Il canale dei Fani è una delle pochissime zone umide del Salento. Si trova nel territorio di Salve ed è un trekking facile facile, che passa da alcune zone interessanti dal punto di vista storico, culturale ed etnoantropologico. Peccato che, come accade in molte zone del Salento, l’incuria e l’abusivismo degradino un territorio che, invece, avrebbe molto da offrire.
2 h A/R | |
9 km | |
T | |
8.11.2022 | |
La mappa del percorso
Qualche considerazione iniziale
I cambiamenti climatici ormai sono una realtà con cui fare i conti. Leggo spesso, quando si tratta questo tema, che è possibile affrontarli se.
Se cambiamo abitudini, se passiamo all’elettrico, se evitiamo questa o quell’altra cattiva abitudine.
Non è così. I cambiamenti climatici in atto si possono mitigare (non lottare né risolvere) solo se si cambiano gli attuali rapporti di produzione e si abbandona completamente il modo di produzione capitalistico, perché è un modello economico che, di per sé, tende a consumare più risorse di quante l’ecosistema ne produce, ad immettere scorie nell’ambiente più di quante ne possa assimilare e a scaricare le responsabilità verso il basso.
Quindi verso le amministrazioni, che si devono sorbire il problema dei rifiuti o dell’inquinamento dell’aria, ovvero verso la gente, che si sente chiamata in causa perché responsabile di guidare il pandino inquinante del 1989 o il vespino a due tempi che puzza di olio fritto mentre cammina.
Comportamenti inquinanti, certo, ma che rappresentano lo zero virgola delle reali responsabilità. Ciò significa che la nostra responsabilità come cittadini non è quella di lottare contro i cambiamenti climatici, ma di lottare contro quel modello economico che li ha prodotti.
Nel Salento a ciò si aggiunge anche un altro fenomeno, che è un corollario del modo di produzione capitalistico: la nuova latifondizzazione, le coltivazioni intensive che prendono sempre più piede e le speculazioni edilizie per favorire un turismo di massa che deturpa il territorio.
Queste potrebbero essere le cause dominanti dell’attuale fenomeno dei roghi (vedi qui qui e qui), che stanno lentamente contribuendo, insieme all’innalzamento delle temperature, a rendere il Salento una zona desertica.
Già lo è, in effetti. Buona parte dei terreni hanno sostanza organica pari a zero. Cioè son già deserto.
Quelle poche aree dove ancora è possibile intravedere un pezzo di natura si contano sulle dita di una mano. Penso al Bosco Belvedere, al bosco di Porto Selvaggio o al Bosco dell’Arneo (che minaccia di essere distrutto dalla Porsche) o al Parco Naturale Regionale Costa Otranto – S.Maria Leuca (colpito da un rogo, doloso?). Tra questi c’è anche il canale dei Fani.
Uno dei pochi posti dove c’è ancora un po’ di verde, di natura spontanea, di biodiversità.
Vi invito a dare un’occhiata a qualsiasi mappa per vedere quante aree verdi son rimaste in Puglia e, in particolare, nel Salento.
La mancanza di aree verdi contribuisce anche alla mancanza di piogge, cosa di cui il Salento ha estremo bisogno.
Dunque una zona come il canale dei Fani, ricco di acqua (rispetto al resto del territorio) è un ecosistema delicato e fragile, che va conosciuto e protetto.
Partiamo da Pescoluse
Ok, mi sono dilungato anche troppo nell’introduzione critica. Ora andiamo al sodo!
Il nostro percorso inizia dalla spiaggia di Pescoluse, più o meno nei pressi dell’hotel “La conca”. Ci dirigiamo verso l’entroterra dove, su strada asfaltata, andremo verso la grotta delle fate.
La segnaletica è scarsa ed irrazionale. Nel senso che a volte troveremo le indicazioni per il canale dei fani che ci portano verso direzioni opposte.
Ciò è dovuto al fatto che la rete viaria, nel Salento, è ampia (fin troppo) e, quindi, tutte le strade portano dove dobbiamo andare. Ma, quantomeno, non è facile perdersi, perché abbiamo il mare come riferimento.
La grotta delle fate
Dopo circa 2,5 km di camminata incontreremo, lungo la strada, la grotta delle fate.
La leggenda vuole che qui ci abitassero fate, orchi e municeddhi (o scazzamureddhi, carcajuli, carcaluri, ecc. ecc.), ossia degli gnomi protagonisti di numerosissime leggende salentine. Erano quelli che, per intenderci, entravano di notte in casa e facevano i dispetti più disparati, tra cui, quello più fastidioso, era di intrecciare le code dei cavalli (cosa che li fa imbizzarrire parecchio!).
Si narra che in questa grotta si trovasse la cosiddetta acchiatura, che, nel dialetto locale, s’intende il tesoro, che si trova (acchiare, in dialetto) o per caso o perché rivelato in sogno. O, ancora, perché il municeddho te l’ha indicato (perché, se gli stavi simpatico, ti faceva ricchi doni).
In realtà la grotta è un inghiottitoio carsico (vora, in dialetto), che serve a convogliare le acque superficiali in falda.
E altro che acchiatura! Gli speleologi che ci sono scesi, negli anni passati, hanno trovato come acchiatura rifiuti di ogni tipo, vista l’usanza di alcuni salentini di disfarsi dell’immondizia in modo originale: sotto i muretti a secco, nelle piazzole di sosta e, i più morigerati, sfruttando le vore e le grotte carsiche. Così nessuno vede niente.
Se volete saperne di più sulla grotta delle fate, dal punto di vista storico, archeologico e culturale, vi rimando a questo sito.
Proseguiamo verso il canale dei fani
Il percorso, come dicevo, è quasi tutto su asfalto, che attraversa campagne prive di vegetazione, con qualche pezzo di macchia mediterranea qua e là e tante, forse troppe, case vacanza.
Ma ogni tanto ti imbatti in qualche testimonianza dell’antica architettura rurale.
Mi riferisco, in particolare, a pajare (pagliare) e furneddhi (forni), ossia antiche costruzioni che, come si può notare, sono perfettamente integrate nel paesaggio. Aspetto che, in passato, era tenuto in conto, rispetto ad oggi.
Le pajare sono banalmente dei ricoveri per attrezzi agricoli, realizzate a secco (come i muretti) con la tecnica delle pietre ad incastro.
Erano usate anche come abitazioni temporanee durante i lavori in campagna. Difatti, se accompagnate dai furneddhi significa che lì ci abitavano e usavano il forno per cucinare, ma anche per cuocere le friselle (pane duro, a lunghissima conservazione) e farci le scorte per l’inverno.
Sul tetto di entrambi gli edifici ci mettevano spesso delle tavole su cui essiccare fichi e pomodori, anche questi da consumare durante l’inverno.
Ci addentriamo nella vegetazione
Ogni tanto incontreremo qualche segnale che ci indica la strada verso il canale del fano. Teniamo sempre come punto di riferimento la masseria Fani, che si trova proprio nelle vicinanze.
Il percorso l’ho fatto diverse volte e tutte le volte la masseria era aperta. Il ché ci favorisce, perché attraversandola arriveremo con facilità al sentiero che ci porta verso il canale.
Solo in un’occasione ho trovato i cancelli della masseria chiusi e, in questo caso, occorre fare il giro lungo, passando per la strada asfaltata che costeggia la masseria.
Arrivati all’imbocco del sentiero, la vegetazione si fa più lussureggiante e fitta, tipica di quella marina e mediterranea (canne di mare, borragine, malva, fiori di campo, lentischi, mirto, ecc.).
Qui si possono fare anche piacevoli incontri. Tipo un enorme rospo che sonnecchia tra la vegetazione.
Dopo una piccola salita coperta dalla vegetazione, ecco che arriviamo alla piana degli elefanti.
E’ stata ribattezzata così da uno studioso di Morciano di Leuca, Marco Cavalera, dopo aver osservato che l’edera ha interamente ricoperto vecchi alberi di ulivo, seccati per via del Co.Di.Ro. (approfondisci qui).
Li ha coperti a tal punto che i rami più grossi hanno permesso all’edera di adagiarsi in orizzontale, per poi scendere verso il suolo, creando un effetto scenico che ricorda dei grossi elefanti.
Un paesaggio bello, ma…
Il paesaggio è decisamente toccante, ma – a ben pensarci – anche terrificante. Perché l’edera è una pianta invasiva, che tende a mangiarsi tutto ciò che ha a tiro, quindi quando s’insedia in un territorio si allarga a tal punto da coprire ogni altra varietà vegetale, anche vivente.
Quindi il fenomeno è preoccupante, perché le varietà vegetali tipiche della macchia mediterranea crescono basse e sono facile preda di varietà invasive che, quando entrano in contatto, tendono a soffocare la pianta ospite.
Purtroppo ho visto l’edera mangiarsi pezzi di vegetazione un po’ dappertutto nel Salento. E quando s’insedia, è difficile estirparla. Anzi, più passa il tempo e più gli steli si irrobustiscono, tanto che diventano duri come corteccia.
Se visiti la zona in tarda estate, fino all’inverno, troverai l’edera lussureggiante, mentre in primavera potresti trovare questo scenario.
La cripta di Pantaleone
Un altro luogo che merita assolutamente una visita è la cripta di Pantaleone, che si trova proprio nella valle degli elefanti.
Se ci vai in autunno/inverno potresti avere difficoltà a trovare l’ingresso in quanto l’accesso è completamente ricoperto dall’edera.
Tuttavia è sufficiente individuare la parete rocciosa, sulla tua sinistra, con il sentiero alle spalle, per trovare l’accesso.
La cripta, come capita in molti altri luoghi archeologici del Salento, è soggetta all’abbandono più totale e gli affreschi presenti sono in tale stato di incuria che si vedono a malapena.
La cripta, di chiare origini bizantine, è abbastanza piccola (misura 2,70 mt x 3,20 mt) ed è interamente scavata nella roccia.
Appena entrati troviamo due piccoli ambienti: quello principale, dove i partecipanti alle funzioni religiose prendevano posto sui sedili ricavati lungo le pareti laterali, ed una piccola abside, in fondo alla grotta.
Durante l’escursione ho provato a proseguire, lasciandomi la cripta di Pantaleone sulla sinistra, passando attraverso delle canne di mare, per raggiungere la grotta dei fani, un altro inghiottitoio carsico che si trova poco più avanti, ma il sentiero era sbarrato da numerose canne di mare ed era impossibile proseguire.
Purtroppo nel Salento ci sono pochi sentieri e quei pochi sono trascurati e resi inagibili proprio dall’incuria. Peccato, perché basterebbe davvero poco per attrarre un certo tipo di turismo, molto più attento e sostenibile del turismo di massa che invece caratterizza il Salento e che non ha a cuore la bellezza dei luoghi, ma sporca, fa chiasso e lascia poco, molto poco sul territorio, immondizia a parte.