Perché il socialismo è meglio

Di recente mi è capitato di rivedere il film Good bye Lenin del 2003 di Wolfgang Becker, interpretato da Daniel Brühl e Katrin Sass.

Il film racconta, apparentemente in tono neutro, l’anno della riunificazione della Germania, con il dissolvimento della Repubblica Democratica tedesca (DDR) e il conseguente crollo del Muro di Berlino.

Rivedere il film, a distanza di un po’ d’anni, mi ha ricordato che, in fondo, il socialismo reale non è poi così malaccio, viste le condizioni in cui ci troviamo ora, nella fase iniziale di decadenza del capitalismo e di perdita dell’egemonia statunitense, con il suo corredo di guerre e scelte tattiche dettate dall’insana voglia di mantenere ciò che s’è perso.

La trama di Good bye Lenin

Nel film la storia della famiglia di Alexander (il protagonista) è inscindibilmente legata a quella della DDR.

La madre Christiane, ristabilitasi dopo un periodo di malattia e dopo aver perso il marito, scappato all’Ovest, sposa completamente la causa socialista. Diventerà una paladina del socialismo e le sue attività pedagogiche e critiche costruttive nei confronti del regime le varranno diversi riconoscimenti.

Purtroppo la donna verrà colpita nuovamente da un attacco, provocandole l’infarto e poi il coma quando, mentre si reca ad una serata di gala per il quarantesimo anniversario della DDR, vede il figlio Alexander arrestato durante una manifestazione per la libertà d’espressione.

Miracolosamente e grazie anche alle cure del figlio, la donna si risveglierà dal coma, fragile e cagionevole. Quindi anche un minimo sussulto le potrebbe essere fatale.

Per evitare il peggio, il figlio, astutamente ricrea nelle mura domestiche lo stesso ambiente socialista, in un mondo esterno che, in poche settimane, dopo il crollo della DDR, sposerà in pieno la causa occidentale e consumistica.

Lì, in quella casa, invece, nulla appare cambiato. «Che strano, non è cambiato niente», dice la madre mentre rientra in casa, dopo mesi passati in ospedale. «Perché, doveva cambiare qualcosa?», risponde il figlio, mentre fuori dalla finestra un dirigibile della Coca-cola simboleggia trionfalmente l’inizio dell’economia di mercato e la fine dello stato sociale.

Dopo pochi giorni, alla ricerca spasmodica degli alimenti prodotti sotto la DDR, Alex sembra averci preso gusto, tanto da dire: «Devo ammetterlo, ormai il gioco mi aveva preso la mano. La Repubblica Democratica che stavo creando per mia madre, assomigliava sempre più a quella che avrei potuto desiderare io.» 

Il fenomeno dell’ostalgia

Come dicevo, il film racconta le vicende del crollo della DDR in tono apparentemente neutro.

Tuttavia si percepisce, nel fondo, una certa nostalgia verso quel mondo dove il socialismo, seppur applicato in modo autoritario, è vissuto, dopo la sua dissoluzione, con una punta di tristezza.

In effetti il film rappresenta l’apice del processo di ostalgia, un fenomeno chiamato così dalla sociologa Katja Neller che la definisce come valorizzazione retrospettiva dei nuovi cittadini tedeschi (o degli ex cittadini della Germania orientale) verso la DDR.

E in effetti, per tutti gli anni Novanta ed i primi anni del nuovo Millennio, si assisteva, in Germania, ad un sempre crescente fenomeno ostalgico, segnato, materialmente, dalla nascita del Dokumentationszentrum der Alltagskultur der DDR, un museo e Centro di documentazione della cultura della DDR, che racconta le storie, anche di vita quotidiana, sotto la DDR e che conserva la memoria di quel quarantennio.

La nostalgia non solo in Germania

Chi ha memoria della vita sotto i più svariati regimi socialisti, specie nell’Est Europa o in Medio Oriente o ai piedi dell’Asia, ricorderà il senso di oppressione misto, però, alla sicurezza di poter riempire la pancia ogni giorno e il senso di uguaglianza sostanziale tra le persone.

Mentre leggevo delle avventure di Ermes, un blogger viaggiatore, in Kirghizistan mi imbattevo in quest’articolo, dove Ermes chiedeva ad una signora kirghisa se si stesse meglio sotto l’URSS.

Lei estende la domanda all’altro passeggero e al tassista, poi tutti e tre convengono rapidamente che sì, si stava meglio sotto l’URSS per le seguenti ragioni:

1. C’era ordine e le persone rispettavano la legge. Oggi la polizia è corrotta, se sgarri basta pagare e puoi continuare a sgarrare impunito.

2. C’era più uguaglianza e nessuno faceva la fame. Oggi la forbice tra ricco e povero è molto più ampia e aumenta ogni anno.

3. C’era pace: non c’erano tensioni e guerre di confine con Uzbekistan e Tajikistan.

Insomma, scrive Ermes, stando al mio campione statistico, il vento della perestrojka da queste parti non sembra aver infiammato gli animi. Per rimanere in tema quasi che vorrei chiedere se conoscono la melensa Wind of change degli Scorpions, ma è meglio lasciare stare: siamo già risaliti in macchina con Toto Cutugno a tutto volume.

Il fenomeno ostalgico non è solo tedesco. In fondo lo abbiamo vissuto anche noi, in forme diverse. Chi, come me, è abbastanza vecchio da ricordare gli anni ottanta e novanta, ricorderà pure la sanità o la scuola pubblica, piene di falle, ma che funzionavano. Anche se, c’è da dirlo, già quelli erano anni del tatcherismo, con il suo carico di ultraliberismo e di parole d’ordine, volte ai governi nazionali, di smantellare il sistema di welfare pubblico a suon di tagli e corruzione interna.

Non è un caso che paesi come la Finlandia o la Norvegia o la Svezia siano annoverati tra i paesi più felici al mondo e siano quelli che puntano tutto sul welfare pubblico e su forme, seppur attenuate, di redistribuzione delle risorse.

Dal socialismo reale all’economia di mercato

Dunque, se nel resto d’Europa, specie subito dopo la seconda guerra mondiale, c’è stata una sorta di equilibrio tra economia di mercato e stato sociale, in cui abbiamo assistito gradualmente alla dissoluzione di quest’ultimo, dandoci il tempo di abituarci, in Germania Est è stato un vero e proprio cambio di registro.

E così hanno affrontato l’economia di mercato, con il suo carico di concorrenza, di costituzione della società in classi, di creazione di nuove povertà, di disparità di trattamento, gap tra città e periferie, gentrificazione, disillusione politica, individualizzazione e sfaldamento dei diritti sociali.

Se è vero che il regime socialista, nella storia, ha applicato uno scellerato pauperismo di fondo, che oggi appare superato (quantomeno nelle intenzioni dei pochi socialisti sopravvissuti), è anche vero che il capitalismo produce povertà ben più frustranti e discriminazioni ben più evidenti, scaricando tutte le responsabilità sull’individuo.

Sei povero? Non sei capace di trovare un lavoro? E’ colpa tua! Sei tu che non sei in grado di competere nel mercato del lavoro. Credi che lavorare 10 ore al giorno per 1000 euro al mese sia sfruttamento? No, è solo fare la gavetta, per ambire a qualcosa di meglio. Non riesci a far carriera? A progredire? E’ ancora e sempre colpa tua. Non pensare di sindacalizzarti. I sindacati so’ cosa vecchia. Devi competere, non collaborare con il tuo collega!

Guarda chi ce l’ha fatta, che gira con il macchinone e ha la villa al mare. Prendi loro come esempio, diventa come loro.

Formati continuamente! Acquisisci nuove skills, nuove competenze. Scaricati di dosso il peso della famiglia, degli affetti o dell’amore verso la tua terra e, se qui non trovi lavoro, vai via, magari nelle megalopoli, dove le opportunità sono maggiori. E quando sei lì, accontentati di un contratto a tempo determinato o di un lavoro senza tutele sindacali. E’ roba vecchia! Flessibilità, è questo il tuo nuovo credo.

Questo è, più o meno, il concetto di fondo del mercato del lavoro in un’economia di mercato.

La democrazia che non c’è

Premesso che, stando alle teorie marxiste, il socialismo è solo uno stadio di evoluzione prima di arrivare alla completa liberazione dell’individuo, che collaborando con altri individui, genera una società più equa e una ricchezza diffusa, tuttavia il socialismo, come stadio intermedio, non è poi tutta sta cattiva cosa. Anzi.

Qualcuno storcerà il naso a leggere un articolo che difende il socialismo, perché lo leggerà con le lenti storiche e dirà che nei regimi socialisti c’erano le dittature, le libertà individuali erano limitate, la gente moriva nei gulag, la libertà di stampa non esisteva e cose così.

Perché mo’? Non è che nei regimi democratici le cose siano così diverse. Le cose appaiono diverse. La democrazia non è una conquista del liberalismo teorizzato dai filosofi come Locke o Croce, né uno stadio di sviluppo del liberismo economico, è stata, invece, una mediazione nella lotta di classe che si è andata a creare nella dialettica servo-padrone sin dalle conquiste borghesi della rivoluzione francese contro i nobili, per poi passare al conflitto tra borghesi e classe operaia/contadina.

Successivamente, dopo gli sconvolgimenti bellici, la democrazia, almeno in Europa, è stata di nuovo una mediazione tra le istanze comuniste e quelle liberali portate avanti principalmente dalla DC.

Però la democrazia, quale stato intermedio frutto di una mediazione, non è una conquista assodata.

Le spinte del capitale per erodere i diritti sociali ed influenzare i comportamenti individuali al fine di ridurre al minimo la critica all’esistente sono forti ed incisive.

Inoltre il potere politico-amministrativo e giudiziario, subordinato a quello economico, tende per sua natura a zittire la critica (quella efficace, non quella di facciata), con la persuasione e, quando occorre, con la violenza.

Per fare giusto un paio d’esempi, il movimento No-Tav è stato ripetutamente attacco di violenze da parte del potere. Una sua rappresentante, Nicoletta Dosio, è stata reclusa per motivi politici. Altro esempio, il caso Cospito. E’ stato applicata, per lui, una fattispecie di reato che, nella storia giudiziaria, non è mai stata usata, nemmeno quando si sarebbe dovuto fare.

Per finire, la democrazia, in un’economia di mercato in cui non tutti sono uguali, ci sono i super ricchi e i poveri, la classe media s’impoverisce, i servizi sociali finiscono nelle mani private e diventano merce, è chiaro che non dispiega i suoi effetti che restano solo sulla carta.

A parole possiamo dire di vivere in un paese democratico, ma nei fatti? Anche la libertà d’espressione è un concetto meramente ideale e non messo in pratica. Sono libero di dire quello che voglio? Certo, nei limiti del rispetto della legge e della dignità altrui. Ma quanto sono efficaci le mie parole in confronto al bombardamento mediatico nei canali – di massa e non – occupati dal potere, nelle sue più svariate forme? Anche forme che appaiono antisistema, ma che sono funzionali a mantenere lo status quo.

Elogio dei socialismi imperfetti

Carlo Formenti ha di recente pubblicato un interessante volume, Guerra e rivoluzione, elogio dei socialismi imperfetti (Meltemi, 2023), in cui analizza l’applicazione del marxismo nelle varie realtà globali, dicendo che in ognuna di queste il socialismo s’è sviluppato in modo diverso a seconda delle tipicità culturali, economiche, demografiche e sociali del paese. Non esiste un socialismo uguale dappertutto, ma esistono diverse applicazioni e diversi contesti sociali.

Imperfetti, si legge qui,

non perché non corrispondono al modello ideale elaborato da Marx ed Engels e rimasto sostanzialmente immutato in tutta la storia novecentesca. Chi ha letto il primo Volume, sa che considero quel modello del tutto obsoleto, sia perché frutto di elaborazioni condotte in un contesto economico, politico e sociale radicalmente diverso dall’attuale, sia perché ibridato con paradigmi – evoluzionismo, positivismo, progressismo e modernismo borghesi, ecc. – estranei alle stesse fondamenta della ontologia sociale marxiana. Né a rendere imperfetti questi socialismi è il fatto che si tratta di formazioni sociali in cui permangono il mercato e la proprietà privata, bensì il fatto che, pur avendo incredibilmente migliorato le condizioni della stragrande maggioranza delle persone che in esse vivono e lavorano, convivono con una serie di contraddizioni che ne rendono imprevedibile l’ulteriore evoluzione. Si tratta cioè di società in transizione che potranno approdare a esiti differenti in base all’evoluzione delle contraddizioni di cui sopra, e ancor più in base ai rapporti di forza che riusciranno a instaurare con i Paesi capitalisti del blocco occidentale (…).

Tutto questo ci porta alla guerra che Stati Uniti ed Europa hanno scatenato non solo contro questi Paesi ma anche contro tutti quelli che, pur non essendo socialisti, tentano di sottrarsi al loro dominio. Molti marxisti occidentali vedono, in questa alleanza “spuria” fra Paesi in via di sviluppo con regimi fra loro ideologicamente assai diversi, l’ulteriore conferma del fatto che Paesi come Cina, Bolivia, Venezuela, Cuba non sono “veramente” socialisti. Analogamente non viene digerito il fatto che queste nazioni mantengono un ferreo controllo politico sulle dinamiche di mercato presenti al proprio interno, il che induce a definirli totalitari e antidemocratici (laddove si intende che l’unica “vera” forma di democrazia è, per definizione, la democrazia rappresentativa occidentale). Tali accuse non vengono rivolte solo alla Cina, dove vige un regime di partito unico, ma anche a Bolivia e Venezuela, benché in questi Paesi le forze rivoluzionarie siano andate al potere per vie legali e abbiano continuato a governare rispettando le procedure della democrazia formale (…).

Invito i miei amati quattro lettori a continuare l’interessante lettura sul blog di sinistrainrete e, magari, di leggere direttamente il libro di Formenti, che fa chiarezza su molte letture distorte del marxismo, mettendo in luce anche alcuni limiti delle letture di Marx sugli sviluppi successivi del capitalismo.

Nell’esortarci a leggere questo contributo, chiudo con una domanda che appare retorica: il socialismo è imperfetto, perché incontra numerosi ostruzionismi sia intrinseci (la borghesia, intenzionata a mantenere il potere di accumulazione dei capitali) che estrinseci (i paesi imperialisti, che vogliono mantenere il dominio globale e le cui classi dominanti vogliono continuare ad accumulare capitali), ma la massa delle persone ha tutto da guadagnare da un sistema che tende per sua applicazione pratica a redistribuire le risorse e favorire le classi svantaggiate. Cos’abbiamo da perdere dal socialismo che non abbiamo già perso in sessant’anni di liberismo sfrenato che ci ha ridotti alle pezze e ci ha costretti a diffidare l’uno dell’altro?

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