra in contatto con i comunisti, alcuni dei quali tornati dalla Russia, che hanno iniziato a prendere il comando delle varie brigate, nel Nord Italia.
Il Marinaio assume il comando di una squadra della Divisione garibaldina “Garemi” e si dirigono, ai primi dell’agosto del 1944, verso Malga Zonta.
Qui terranno la posizione, fino al 12 agosto del 1944.
L’11 agosto del 1944
Qui si sparge la notizia di un imponente rastrellamento da parte delle truppe naziste.
Qualche reparto partigiano è già riuscito a fuggire, limitando le perdite. Mentre qui si attende e si spera in un aiuto da parte degli Alleati, che dovrebbero giungere in soccorso con uomini, munizioni e alimenti, ma, soprattutto, non si vuole perdere la posizione.
E così ci si organizza con sentinelle per la notte.
Del resto, se si riesce ad individuare i nazisti da lontano, ci sono diverse vie di fuga.
Quella notte cala la nebbia. Non si vede granché da lontano.
Ci sono diverse vedette sparse per la zona, tra il pian del lago Coe e passo Coe.
Il rastrellamento nazifascista inizia proprio dall’altopiano di Folgaria. Sono passate le 2 di notte.
Le vedette non riescono a vedere i nazisti, che si sono avvicinati sfruttando la nebbia. Quando sono ormai vicinissimi alla malga, una vedetta li vede, spara, ma ormai sono troppo vicini.
La strenua difesa
A questo punto i partigiani rimasti vivi decidono di arroccarsi nella malga. Non resta altra via. Dalla malga inizia un conflitto a fuoco che durerà diverse ore.
Le munizioni iniziano a scarseggiare, ma non c’è alcuna intenzione di arrendersi.
I tedeschi avanzano e accerchiano la malga. Le forze sono soverchianti, ma si registrano diverse perdite tra le truppe naziste.
I partigiani finiscono le munizioni.
Cala il silenzio.
Questo è il segno che i nazisti aspettavano per irrompere nella malga.
Entrano, ma Viola, in un disperato ultimo duello, si scontra corpo a corpo con un paio di soldati tedeschi. Questi hanno la peggio.
Bruno prende un paio di mitra dei soldati morti e inizia a sparare contro i tedeschi.
Ma finisce le munizioni.
L’eccidio di Malga Zonta
Ora i tedeschi irrompono in massa. E’ ormai l’alba del 12 agosto. Li accerchiano e gli ordinano di uscire dalla malga.
Il Marinaio e i suoi giovanissimi compagni escono fuori.
I tedeschi raggruppano i partigiani assieme ad altri 15 civili rastrellati nel corso dell’operazione, ma poi ne liberano alcuni.
I 15 partigiani vengono fatti mettere spalle contro la parete della malga. Accanto a loro ci sono tre malgari, ossia gestori di altre malghe, ritenuti spie dei partigiani.
La storia ci racconta che Bruno Viola, prima della fucilazione, avesse incitato i compagni a morire con onore e avesse gridato, poco prima degli spari, “Viva l’Italia”. Altre fonti sostengono che, invece, avesse gridato “Viva Stalin”. Non è certo cosa avesse effettivamente gridato. Di solito i partigiani, prima di essere fucilati, gridavano “viva l’Italia libera”.
Ma non è da escludersi che il “viva Stalin” fosse stato effettivamente pronunciato dal Viola, a ragione della sua educazione comunista in quei mesi passati tra i partigiani di formazione marxista.
Il rastrellamento della Val Posina si concluderà il giorno dopo, con la piena disinfestazione dei partigiani, come usavano dire i nazisti, e resterà in mano tedesca, tra bombardamenti, incendi di case e abitanti costretti alla fuga.
La medaglia d’oro al valor militare
Il monumento dedicato a Bruno Viola, a Malga Zonta
Il nascente Stato italiano insignerà Bruno Viola della medaglia d’oro al valor militare.
La motivazione di tale ricompensa ricorda che
Comandante di una pattuglia di partigiani, teneva fronte per lungo tempo a soverchianti forze tedesche che l’avevano circondato. Terminate le munizioni, abbatteva in lotta corpo a corpo due nemici e con le armi ad essi strappate prolungava l’eroica resistenza finché sparata l’ultima cartuccia, veniva sopraffatto e catturato. Condotto alla fucilazione, insieme ad altri compagni, li incitava al supremo sacrificio e prima di morire lanciava in faccia ai carnefici il grido: “Viva l’Italia!”
Non sappiamo se sia andata così. Sappiamo però, da fonti certe, che Viola e i suoi 14 compagni si son battuti sino alla fine, per un’idea, quella di un’Italia libera dagli invasori.
Partigiani di cui va ricordato il nome, per non perderne la memoria
Viola Bruno, Barbieri Marcello, Cocco Antonio, Cortiana Romeo, Dalla Fontana Fernando, Dal Medico Angelo, De Vicari Giocondo, Fortuna Bortolo, Gasparoni Gelsomino, Maistrello Angelo, Marcante Giuseppe, Marchet Eupremio, Scortegagna Mario, Tessari Giobatta, Zordan Domenico. Civili (gestori di malghe): Dal Maso Dino, De Pretto Gildo, Losco Angelo.