L’abuso di Stato: i casi Cospito e Ficicchia

Alfredo Cospito rischia di morire in carcere, in regime di 41bis, con una condanna e una qualificazione del reato nettamente sproporzionate al fatto commesso. Per Simone Ficicchia è stata richiesta la sorveglianza speciale dalla Questura di Pavia. Ma cos’avranno mai fatto? Cos’è il 41bis? E la sorveglianza speciale? E perché questi due casi meritano attenzione? Infine, perché parlo di abuso di Stato?

La notizia è piuttosto nota in questo periodo: Alfredo Cospito rischia di morire in carcere, in regime di 41bis. E’ questione di settimane, forse di giorni. Chiuso. In isolamento. Senza poter vedere nessuno. Senza contatti nemmeno con gli altri detenuti. Solo, in una cella singola, con solo un letto, un tavolo, una sedia fissata a terra e senza privacy, nemmeno quando va a pisciare. Addirittura, come scrive Sofri in quest’articolo, che spiega meravigliosamente bene la faccenda

Si è appreso giorni fa che Cospito “non può tenere in cella le foto dei genitori defunti in quanto viene richiesto il riconoscimento formale della loro identità da parte del sindaco del paese d’origine”

Ma cos’avrà fatto mai uno a cui è negato persino il diritto alla memoria dei propri genitori, ricordandoli con una semplice foto da stringere tra le mani?

Una foto è un’arma? Un modo per comunicare con l’esterno, magari tramite l’aldilà?

Chi è Cospito? Sarà un feroce assassino? Un mafioso? Un violentatore seriale di bambini?

No, è un anarchico. Difatti, l’etichetta di anarchico viene ribadita in ogni articolo finora uscito sulla questione, quasi a dimostrare che sì, simpatizziamo per lui, però, vedi, è anarchico, è uno che non tollera le regole, le istituzioni, l’ordinata convivenza sociale. E’ un modo come un altro per dire che, in fondo, merita il carcere, anche se, dai, di morire no.

Il caso Cospito e la condanna sproporzionata

Alfredo Cospito, quand'era ancora in salute
Alfredo Cospito, quand’era ancora in salute

La vicenda, come dicevo, è stata egregiamente riassunta da Adriano Sofri, sul Foglio. Scrive Sofri

L’anarchico Alfredo Cospito è in carcere. Ha 55 anni. Era stato condannato a 10 anni e 8 mesi nel 2014, perché dichiarato responsabile di aver ferito alle gambe l’amministratore dell’Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, nel 2012. E’ stato accusato inoltre di aver collocato due pacchi esplosivi “a basso potenziale” nel sito della Scuola per allievi carabinieri di Fossano (Cuneo), nel giugno 2006, dunque più di 16 anni fa. Si è riconosciuto che si trattasse di un atto dimostrativo, senza intenzione, e senza l’effetto, di nuocere all’incolumità di alcuno. Cospito ha trascorso 6 anni di carcere nel regime detto di Alta Sicurezza, che prevede forti restrizioni sia al modo della detenzione che alle possibilità di una sua attenuazione attraverso l’accesso a permessi e misure alternative. Nello scorso aprile, l’Alta Sicurezza è sembrata inadeguata alla Giustizia che ha disposto di sottoporre Cospito al regime del 41 bis.

Dunque Cospito è reo di aver commesso un attentato nel 2012, per cui è stato già condannato. Poi, però, la Procura di Torino ha rispolverato un vecchio fatto, del 2006, un tentativo di attentato alla Scuola per allievi carabinieri di Fossano, per cui non c’è stata alcuna vittima. E’ stato solo un atto dimostrativo che ha provocato lievi danni materiali. In particolare sono esplosi due cassonetti, una gabbia di recinzione e, forse, c’è stato qualche buco nel muro della caserma per le schegge che sono partite.

Eppure per quel fatto è stato invocato il reato di strage comune.

In realtà la Procura aveva sin da subito chiesto di applicare a Cospito il reato di strage politica, ma il Tribunale ha ritenuto eccessiva la richiesta. Condannato in primo grado, si è arrivati in appello.

Il processo d’appello è terminato con la condanna di Cospito a 20 anni di reclusione, da scontare nel carcere di Terni. A maggio c’è stato il ricorso in Cassazione, che – sorprendentemente – ha mutato il reato da strage comune a strage politica, per cui è previsto l’ergastolo ostativo.

L’ergastolo ostativo, a differenza di quello comune, coincide con il concetto di “fine pena mai”, cioè è impossibile, per chi ottiene questa condanna, ottenere permessi premio e, in generale, accedere a quella che è la finalità della reclusione: la riabilitazione e il ritorno alla libertà.

Dopo questa condanna, Cospito è stato trasferito nel carcere di Sassari.

Strage comune vs strage politica. La strategia della tensione e l’inapplicabilità dell’art. 285 c.p.

Che differenza c’è tra strage comune e strage politica? Cosa s’intende per strage?

Per capire la gravità della condanna di Cospito occorre spendere giusto due parole sui concetti giuridici di strage politica e strage comune per poi vedere quando sono stati applicati nella storia giudiziaria italiana. Ma prima occorre definire il concetto di strage.

Strage comune e definizione di strage

L’articolo 422 del Codice Penale dice

Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 285 (che tra poco vedremo, ndr), al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità è punito, se dal fatto deriva la morte di più persone, con l’ergastolo.

Se è cagionata la morte di una sola persona, si applica l’ergastolo. In ogni altro caso si applica la reclusione non inferiore a quindici anni.

Praticamente la strage consiste nel mettere in pericolo la pubblica incolumità. Non occorre che ci scappi il morto. In questo caso si integreranno altri reati (omicidio) e si applica la condanna dell’ergastolo. Però occorre che si provi il dolo (la volontà di uccidere), altrimenti non si configura questo reato.

Quindi due sono i requisiti fondamentali per applicare questa fattispecie: il dolo, anche eventuale e un pericolo concreto.

Dolo eventuale significa che non è detto che ci sia la volontà di uccidere, ma l’agente (chi commette il fatto) si prefigura in testa la possibilità che possa accadere e accetta il rischio che accada.

Vediamo un attimo una recente massima della Corte di Cassazione, presa da qui. Leggiamola bene, ci tornerà utile tra poco (il grassetto e sottolineato è mio).

Cass. pen. n. 40274/2021. Ai fini del concorso nel delitto di strage, è sufficiente un contributo limitato alla sola fase preparatoria e di organizzazione logistica del reato materialmente commesso da altri concorrenti, non occorrendo la conoscenza dell’identità di chi agirà, delle modalità esecutive della condotta e dell’identità della vittima, purchè vi sia la consapevolezza dell’idoneità della propria azione a mettere in pericolo una pluralità di persone e del suo collegamento ad una più ampia progettazione delittuosa, finalizzata alla realizzazione di almeno un omicidio di rilevante impatto sul territorio. (Fattispecie relativa alla strage di via D’Amelio, in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità dell’imputato in concorso per aver procurato, dopo specifica e mirata ricerca, una autovettura rubata e targhe false, nonché la strumentazione indispensabile per collegare i dispositivi destinati a provocare l’esplosione, nella consapevolezza di contribuire, sia pure nella fase preparatoria, ad un attentato dinamitardo nella pubblica via). (Annulla in parte senza rinvio, CORTE ASSISE APPELLO CALTANISSETTA, 15/11/2019)

Chiaro? Occorre che l’agente (chi commette il fatto) o un suo aiutante (il concorrente nel delitto) sia consapevole che sta mettendo a rischio l’incolumità pubblica, ma questa consapevolezza va integrata con la volontà di uccidere o una persona che ha influenza sul territorio oppure una o più persone dalla cui morte scaturisce un impatto politico, emotivo, sociale sul territorio.

La sentenza, di condanna per il reato di strage comune, si riferisce alla strage di via d’Amelio, dove perse la vita il giudice Borsellino, insieme ad altre sei persone. In questo caso non si trattava di esplosivo a basso potenziale, ma un’autobomba con 100 kg di tritolo. E’ evidente, in questo caso, la volontà di uccidere?

Ok, tra poco ci torniamo.

Cos’è il reato di strage politica?

L’art. 285 del codice penale, rubricato Devastazione, saccheggio e strage così recita:

Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con la morte (1).

(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dal D.Lgs.Lgt. n. 224/1944.

La pena di morte è stata commutata, successivamente alla riforma del codice Rocco, in quella dell’ergastolo.

La giurisprudenza ha sempre pacificamente riconosciuto che per aversi il reato di strage politica occorra un dolo specifico, cioè la volontà di minare dalle fondamenta l’ordine democratico costituito e la sua struttura politica fondamentale: lo Stato.

Non ci sono molte sentenze su quest’articolo, proprio perché non è mai stato usato. Infatti troviamo sentenze molto vecchie ed incidentali, ossia che son servite a distinguere questa fattispecie da quella vista poc’anzi.

Vediamone una, per capire meglio (grassetto mio).

Cass. pen. n. 10233/1988. Il delitto di cui all’art. 285 c.p. si differenzia da quello di cui all’art. 422 c.p. unicamente per la presenza, nel primo, del dolo specifico costituito dalla intenzione che l’evento si ripercuota sulle istituzioni statuali come lesione anche alla personalità giuridica dello Stato. Il dolo specifico costituito dalla intenzione di uccidere, richiesto dall’art. 422 c.p., non può essere surrogato dal dolo eventuale che riguarda il dolo generico e che, essendo indiretto, è ontologicamente incompatibile con quello specifico.

La strategia della tensione e la guerra Stato-mafia

Dunque la fattispecie di strage politica non è mai stata applicata, dalla fondazione della Repubblica ad oggi. Nemmeno durante la cosiddetta fase della strategia della tensione, dove numerosi gravissimi fatti sono stati rubricati come strage comune.

La strage dell’Italicus, la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, la strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 e la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 sono tutti fatti che facevano parte di una precisa strategia volta a minare dalle fondamenta l’ordine costituito, ad opera di gruppi neofascisti.

La stessa lunga stagione della guerra stato-mafia ed in particolare il biennio 1992-93, detto stagione delle bombe, in cui vi sono stati omicidi ed attentati a numerose personalità dello Stato (giudici, poliziotti, prefetti, politici, giornalisti, ecc.) e in cui sono state usate numerosissime autobombe, atte a commettere stragi, è stata rubricata spesso, in giudizio, come omicidio, strage comune, attentato, ecc.

Mai i giudici hanno usato il concetto di strage politica, nemmeno quando era evidente che lo fosse. Nemmeno in considerazione del fatto che i singoli fatti appartenevano ad una lunga, complessa ed unitaria, strategia mafiosa, che incideva direttamente sulla personalità giuridica dello Stato e non solo sui suoi membri.

Infatti, in riferimento alla strage di piazza della Loggia, va citata una memoria del PM che si occupò del caso, del 2008, in cui viene citato il neofascita Maggi, secondo il quale

il sistema va abbattuto mediante attacchi continui che ne accentuino la crisi; l’obiettivo è di aprire un conflitto interno risolvibile solo con lo scontro armato.

Dichiarazioni come queste fanno subito pensare a quanto detto poco fa: c’è il dolo specifico nell’attentato di piazza della Loggia, come in altri attentati di quel periodo, il dolo finalizzato a minare le fondamenta dello Stato, il quale integra l’applicazione del reato di strage politica.

Ma in quel caso, come in tutti gli altri, non è stato applicato.

Ricordate la sentenza di poco fa che parlava della strage di via D’Amelio? E’ evidente che quella fu una strage politica, perché è stato ucciso un servitore dello Stato, in una stagione in cui lo Stato, appunto, è stato sfidato dall’ordinamento mafioso.

Eppure, lo abbiamo letto, la Cassazione ha ritenuto – un paio d’anni fa – di ritenere quella una strage comune.

Perché Cospito, che non ha ucciso nessuno e non ha attentato contro figure apicali dello Stato, è stato condannato come uno stragista politico?

Alfredo Cospito, una condanna senza rinvio

Ora, non starò qui ad esaminare gli esiti del processo, perché questo esula dallo scopo dell’articolo e lo renderebbe più gravoso. Chi vuole approfondire, può leggere questa intervista all’avv. Gianluca Vitale, uno dei difensori di Cospito, che ha evidenziato molte contraddizioni nell’iter giudiziale che ha portato alla condanna di Cospito, uno tra i tanti, l’uso di esplosivo a basso potenziale che non era idoneo a uccidere, oppure l’orario e il luogo dell’attentato, anch’essi inidonei a commettere una strage.

Il punto principale è che la Corte di Cassazione, deputata a giudicare sul punto di diritto, ha ampliato – nel caso in specie – i suoi poteri, giungendo persino a mutare la fattispecie di reato, senza rinviare al giudice di merito per la definizione del reato, ma solo per l’applicazione della pena.

Un modus operandi che non è tipico di un organo giurisdizionale deputato solo a statuire su punti di diritto e non su quelli di fatto. Poi ha adottato una linea giurisprudenziale così nuova e priva di precedenti che sembra essere ad personam.

Inoltre, com’è stato giustamente osservato, il reato di cui all’art. 285 è incostituzionale nella parte in cui prevede una pena senza una cornice edittale, cioè senza stabilire un minimo e un massimo.

Qualcuno potrebbe eccepire che, se davvero fosse incostituzionale, se ne sarebbero accorti prima e l’avrebbero modificata o abrogata prima.

Ma, come detto più volte, la norma non è mai stata applicata e mai ci si è posti il dubbio sulla sua costituzionalità.

Ora sarebbe il caso di farlo. Di valutare, cioè, se il reato di strage politica non è una fattispecie eminentemente… politica, ossia da usare come bavaglio contro eventuali forme di protesta, costituzionalmente garantite.

Cos’è il 41 bis

E ora veniamo ad un’altra faccenda piuttosto ambigua. Ossia l’uso smodato e fuori dalla ratio originaria per cui è nato l’istituto del 41bis.

Ma prima vediamo cos’è.

L’art. 41bis della L. 26 luglio 1975, n. 354, cosiddetto Ordinamento penitenziario, viene introdotto nel 1986 dalla legge Gozzini ( L. 10 ottobre 1986, n. 663) al fine di gestire solo le situazioni di emergenza nelle carceri.

Per esempio, in caso di rivolte, i promotori e i più facinorosi potevano essere messi in isolamento con la sospensione temporanea dell’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti.

Una sospensione, però, che doveva sempre essere motivata dalla necessità e nei limiti della durata strettamente necessaria.

Queste prescrizioni, grossomodo, rispettano i limiti della discrezionalità amministrativa. In particolare l’obbligo di motivazione e la durata proporzionata alla necessità.

Nel 1992, dopo la strage di Capaci e di via D’Amelio, il guardasigilli Martelli firmò subito un decreto che estendeva l’articolo 41 bis (secondo comma) ai detenuti di mafia e agli indagati-imputati di criminalità organizzata.

L’estensione della norma mirava a impedire ai boss in stato di detenzione di avere contatti con la famiglia o con gli affiliati, continuando a comandare e impartire ordini.

Altro obiettivo indiretto era quello di indurre i mafiosi a collaborare, introducendo integrazioni alla legge sui collaboratori di giustizia.

Nel 2002, sull’onda emotiva dell’omicidio di Marco Biagi, il regime del carcere duro venne esteso anche ai condannati per terrorismo ed eversione e altri tipi di reato.

Nel 2009, il Governo Berlusconi adottò la legge Disposizioni in materia di sicurezza pubblica (L. 15 luglio 2009, n. 94) in cui, di fatto, impose il 41bis come regola generale dell’Ordinamento (e non più come eccezione), la normò e stabilì che il 41bis può durare quattro anni e le proroghe possono essere di due anni ciascuna.

Nel 2017, in un contesto ormai di strutturazione del 41bis come norma generale, è stata emanata una circolare contenente dieci norme per regolare la vita dei detenuti al 41bis. Oltre ai rapporti dei detenuti con l’esterno e la socialità nel carcere, il provvedimento stabilisce le norme per l’aumento della riservatezza dei carcerati, il diritto ad avere libri e altro materiale per motivi di formazione e infine l’obbligo, per i direttori del carcere, di rispondere alle richieste dei condannati entro un tempo stabilito (fonte).

Perché si è passati dai mafiosi ai reati politici

Il 41bis prevede il carcere duro. Sul fatto che sia un regime carcerario degradante, che privi i detenuti dei più elementari diritti e che possa portare a menomazioni fisiche e psichiche è fuori discussione. L’Italia è stata più volte richiamata (e sanzionata) dall’Ue per l’applicazione di questo regime carcerario.

Tuttavia la ratio con cui è nato è – presa con le pinzette – condivisibile, perché limita l’influenza dei boss che, dal carcere, possono continuare a comandare.

Basti vedere uno dei tantissimi film che parlano di mafia (il primo che mi viene in mente: Quei bravi ragazzi, di M. Scorsese) per capire che nelle carceri, spesso, i boss ottengono, in un modo o nell’altro, un trattamento di favore. E il cinema, spesso, è più realistico di quella che è la rappresentazione della realtà mediata dalle cronache.

Dunque occorre trovare un bilanciamento tra la tutela dei diritti fondamentali e la lotta alla criminalità organizzata.

Ma quel bilanciamento è stato più volte tradito negli ultimi anni, da quando, cioè, questo regime è stato strutturato ed esteso a campi delicati, come quello della lotta ai reati politici.

Qui l’aura di discrezionalità del potere assume una portata mostruosa, diventa quasi arbitrio ed è incompatibile con quel concetto di giusta misura della discrezionalità, tipico dell’agire amministrativo.

Detto in altri termini, il confine tra la repressione dei reati e quella del dissenso diventa sempre più labile.

Poi non stupisce, in questo ambito, che i giudici possano mutare la configurazione del reato, i direttori dei penitenziari possano vietare persino di tenere delle foto, le Procure possano rispolverare vecchi fatti o le questure possano chiedere forti limitazioni delle libertà, tutto al fine di punirne uno per educarne cento.

Alla faccia dello Stato di diritto.

Il caso Simone Ficicchia

Il "sorvegliato speciale", il ventenne Simone Ficicchia
Il “sorvegliato speciale”, il ventenne Simone Ficicchia

Questo concetto di cui parlavo, dell’abuso del potere e dello sbilanciamento della discrezionalità a vantaggio del potere, al fine di reprimere il dissenso, è ampiamente dimostrato nel caso Ficicchia. Un caso molto simile, dal punto di vista dell’abuso di Stato, a quello Cospito, ma anche a quello di Mimmo Lucano, che ha subito una condanna sproporzionata ai (presunti) reati contestati.

Un ragazzo di 20 anni, di Voghera, attivista del collettivo Ultima generazione, chiamato così perché i membri sono consapevoli di essere l’ultima generazione sulla Terra, se non s’interviene sui cambiamenti climatici.

E infatti Ficicchia, sensibile sul tema, ha fatto, insieme ai suoi compagni, delle azioni dimostrative forti, ma – attenzione – mai dannose. Come quella che l’ha visto protagonista dell’imbrattamento dei muri del senato con… vernice lavabile. Per questo e per altre forme di dissenso civile, come qualche blocco stradale o altre azioni dimostrative, Ficicchia è un sorvegliato speciale dalla Questura di Pavia.

O meglio, la Questura l’ha richiesto, ma la Procura si è limitata a chiedere la sorveglianza semplice.

La sorveglianza speciale è un istituto che si basa su un presupposto fumoso: la pericolosità del sorvegliato. Un concetto che, appunto, lascia ampio margine di discrezionalità, così ampio da essere incompatibile con l’azione costituzionale del potere, che vuole – lo dicevamo prima – una discrezionalità limitata dai paletti della legge e dal bilanciamento degli interessi.

Chi definisce chi sia pericoloso e chi no? Sulla base di quali criteri? E’ pericoloso chi critica il potere oppure non lo è? E fino a dove si può spingere la critica?

Un istituto del genere non può basarsi su concetti così labili, perché limita fortemente le libertà individuali. Prevede, per esempio, l’obbligo di dimora, di firma, il divieto di uscire in orari serali, ecc.

Tutto ciò è in contrasto con ogni principio costituzionale, perché la punizione del reo si basa su reati accertati e non su meri indizi o ipotesi investigative. Qui saremmo, semmai, nel campo delle misure di sicurezza, ma anche queste sono contemperate dall’applicazione del diritto di difesa dell’indagato e, comunque, sono sempre temporanee e basate su determinati presupposti (pericolo di fuga, di inquinamento delle prove, ecc.).

Attendiamo l’esito del procedimento, perché il Tribunale dovrà pronunciarsi sull’istanza del Questore. Ma, al di là degli esiti, ciò che è certo è che viviamo in una fase storica in cui si inneggia ai valori dell’Occidente, contro i tiranni che fan guerre o reprimono i popoli, mentre – lentamente e distrattamente – si espande a macchia d’olio la zona grigia della discrezionalità del potere, che frammenta i diritti e zittisce il dissenso.

Fino ad arrivare ad un punto – in un futuro non troppo lontano – in cui saremo così abituati a ciò, che c’illuderemo ancora di vivere in un ordinamento democratico e, nel chiuso delle nostre case, nel silenzio delle nostre coscienze, additeremo gli altri come antidemocratici, ma a bassa voce, casomai quell’esternazione dovesse infastidire il potere.

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