Vi racconto una vicenda personale sul frigorifero che si è rotto e che avrei dovuto cambiare, perché spinto a farlo. Poi ho cambiato idea. Anzi, no. Sono subentrati gli anticorpi. Prodotti non da me, ma dal pensiero di Pasolini e Marx. Che c’azzeccano due personaggi vissuti l’uno cinquanta e l’altro centocinquant’anni fa con un frigo rotto?
Tutto ebbe inizio al volgere dell’estate e durante quella breve parentesi di frescura che illuse i poveri salentini, i quali credettero che l’autunno fosse giunto alle porte. E invece si sbagliavano. Dopo una stagione primavera-estate rovente, in cui il mutatis mutandis clima impietoso regalava afa a gogò e punte di 48 gradi, facendo boccheggiare pure i più fieri sostenitori dell’estate ad oltranza, pareva che la morsa del caldo fosse giunta al suo naturale epilogo.
Sarà stato metà settembre. Di quest’anno.
Erano i giorni della quiete prima della calura, che poi ci ha accompagnati fino ad oggi, in cui pare – finalmente – che l’autunno sia arrivato. O quantomeno le sue piogge.
Proprio in quei giorni il frigo iniziava a dare segni di cedimento. Non raffreddava quanto doveva, anzi, pareva che la temperatura esterna fosse più bassa di quella prodotta all’interno.
Ero già avvezzo a simili comportamenti. Quel frigorifero lo comprai nel 2004 e, sin da subito, ci ha dato sempre fastidio. Un po’ come la lavastoviglie dei Bellavista. E, analogamente, pure il frigo perdeva acqua.
Ogni tanto si sentiva qualche rumore insolito, qualche scoppiettio, ma tutto sommato per 17 anni ha fatto (quasi) egregiamente il suo lavoro. Oddio, di tanto in tanto si alzava la temperatura e iniziava a non raffreddare. Ma avevo imparato, consultando il web, che era sufficiente spegnerlo, svuotarlo, pulirlo, tenere la porta aperta per una giornata (anche due) e il problema si sarebbe risolto.
E difatti così è stato. Fino a settembre.
Dicevo, in quei giorni il clima era tutto sommato mite e non sentivo l’esigenza di avere l’acqua fresca. Il resto della roba lo avevo suddiviso tra un congelatore e un piccolo frigorifero che tengo in ufficio. Avevo deciso, così, di tenerlo spento e aperto per più tempo, ripulire il termostato e, dunque, fare in modo di evitare di dover chiamare un riparatore o il centro d’assistenza.
Stavolta è morto per davvero
E niente. Dopo averlo tenuto tre giorni interi aperto e aver pure smontato il termostato e ripulito con dovizia di particolari, alla riaccensione a malapena raggiungeva i 24 gradi. Il congelatore si attestava generosamente sui 22.
Mentre fuori la temperatura riprendeva a salire, raggiungendo i canicolari 30 gradi. I quali regalavano – sì – ai salentini ed ai turisti (che ancora massicciamente popolavano la zona) abbondanti stralci d’estate, ma a me regalavano il fastidio di dovermi recare in ufficio per bere un po’ d’acqua fresca.
Decisi così di chiamare prima il centro d’assistenza, il quale – dopo avermi sballottolato tra un numero e l’altro – finalmente mi rispondeva che no, non si occupano più di riparare quel frigo, ormai fuori produzione da diversi anni.
Come se un frigorifero fosse un PC – pensavo tra me e me – che cambia tecnologia e ci sta pure che i pezzi interni cambino. Ma il frigo? In fondo le componenti basilari sono sempre le stesse da che mondo è mondo: un compressore, una resistenza, una serpentina, un termostato, il gas. Poi, ok, ci stanno le schede madri, qualche circuito in più, ma il principio di funzionamento è sempre lo stesso.
Decisi, così, di rivolgermi a diversi riparatori, trovati sia on-line che in zona. Ognuno mi rispose che: quanti anni c’ha? 17? Ma dai, non vale la pena ripararlo. Compratelo nuovo!
Un riparatore aggiunse pure che tanto i frighi oggi costano poco e non ti sei stufato di tenertelo per 17 anni?
Il più eclettico mi ha detto (quasi) testualmente: se vuoi passo a vederlo, ma tra uscita, smontaggio, carico, scarico, apertura, riparazione, pezzi di ricambio, ricarico nel furgone, scarico a casa tua… fai prima a comprarlo nuovo e ci risparmi pure, che tanto oggi la consegna manco se la pagano.
Che sbattimento farlo riparare!
Anticipando quanto dirò nei prossimi paragrafi, ero tentato di cambiarlo. Non per volontà, ma per bisogno. Se non trovo nessuno che ripara il frigo, è ovvio che sarò costretto a cambiarlo. Il bisogno ti spinge ad operare delle scelte che non sono libere. Perché è il contesto a non renderle tali.
Poi un giorno – erano passati ormai dieci giorni dalla rottura del frigo e il caldo continuava ad imperversare – quasi per caso mi trovai a parlare del fatto con un vecchietto del paese.
Rivolgiti al tale riparatutto, mi disse candidamente. Si riferiva ad un tizio di un paese vicino che riparava vecchi elettrodomestici e che, nonostante l’avvicendarsi dei tempi e l’introduzione di nuove tecnologie e nuovi bisogni consumistici che hanno spazzato via gli antichi mestieri, lui continuava imperterrito a lavorare.
Il suo laboratorio è un museo di vecchi elettrodomestici, alcuni di cui ignoro persino l’uso. Certuni sono pure stati riparati e rimessi in vendita, perché nel frattempo i clienti che gli avevano affidato le riparazioni non erano più passati a ritirarli. Un tempio dell’antifeticismo delle merci, insomma. Dove gli elettrodomestici hanno sì un valore d’uso, ma quello di scambio è oramai ridotto all’osso.
Tuttavia non ero molto convinto. Anni fa ebbi a che fare con lui. Gli portai un vecchio macinacaffè e se lo tenne due mesi. Chiamarlo al telefono era impossibile. Non disponeva di un cellulare. Al fisso rispondeva ogni morte di papa e, spesso, a rispondere per lui c’era la moglie che, tra il sugo sul fuoco e i nipoti da prendere a scuola, ti liquidava sbrigativamente con un passa quando c’è lui. E quando c’è? Quando sta qua, mi rispondeva in tono seccato.
Logica ineccepibile.
Dopo due mesi e dopo essere stato costretto a passare di persona più e più volte (nonostante non fosse proprio di mano nei tragitti abituali), alla fine lo aveva riparato e mi chiese pure un botto. Fu in quel momento che – aderendo al pensiero dominante – valutai che sì, era meglio comprarlo nuovo.
Miracolo Miracolo!
Ma torniamo al nostro frigo.
Superando ogni resistenza, decisi di chiamarlo. Curiosamente, contravvenendo al suo abituale lassismo, venne subito a casa ad analizzare il frigo. Sarà che oggi ha meno lavoro rispetto al passato, comunque arrivò subitissimo.
Qua secondo me è questione di gas, sentenziò dopo aver sentito il rumore prodotto dal frigorifero. A occhio e croce sono 120/140 euro. Che faccio? Me lo porto in laboratorio?
Sono sempre stata una persona piena di dubbi. Per decidere qualcosa ci penso, ci ripenso, poi faccio (quasi) sempre la scelta sbagliata. Ma in quest’occasione risposi di botto e sicuro di me: certo, riparalo.
Se lo tenne giusto un paio di giorni. Uno di riparazione e uno per tenerlo sotto controllo.
Venne, un caldo pomeriggio, a riportarmelo a casa. Lo accese e, con grande soddisfazione, elencò i punti del lavoro svolto: ho ripulito il compressore e l’evaporatore dai residui e dal calcare; lo stesso ho fatto con la serpentina; il gas è nuovo; le guarnizioni stanno apposto, mi pareva inutile cambiarle. Fanno 120 euro. 120 C-e-n-t-o-v-e-n-t-i-? Risposi io. Vabbè dai, dammene 110.
E così, oggi, a distanza di un mese dalla riparazione, ho un nuovo vecchio frigo che funziona alla perfezione, non perde acqua né fa rumori strani. Se avessi dovuto comprarlo nuovo – come suggeritomi dai più e da quella vocina interiore – avrei speso almeno almeno 500 euri. Più lo sbattimento di portarlo fuori casa e attendere il ritiro degli ingombranti.
determinismi e influenze
La vocina interiore, dicevo. Proprio quella. Quella che ti dice: butta e compra nuovo! A chi è mai capitato di sentirla? A me sempre, specie in passato, da giovane, quando anche solo la noia di avere davanti sempre lo stesso elettrodomestico o mobile o suppellettile o orologio o telefonino (ecc. ecc.) mi induceva a cambiarlo. Anche se funzionava a perfezione. Anche quando svolgeva egregiamente il suo lavoro.
Accadeva persino con l’automobile. Io stesso, come mio padre o i miei vicini di casa, cambiavamo l’auto non perché non andasse, ma per moda, voglia di avere un modello diverso. A dire il vero sono sempre stato un fermo sostenitore dell’usato. Mai comprata un’auto nuova. Però questa era giusto un’attenuante alle influenze del consumismo.
Le influenze. Appunto. Da dove nascono? Quale processo sociologico o psicologico s’innesca affinché io decida di buttare via un prodotto che funziona – o che può essere riparato – per comprarne uno nuovo? E si tratta sempre di influenze oppure di determinismi?
Il determinismo
Prima parlavo di bisogni e libertà di scelta. Ossia che quella di riparare o meno il frigorifero non dipende solo da una mia individuale scelta, ma è influenzata dal contesto. Detta papale papale: se tutti quanti mi consigliano di cambiarlo e non trovo nessuno a ripararlo, è ovvio che lo cambierò. Ma non è una scelta libera. Dipende dal contesto.
Dunque in questo caso parliamo di determinismi. Ossia il contesto mi obbliga a buttare via il frigo e comprarne uno nuovo. Il determinismo, leggendo sulla Treccani,
riguarda infatti il rapporto tra causa ed effetto, tra legge naturale universale e singolo fenomeno specifico. Secondo questo rapporto, in natura, data una causa o una legge, può verificarsi soltanto un certo effetto o un particolare fenomeno, e non altro. Non c’è quindi spazio, nell’Universo, per una variazione spontanea, né per il perseguimento di finalità liberamente scelte.
Detta in termini ancora più semplici: se il vecchietto riparatutto avesse deciso di chiudere il laboratorio, oggi non avrei potuto riparare il frigorifero. Quindi quel vecchietto, con tutti i suoi limiti, ha impedito che si sostanziasse un rapporto causa/effetto univoco. Cioè ha favorito una libera scelta. La sua, inconsapevolmente, è una forma di resistenza a quello che Pasolini chiamava un genocidio culturale definitivo.
Il determinismo, nell’attuale impostazione dei rapporti sociali, è l’esito di un lungo percorso fatto di influenze. E’ quello che, appunto, Pasolini aveva perfettamente individuato agli albori del fenomeno consumistico. E pensare che all’epoca si era ancora in fase di influenze.
Ancor prima di lui, Marx aveva ben chiaro in mente come funzionasse il fatto, parlando di sussunzione del lavoro al capitale.
Quanta carne al fuoco! Per capirci meglio, cerchiamo di capire cosa sono le influenze. Poi vediamo un attimo che diceva Pasolini che, nell’analizzare il genocidio, anticipava quanto avviene oggi. Infine, un cenno a Marx quando parlava di sussunzione. Entrambi spiegano perché, oggi, avrei dovuto cambiare il frigorifero, anziché ripararlo.
Le influenze
Come ho approfondito in quest’articolo, parlando del materialismo storico, quando una classe sociale assume il potere – detenendo i mezzi di produzione – è ovvio che farà di tutto per trasmettere la propria ideologia alle masse. Anche dicendo – contraddittoriamente – che non esistono più ideologie.
In altre parole quella che è la sua visione del mondo sarà trasmessa attraverso i mezzi che controllano direttamente o in cui la propria influenza sarà determinante. Parlo, in particolare, dei media. Ma anche di altri settori tipo lo sport, l’arte, la letteratura, il teatro, il cinema, ecc.
Se ogni giorno vedo in TV il mio attore preferito che beve coca-cola, anche se so che è una bevanda di merda, che serve a tutto tranne che ad essere bevuta, verrò influenzato in qualche modo. Una, due, tre volte, alla quarta la comprerò. Lo stesso vale per ogni tipo di bisogno: comprare mobili nuovi, per cambiare l’arredamento è un bisogno indotto dalla classe dominante, che, per dirne una, nella classe contadina non veniva percepito come tale. Perché i mobili c’erano, erano buoni – anche se logori – e assolvevano la propria funzione.
Citando ancora la Treccani, sulla definizione di influenza, quella più generica, che conosciamo tutti, è:
Credito, ascendente, capacità di imporre il proprio volere con la persuasione, il prestigio personale, l’autorità.
Ma è interessante riportare l’etimologia del termine, preso sempre dalla stessa definizione:
dal lat. mediev. influentia, der. di influĕre «scorrere dentro»: v. influire. – 1. ant. Il fluire dentro, e in genere lo scorrere di liquidi.
Ecco, le influenze della classe dominante sono così: scorrono, lentamente, giorno dopo giorno, finché la tua struttura ideologica individuale e collettiva non ne esce diversa da com’era. E tu nemmeno te ne accorgi. Un po’ come la goccia d’acqua che, lentamente, giorno dopo giorno, anno dopo anno, buca la pietra (una struttura ideologica alternativa, forte), figurati il legno (una struttura ideologica debole o inesistente).
Ecco che, lentamente, attraverso lo scorrere continuo di una volontà – la volontà di produrre e vendere, tipica della borghesia mercantile – si arriva a convincere la gente a buttare e comprare. Perché lo dicono tutti: lo dice la TV, lo fanno i nostri beniamini del cinema, lo vediamo nei film, lo ascoltiamo persino nelle canzoni.
Il genocidio di Pasolini
E qui arriviamo al come si è giunti a questo punto. Pier Paolo Pasolini, già in tempi non sospetti, si accorse di questo mutamento in atto e, anzi, anticipò le dinamiche attuali, analizzando attentamente il fenomeno, sempre più pervasivo, delle influenze. Che poi si sarebbero tramutate, largamente, in determinismi.
Per analizzare l’inizio di questo percorso, scandagliò la realtà, isolando il processo di sostituzione dei valori, avvenuta in modo occulto, da parte della classe dominante. Un’operazione fatta senza l’uso di violenze o di propaganda (tipiche del regime fascista), ma proprio – e paradossalmente – con il permissivismo e l’edonismo di massa.
Celebre è la battuta di uno dei protagonisti del suo film Salò o le venti giornate di Sodoma, che lui stesso citò in uno dei suoi articoli: in una società dove tutto è proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa.
Scriveva dunque Pasolini,
Come avviene questa sostituzione di valori? Io sostengo che oggi essa avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta. Mentre ai tempi di Marx era ancora la violenza esplicita, aperta, la conquista coloniale, l’imposizione violenta, oggi i modi sono molto più sottili, abili e complessi, il processo è molto più tecnicamente maturo e profondo. I nuovi valori vengono sostituiti a quelli antichi di soppiatto, forse non occorre nemmeno dichiararlo dato che i grandi discorsi ideologici sono pressoché sconosciuti alle masse (…).
Immagino una specie di discesa agli inferi, dove il protagonista, per fare esperienza del genocidio di cui parlavo, percorre la strada principale di una borgata di una grande città meridionale, probabilmente Roma, e gli appare una serie di visioni ciascuna delle quali corrisponde a una delle strade trasversali che sboccano su quella centrale. Ognuna di esse è una specie di bolgia, di girone infernale della Divina Commedia: all’imbocco c’è un determinato modello di vita messo lì di soppiatto dal potere, al quale soprattutto i giovani, e più ancora i ragazzi, che vivono nella strada, si adeguano rapidamente.
Essi hanno perduto il loro antico modello di vita, quello che realizzavano vivendo e di cui in qualche modo erano contenti e persino fieri anche se implicava tutte le miserie e i lati negativi che c’erano (…) e adesso cercano di imitare il modello nuovo messo lì dalla classe dominante di nascosto. Naturalmente, io elenco tutta una serie di modelli di comportamento, una quindicina (…).
(…) Per esempio, c’è il modello che presiede a un certo edonismo interclassista, il quale impone ai giovani che incoscientemente lo imitano, di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti industriali: pubblicità che si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo-borghese. I risultati sono evidentemente penosi, perché un giovane povero di Roma non è ancora in grado di realizzare questi modelli, e ciò crea in lui ansie e frustrazioni che lo portano alle soglie della nevrosi.
Oppure, c’è il modello della falsa tolleranza, della permissività. Nelle grandi città e nelle campagne del centro-sud vigeva ancora un certo tipo di morale popolare, piuttosto libero, certo, ma con tabù che erano suoi e non della borghesia, non l’ipocrisia, ad esempio, ma semplicemente una sorta di codice a cui tutto il popolo si atteneva.
A un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, e non era un consumatore perfetto se non gli si concedeva una certa permissività in campo sessuale. Ma anche a questo modello il giovane dell’Italia arretrata cerca di adeguarsi in modo goffo, disperato e sempre nevrotizzante. (…) Perché questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente dalle classi dominanti? Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente «progresso» e «sviluppo». Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti.
La piccola borghesia
Questa sostituzione di valori non poteva avvenire senza il contributo della piccola borghesia, ossia di quella classe sociale che scimmiotta la middle&high class, ma non dispone dei mezzi di produzione né delle risorse economiche. E per questo è una classe di nevrotici, ansiosi, furbetti, perennemente insoddisfatti. Perché alla continua ricerca di qualcosa che non possono avere.
Questa classe, pur se numericamente inferiore alle classi potenzialmente o realmente alternative (classe contadina, degli sfruttati, buona parte della classe operaia, dei precari, anche degli imprenditori e liberi professionisti ingabbiati e sfruttati, ecc.) è quella che genera le maggiori influenze, specie nelle piccole realtà locali, soprattutto al Sud.
Quante volte ci è capitato di invidiare il vicino di casa, per dirne una, impiegato pubblico, che s’è fatto la macchina nuova? O che cambia uno smartphone all’anno? O che, ancora, veste bene? Il fatto di volerlo imitare – per competizione o per non essere da meno – è una forma di influenza che non proviene direttamente dalla classe dominante attraverso i mezzi suoi propri, ma per mezzo della classe a lei strumentale.
Dunque se la classe strumentale adotta determinati comportamenti e se le altre classi non dispongono più di un’ideologia alternativa, s’adeguano, chi più chi meno.
Dunque dall’alto provengono i suadenti richiami del consumo. Dal basso e in orizzontale vediamo concretizzarsi le forme del consumo. Che succede? Che presto o tardi finiremo per farci influenzare. E ci convinceremo che, in fondo, è meglio cambiarlo sto benedetto frigo. Pure se può essere riparato.
La sussunzione dei rapporti sociali al capitale
Pasolini ci ha spiegato che la sostituzione dei valori insieme alla diffusione dell’edonismo di massa e del fascismo consumista generano forme nevrotizzanti di imitazione e influenze più o meno pesanti. Marx, invece, ci spiega – in modo scientifico – come si passa dalle influenze al determinismo.
Ossia, detta papale papale, come si fa a costringermi a cambiare il frigo anziché ripararlo.
Per farlo citerò un ottimo articolo del compianto Massimo Bontempelli, uno dei più grandi sostenitori della filosofia della decrescita.
Per capire il concetto occorre distinguere quello di sussunzione formale da quello di sussunzione reale. I due concetti sono spiegati nell’inedito capitolo VI del Capitale.
La sussunzione formale
Sussunzione formale del lavoro* al capitale significa, dice Marx, che il capitale sottomette a sé, vale a dire include nel rapporto sociale di cui esso consiste e rende quindi funzionale alla logica della sua autoriproduzione, modi di essere del lavoro umano che si sono costituiti prima e indipendentemente da esso, e che esso piega ai suo interessi senza modificarne il contenuto. Il termine sussunzione formale vuol indicare appunto che il modo di produzione che tale sussunzione istituisce è capitalistico soltanto nella forma, non anche nel contenuto.
Per capirci, il nostro riparatore di elettrodomestici esisteva anche quando, a produrre elettrodomestici, non v’erano solo aziende in modo di produzione capitalistico. E’ un lavoro fondato in sé, cioè funzionale a soddisfare dei bisogni. Si rompe l’elettrodomestico? C’è uno che te lo ripara. Se però il capitalista assorbe nel suo processo produttivo anche il campo delle riparazioni, sussume questa forma al suo volere. Detta in termini più semplici: se il nostro riparatore diventa un riparatore autorizzato dalla marca taldeitali, viene sussunto al capitale. Ma solo formalmente.
Da ciò ne consegue che l’attività del riparatore non è più libera: non sarà lui a decidere i prezzi, le tempistiche, i pezzi di ricambio da acquistare, le marche da trattare. Sarà, per così dire, soggiogato dagli ordini del marchio con cui collabora.
Purtuttavia il suo lavoro resta quello.
La sussunzione reale
Marx chiama sussunzione reale del lavoro al capitale la determinazione del modo stesso di essere del lavoro da parte del rapporto sociale capitalistico che lo ingloba.
Il capitale si appropria non soltanto del prodotto del lavoro, ma anche della sostanza del lavoro, che riplasma per adattare alla sua teleologia la maniera stessa del suo svolgersi. La produzione che ne nasce è specificamente capitalistica, in quanto è il suo stesso contenuto lavorativo che è formato dal capitale, non già storicamente trovato da esso.
Marx mostra, con straordinaria forza interpretativa, prosegue Buontempelli, come la logica stessa della sussunzione formale conduca alla sussunzione reale, in quanto la sola forma della produzione capitalistica esige una accumulazione allargata di plusvalore, la quale esige un incessante aumento di scala della produzione, che ad un certo momento esige un’appropriata modificazione del processo lavorativo, di cui sono strumenti le macchine industriali e le scienze fisiconaturali.
Questa logica ha un campo di applicazione potenziale più vasto di quello pensato da Marx, e che è diventato attuale proprio nel nostro presente storico. Allo sviluppo illimitato della produzione, insito nel rapporto sociale capitalistico, non può infatti bastare, oltre un certo limite, neppure la sussunzione reale del lavoro al capitale, perché è impossibile ridurre oltre un certo limite il tempo di lavoro incorporato nella merce senza separare del tutto la merce dal lavoro, e quindi dalla base stessa del plusvalore. Oltre un certo limite, quindi, lo sviluppo ulteriore della produzione richiede la riduzione del tempo di circolazione del capitale, che può realizzarsi sussumendo al capitale altre realtà oltre quella lavorativa.
Per tornare al nostro amico riparatore, la sussunzione reale impone cicli di vita più brevi dei prodotti immessi sul mercato. Poi, pezzi di ricambio sempre diversi, che spesso sono gli stessi, ma si differenziano per pochi mm o per forme leggermente diverse. Forme di pubblicità sempre più aggressive che, tutto l’anno, offrono promozioni e sconti (spesso falsi).
In questo quadro il lavoro del riparatore diventa obsoleto e, anche se tecnicamente è capace di riparare un elettrodomestico, nella realtà diventa sempre più difficile farlo. E così scompare. Ciò perché il suo lavoro non crea più quel plusvalore relativo che serve al capitalista per accumulare capitale.
E così lo fa fuori.
In questo quadro, per fare un altro esempio di sussunzione, al capitale interessa di più investire nella gestione dei rifiuti prodotti dal consumo. E’ più remunerativo un frigo buttato via, ritirato dalla società di recupero rifiuti, accumulato, spedito in Africa, fatto smontare da bambini pagati un cazzo e poi recuperare i pezzi che serviranno per produrre frigoriferi… nuovi.
Questo conviene di più.
Tornando al determinismo
Dunque, per concludere, la sostituzione di valori, strettamente connessa al fenomeno di sussunzione formale e reale dei rapporti sociali al capitale generano non più soltanto influenze, ma determinismi.
Se vogliamo far riparare un frigorifero, siamo costretti a gettarlo via e comprarlo nuovo. Da un lato costretti e dall’altro sedotti a farlo. Complice anche il fatto che la fretta insita nel vivere contemporaneo ci consente di trovare la soluzione più veloce ed economica, non solo e non tanto in termini di denaro, ma di tempo. In poche parole, facciamo prima a buttare l’oggetto e comprarlo nuovo. Ordinandolo pure su internet, così si fa prima e ci si risparmia.
Ecco perché la prossima volta che si dovesse rompere qualcosa, andrò di corsa dal vecchio riparatutto. E gli pagherò pure più di quanto mi chiederà. Perché è lui l’argine reale al dominio del capitale.
* nota: Marx parla di lavoro, ma il concetto si può estendere ad ogni elemento della vita di ogni persona
Grazie, splendido articolo!
Grazie, come sempre, a te Massimo, per i tuoi feedback!