Una brevissima analisi sulle differenze tra noi e loro. Dove “noi” siamo il popolo dei lavoratori, cui lo Stato porta via, tra tasse, imposte, dirette, indirette, addizionali, contribuzione, bolli e chipiunehapiunemetta, a chi un terzo a chi più della metà del reddito o del salario. “Loro” sono le Società transnazionali, specie del settore digitale, che non pagano un cazzo di tasse. E, se beccati, fanno accordi vantaggiosi, continuando a non pagare un cazzo. Poi, a seguito del G20 di Venezia, pagheranno si e no il 15%, ma con comodo, dal 2023 (forse). Sarà l’effetto della global tax, che la spacciano pure come una grande vittoria.
La Global Tax, che al G20 di Venezia è stata approvata con grande giubilo, è – per usare le parole del Manifesto – una truffa politica. Già, è vero che è una tassa minima, nel senso che gli Stati potranno aumentarla, ma è anche vero che, nella corsa per non perdere o accaparrarsi le prestigiose sedi delle Società transnazionali, si adotterà solo l’aliquota minima (15%) e si applicheranno gli sconti e le deduzioni previste dall’accordo, che la eroderanno. In buona sostanza, le Società transnazionali cui verrà applicata la global tax continueranno a non pagare un beneamato.
Per giunta saranno pochissime. L’accordo, difatti, prevede che la global tax si applicherà solo, in Europa, a quelle imprese che producono ricavi superiori ai 20 miliardi.
Basta così? No, perché un altro criterio di esclusione vuole che per pagare la global tax, le società dovranno anche avere un tasso di rendimento sulle entrate superiore al 10%. Per giunta dall’accordo sono escluse le società finanziarie.
In buona sostanza, tra le 500 Società più grandi al mondo, la global tax si applicherà solo a 78. In Europa solo a 37. E, complessivamente, varrà 87 miliardi di dollari. In Italia? Secondo le stime, l’aumento del gettito fiscale sarà di soli 2,3 miliardi all’anno. Che corrisponde, grossomodo, ad un solo giorno di profitti di Amazon.
Un’inezia, insomma, per società, specie del digitale, che in meno di 10 anni hanno eluso tasse per 100 miliardi di dollari. E continuano ad evaderle ed eluderle.
Noi
Secondo lo studio di PWC_TLS Avvocati e Commercialisti (qui il pdf), tra il 1995 ed il 2019, la pressione fiscale è aumentata di 2,30 punti percentuali rispetto al PIL, dal 40,13% al 42,44%.
Tra il 2006 ed il 2011, ossia in piena grande recessione, periodo in cui i principali paesi europei riducevano (seppur di poco) la pressione fiscale, questa si mantenne costante intorno al suo valore medio pari a 41,23%, per poi crescere del 4,87% nel 2012, raggiungendo quota 43,29%, con la ricetta Monti.
Nel 2013, venne raggiunto il picco pari a 43,39% per poi diminuire ad un tasso medio di 0,90% fino al 2017. Nel 2018 e nel 2019, la pressione fiscale è aumentata attestandosi a quota 42,44%.
Com’è noto, i principali contribuenti sono la classe lavoratrice salariata. A seguire, imprese (cui pesa IRES e IRAP), liberi professionisti, commercianti e artigiani.
Come funziona il sistema fiscale in Italia
Nel 2019, prosegue lo studio di PWC_TLS, il totale delle entrate fiscali si è attestato a 758.629 milioni di euro. Il 34,0% di questi sono imposte indirette (IVA, imposte di bollo, su lotterie, ecc.). Il 33,9% sono imposte dirette (IRPEF, IRES, addizionali, ecc.). Il 31,9% sono contributi sociali e lo 0,2% sono imposte in conto capitale.
Come sappiamo, l’IRPEF (l’imposta sul reddito delle persone fisiche) funziona a scaglioni. E’ progressiva, cioè più guadagni e più paghi. Così dovrebbe essere pure per le Società transazionali, giusto? Eppure la global tax è unica e non segue principi di progressione.
Un contribuente italiano, quindi, paga allo Stato – di IRPEF – addirittura il 23% se guadagna da 8.174 a 15.000 € (al di sotto è nella no-tax area). Il 27% tra 15.001 e 28 mila €. Il 38% tra 28.001 e 55 mila €. Il 41% tra 55.001 e 75 mila € e, infine, il 43% oltre i 75.000 €.
Con ulteriori tasse indirette e contribuzione, si arriva facilmente al 50%. Le imprese, in media, lasciano allo Stato il 59% dei profitti.
Loro solo il 15%. E i 20 grandi, con i media lacché c’hanno pure la faccia come il culo, parlandoci di accordo storico.
Ah, va aggiunta un’ultima cosa che vorrei sottolineare nel confronto tra noi e loro. Sia mai che ti sfugga un pagamento, che provi ad eludere tasse e imposte, che fai il furbetto (il ché, spesso, è necessitante). In caso di accertamento, paghi quello e altro. Tra imposte arretrate, interessi e sanzioni, si arriva a pagare anche il doppio o il triplo dell’imponibile. Loro, invece?
Loro
Come detto in passato in quest’articolo, le società transnazionali, specie quelle del digitale, che sono le più capitalizzate al mondo, fanno profitti da capogiro e non pagano un centesimo di tasse nei paesi in cui operano. Anche, ovviamente, in Italia.
Amazon
Amazon, nel 2020, ha realizzato 75 miliardi di utili (erano 11 solo nel 2018) su 330 di fatturato (233 nel 2018, segno che ha ridotto i costi, spremendo corrieri e venditori).
Dopo una lunga indagine della GdF, dal 2011 al 2015, si è scoperto che Amazon non avrebbe versato un centesimo di tasse nemmeno in Italia, avendo preferito spostare gli utili in Lussemburgo, dove vige una tassazione più favorevole, nonostante avesse in Italia “una stabile organizzazione” che, per il fisco italiano, è sufficiente affinché l’azienda paghi le tasse nel bel paese.
A seguito di ciò e grazie ad un accordo con l’Agenzia delle Entrate, pagherà (non sappiamo se ha già pagato) solo 100 milioni di euro per gli anni 2011-2015 (ossia 2,5 milioni ad anno).
Sarà passato ad Amazon il vizietto di evadere le tasse in Italia? No di certo. Su 44 miliardi di ricavi in Italia, nel 2020 non ha pagato un centesimo.
La holding Alphabet, di Google, nel 2020 ha ottenuto oltre 182,5 miliardi di dollari di ricavi, in massima parte derivanti dai numerosi servizi di Google (168,6 miliardi di dollari circa) e Google Cloud (13 miliardi di dollari).
Anche Google, però, ha il vizietto di evadere le tasse.
Dopo anni di contenziosi e lunghe e complesse indagini, ha fatto un accordo accomodante con il fisco italiano: pagherà in Italia appena 306 milioni di euro, per aver evaso le tasse tra il 2002 e il 2015. Poco più di 2 milioni all’anno.
E oggi? Paga appena 5,7 milioni, ma fa ricavi per quasi 105 milioni, solo in Italia (il dato è grezzo, perché le attività in Italia sono realizzate dalla sede irlandese, ma grossomodo siamo lì). Praticamente il 5%.
Apple
Apple è stato il primo big a giungere ad un accordo col Fisco italiano. Nel 2015 ha pagato 318 milioni di euro per sanare una evasione fiscale di 5 anni che sfiora il miliardo di euro.
Apple è quella che ha pagato di più, ma per un semplice motivo: ha numerosissime attività commerciali fisiche nel territorio italiano, a differenza di Amazon e Google, che non ne hanno bisogno.
Microsoft
260 miliardi di euro sono i profitti del 2020. Tasse pagate: zero. Come scrive Il Fatto quotidiano, Bill Gates si fa vanto della sua attività filantropica che però vale meno di un ventesimo rispetto al valore delle tasse che riesce a non versare grazie ad aggressivi schemi di elusione fiscale. La divisione irlandese di Microsoft fisicamente non esiste ma vende licenze a tutta Europa e il suo domicilio fiscale è alle Bermuda.
Chiaramente non paga un centesimo nemmeno in Italia.
Ha dichiarato (il ché sappiamo che vuol dire) ricavi, in Italia, per 130 milioni di euro, nel 2019. Quanto paga di tasse? 2,3 milioni.
Appena tre anni fa, però, la Guardia di Finanza ha contestato a Facebook un’evasione fiscale per 300 milioni, per ricavi dalle inserzioni, tra il 2010 e il 2016. Dunque non c’è tanto da fidarsi di quanto dichiari Zuckerberg quando deve mettere mano al portafogli.
Al solito ciò gli ha valso un accordo accomodante con il fisco. Privilegio che, ribadisco, non tocca mai ai piccoli contribuenti.
Netflix
Stando sempre a quanto riporta il Fatto Quotidiano, Netflix, nel 2020, avrebbe pagato appena 6.000 euro di tasse. Manco un operaio paga così poco.
Eppure vanta, in Italia, 1,5 milioni di utenti iscritti, con abbonamenti che vanno da 7,99 a 15,99 euri al mese. Facendo un rapido calcolo, sono quasi 20 milioni di euro gli introiti degli abbonamenti, solo in Italia.
Difatti nel 2019 la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per evasione fiscale. Ma ha avuto un po’ di difficoltà perché Netflix non ha manco una sede in Italia e opera esclusivamente sul web.
Tuttavia, immagino a motivo di ciò, quest’anno ha deciso di pagare. Una cifra simbolica, però.
Giusto per concludere
Non continuo l’elenco delle società transnazionali che evadono il fisco solo perché all’inizio avevo promesso di essere breve. Ma ce ne sarebbero da elencare! Tuttavia ciò è sufficiente per dire due cose. La prima è che una tassazione del 15%, con soglie di sbarramento così alte, è una presa per il culo. Anche se in alcuni casi aumenta di poco gli importi che oggi i colossi del web pagano al fisco, è comunque una bestemmia nei confronti di persone che si fanno un mazzo così per guadagnare 1000 euro al mese e vedersi portare via il 23% come minimo.
La seconda, più importante, è che mi auguro che sia passata l’idea che non esiste un Noi e Loro in termini di razza. Come capita quando sento parlare di rapporti tra italiani e migranti. Non esiste un Noi e Loro in termini di lingua o di sesso o di religione. Esiste un Noi e Loro in termini di privilegi e disparità di trattamento.
Ecco, sono loro che – sì, sarà pur vero che offrono prodotti e servizi e ci fanno comodo – sfruttano, accumulano capitale, arrivano persino ad influenzare le democrazie e fanno carte false per non contribuire al benessere collettivo. Insomma, non pagando le tasse, è come se rubassero a tutti. Specie a chi quelle tasse, tra sudori e fatiche, le paga e alla fine del mese manco ci arriva.
Sono Loro i nostri peggior nemici.
Domanda : perché mai una impresa che vende pubblicità su internet vista in tutto il mondo e riceve il pagamento in un altro paese dovrebbe pagare le tasse sul reddito in Italia ?
Non mi pare che qualcuno qui abbia mai detto che se un’impresa “riceve il pagamento in un altro paese”, poi debba pagare le tasse in Italia. Semmai s’è detto che siccome in Italia, come in molti altri paesi del globo, riceve pagamenti ma non paga le tasse su quei pagamenti, bisognerebbe tassarle esattamente come vengono tassate le persone fisiche. Però dato che è difficile, da parte dei singoli stati, quantificare l’esatto ammontare dei redditi prodotti, per svariatissime ragioni (sedi in paesi a fiscalità agevolata; magheggi tra conti correnti e pagamenti elettronici; fatture emesse da società estere; bilanci “fantasiosi”; ecc.) è corretto che li si tassi a livello globale. Però è risibile che si parli di un misero 15%, dal 2023 – e chissà quante modifiche ci saranno nel frattempo – quando una piccola impresa, in Italia, lascia quasi il 60% di imposte e tasse allo Stato. Con questo strapotere economico e questa fiscalità agevolata e, in molti casi, assente, è ovvio che queste grandi società detengono più potere economico dei singoli stati e, in alcuni casi, anche di interi continenti e possono determinare facilmente linee politiche globali.