C’era una volta una vecchia e arcigna regina che gestiva il suo regno con malvagità e ingiustizia. I poveri contadini che lavoravano nelle sue terre o gli sfortunati artigiani che producevano i beni e gli attrezzi da lavoro erano perennemente vessati dalla cattiva regina. Ogni giorno frotte di esattori avevano l’unico compito di cavare quanto più denaro possibile dalle vuote tasche dei sudditi. Il metodo era proporzionale ma all’incontrario: meno hai e più paghi. Se gli esattori non trovavano denaro, portavano via qualsiasi altra cosa utile: ortaggi, grano, polli, maiali, conigli, strumenti da lavoro. E così artigiani e contadini diventavano sempre più poveri.

“come facciamo a lavorare se gli esattori ci portano via pure il martello o l’incudine?” diceva un fabbro all’amico contadino.

“e io che devo dire? Proprio ieri l’esattore, non trovando niente cibo da sequestrare, mi ha portato via la zappa. E io con che zappo, con le unghie?”

Era così tutti i giorni, tutti gli anni. In periodi di magra, la vecchia e arcigna regina collettivizzava le perdite, mentre in periodi di buon raccolto, si teneva per sé i profitti.

Per evitare problemi, la vecchia e malvagia regina aveva irregimentato molto il suo regno: si interfacciava solo con i vassalli, che avevano il ruolo di gestire un feudo. Questi, a loro volta, nominavano dei valvassori, i quali poi nominavano i valvassini. Ad ognuno spettava una parte del vasto territorio del regno. I nobili, ognuno per proprio conto, avevano creato una burocrazia fatta di esattori, folletti, poggi e servitori, con l’unico compito di relazionarsi con i servi della gleba, cioè i contadini e gli artigiani.

Questi ultimi, dunque, non sapevano chi governasse davvero, al massimo sapevano il nome del valvassino, i più informati quelli del valvassore, ma già conoscere il nome del vassallo era complesso, figurarsi sapere che era la regina a comandare!

Un giorno però un giovane, ingenuo e inesperto burocrate, che aveva anche il ruolo di esattore, dispiaciuto da tutta questa ingiustizia, insieme a un nugolo di folletti, decise di raddrizzare un po’ le cose. Tuttavia nemmeno lui conosceva le dinamiche e i meccanismi del potere né sapeva esattamente quei soldi che fine facessero, però era mosso da vaghe buone intenzioni di aiutare il suo popolo.

La squadra di folletti di cui si circondò, pure, era un pochetto scapestrata, ignorantella, burlona e sempre con la voglia di bighellonare, farsi i dispetti a vicenda, gozzovigliare, approfittare della situazione per arricchirsi un po’ anche loro. Difatti facevano la cresta sui soldi o il raccolto che incameravano dai contadini e li usavano per spassarsela. Tra di loro c’era pure qualcuno che faceva la spia ai nobili, i quali riportavano alla regina tutte le mosse che il burocrate aveva in mente di fare.

La regina lo faceva fare, tanto sapeva che era inesperto e incosciente, ma soprattutto sapeva benissimo che in qualsiasi momento l’avrebbe sollevato dall’incarico e mandato a casa. E poi, insieme a quella squadra di folletti non avrebbe rappresentato un pericolo per la tenuta del suo regno.

Il giovane esattore si prodigava tanto per aiutare il suo popolo, ma si rendeva conto che in quel regno di vassalli, valvassori, valvassini, servitori, poggi, monaci, preti, azzeccagarbugli, folletti, notabili e burocrati era alquanto complesso muoversi e fare qualcosa di buono. Era bloccato, ma non era cosciente del fatto che per cambiare davvero le cose bisognava rendere edotti e coscienti i sudditi della loro condizione, perché i sudditi erano la maggioranza delle persone, mentre quelli che avevano il potere erano solo poche decine.

Non sapeva di avere la possibilità di rivoluzionare tutto, di dare il potere a chi lo meritava, perché credeva che quel mondo in cui viveva era l’unico mondo possibile. Che il feudalesimo fosse il massimo sviluppo possibile della storia. Questo credeva il giovane esattore e pensava che non potesse esistere un altro sistema, un altro modo per gestire la ricchezza del regno e sviluppare i rapporti sociali.

Non sapeva, dunque, che i nobili erano sanguisughe, che la regina comandava su tutti e che le decisioni del vassallo potevano essere sì prese di sua iniziativa, ma anche essere l’esecuzione di un ordine della regina. Come fare a capire chi decideva cosa in quel regno così burocratizzato e complesso?

E così si arrabattava illudendosi che con qualche piccola riforma si potessero aggiustare le cose, senza realmente sapere che le riforme andavano solo a vantaggio della regina.

“se invece di lavorare 20 ore al giorno, lavorate 22 ore, potete tenere per voi il frutto di quelle due ore in più” diceva l’esattore ai contadini, sperando di riuscire a farli arricchire un pochetto.

“ma sei scemo?” gli dicevano i contadini “e poi quando dormiamo? E quando mangiamo? Che già stiamo allo stremo!”.

“allora fate lavorare pure i bambini, così mentre voi vi riposate loro lavorano”.

“ma già lavorano! Dobbiamo far lavorare pure i neonati? E poi qua non abbiamo nemmeno i soldi per mantenerli, siamo a crescita zero” rispondevano contadini e artigiani, aggiungendo “riduci un po’ le tasse, semplice, no?”.

“purtroppo non posso prelevare meno di quanto chiede il mio capo, sennò ci rimetto io” ribatteva l’esattore, aggiungendo “e se invece di coltivare ogni 30 centimetri, intensificate le colture e piantate ogni 15 centimetri? Quello che producete in più ve lo tenete”.

“l’acqua è poca, come pure le sementi, e la terra è già stressata così com’è” rispondevano i contadini.

Insomma, tutte le soluzioni che proponeva l’esattore erano inefficaci e, soprattutto, tendevano a peggiorare le condizioni del popolo, anche se lui le faceva con l’intento di aiutarlo.

In uno dei tanti incontri dell’esattore con i servi della gleba, prese la parola un giovane contadino ed esordì dicendo: “l’unica cosa che possiamo fare è di essere tutti uniti ed affrontare il valvassino, lui poi ci condurrà dal valvassore e, dopo aver affrontato lui e le sue guardie, ci porterà dal vassallo. Sconfitto il vassallo scopriremo se è lui a comandare oppure qualcuno più in alto di lui. Scoperto ciò, affronteremo chi comanda sopra di lui, lo abbatteremo e diverremo noi i regnanti. Diventeremo i padroni della terra che tutti i giorni lavoriamo e non saremo costretti a dare tutto il racconto ai nobili. Così facendo ci auto organizzeremo, divideremo il lavoro e il raccolto. Chi non sarà in grado di lavorare non lavorerà. E chi è in grado di lavorare lavorerà per quanto ne è capace. Ma tutti mangeremo, chi lavora e chi no. A tutti sarà concessa un’istruzione, avremo finalmente il denaro sufficiente per permetterci un dottore, costruiremo noi le strade per le nostre esigenze, per trasportare il raccolto che avanza nei regni vicini, dove istruiremo gli altri servi come noi a riappropriarsi delle loro terre. E faremo tutto ciò in tutti i regni”.

“Ma dove s’è visto mai che un contadino prende il potere! Voi non siete capaci” disse l’esattore “lasciate fare a me che sono un burocrate istruito. Tu non sai nemmeno leggere e scrivere. Il valvassino si metterà a ridere quando vi vedrà arrivare!”.

Tutti i contadini diedero ragione al burocrate. Quando mai un contadino o un artigiano ha la capacità di governare? E così – loro malgrado – accettarono i consigli del burocrate e non diedero il minimo ascolto al giovane contadino.

Un giorno la regina decise di stanziare una forte somma di denaro per ristrutturare il suo regno. Temendo le invasioni dei barbari provenienti dall’Est, che già avevano conquistato qualche città, decise di fortificare il regno e costruire infrastrutture per ottimizzare le vie di comunicazione interne, in modo da facilitare gli spostamenti dell’esercito e, al contempo, velocizzare i commerci interni.

Chiaramente il suo non era un intento filantropico: quei soldi che stanziava, poi, li avrebbe pretesi indietro, sotto forma di nuove tasse e più sfruttamento. Inoltre aveva un accordo con il regno vicino per cui, fortificato il regno, gliene avrebbe ceduta una parte consistente in cambio di una flotta di navi e, soprattutto, di uno splendido castello tra i monti, che lei desiderava sin da quando era bambina.

I nobili e tutti i burocrati del regno ricevettero la comunicazione che presto avrebbero ricevuto quei soldi, con precise istruzioni su come usarli. Ma loro avevano ben altre intenzioni: chi voleva usarli per sistemare il palazzo, chi per comprare una nuova e lussuosa carrozza, chi per fare la dote per le proprie figlie, chi per comprare nuove terre, mentre preti e monaci predicavano la necessità di donare tutto alla chiesa, perché altrimenti si finisce all’inferno.

Insomma, ognuno aveva i suoi interessi egoistici e, negli incontri tra di loro, non riuscivano a mettersi d’accordo su come spenderli.

Anche l’esattore, fiutata l’occasione di entrare in possesso di parte di quelle somme, pensava di spenderle in modo diverso, magari ristrutturando i villaggi dei contadini, fornendo loro acqua, strumenti da lavoro, sementi, per permettergli di mangiare un po’ di più, avere una vita migliore e proliferare.

Quando seppero che stavano per arrivare quei soldi, i folletti entrarono in fibrillazione. Litigavano tra loro su come spenderli, cosa farci, a chi distribuirli, perché ognuno di loro voleva fare o restituire favori e rafforzare la propria posizione tra i sudditi.

Quando la regina seppe che i nobili, così come pure i folletti e il burocrate esattore stavano pensando di spendere quei soldi in modo diverso da come voleva lei, entrò in crisi. Chiamò a corte i suoi vassalli e con loro discusse sul da farsi.

Di certo quel denaro non poteva andare buttato in carrozze o palazzi, né poteva essere usato per rafforzare la posizione di qualche valvassore o monaco o, per giunta, di un ingenuo esattore che voleva regalarne una parte ai servi della gleba! Certo male non avrebbe fatto, perché in fondo non avrebbe mutato la loro condizione di servi. Ma lei aveva ben altre intenzioni. Bisognava trovare una soluzione e pure in fretta.

“chiamiamo i draghi alati” propose uno dei vassalli.

“proprio quei draghi?” chiese la regina.

“sì, proprio loro” rispose il vassallo.

“non so, i draghi alati mi sono fedelissimi, ma sono anche pericolosi, i loro poteri possono aiutare me, ma alla lunga danneggiare i nobili di rango inferiore e tutto il regno, per non parlare dei servi della gleba, che diventeranno ancora più poveri”.

“e che te frega? A noi ci andrà di lusso. E poi è l’unica soluzione al momento. I draghi alati proteggeranno il tuo investimento, faremo credere alle masse che sono qui solo per il loro bene e i valvassori, valvassini, monaci, preti, burocrati, anche se insoddisfatti, si dovranno per forza adeguare”.

“e sia! Chiamiamo i draghi alati” ordinò la regina.

Fu così che un bel giorno, sopra i cieli del regno i sudditi videro planare due maestosi draghi alati, belli e imponenti, dalle cui narici uscivano potenti fiammate che lasciavano nell’aria un acre odore di zolfo. Erano spaventosi, ma i contadini e gli artigiani ne rimasero affascinati e interpretarono la loro presenza come un segno positivo, in quanto i draghi avrebbero protetto il regno e di sicuro li avrebbero aiutati.

I draghi alati si presentarono così al cospetto della regina. Lei chiese loro di scegliere tra i vassalli e i folletti più fedeli per creare un comitato per gestire quei soldi, ma a tutti quanti – al popolo, ai nobili e al clero – bisognava dire che il loro compito era quello di proteggere il regno.

“e non si sappia in giro del mio accordo con il regno vicino” ammonì la regina, guardando ciascuno negli occhi.

E così i draghi alati, i fedeli vassalli e gli infidi folletti iniziarono il loro piano. Dapprima il povero burocrate esattore fu subito sollevato dall’incarico e confinato nelle regie galere.

Poi distribuirono solo pochi di quei soldi agli altri vassalli, ai monaci, ai preti, per tenerseli vicini, lasciando a stecchetto i poveri contadini ed artigiani, che però continuavano a sperare. Perché i preti, con quei pochi soldi ricevuti, li esortavano dal pulpito a sperare. I nobili facevano altrettanto, anche se erano insoddisfatti della somma ricevuta. Ma era meglio che niente. E comunque se la passavano di certo meglio dei poveri sudditi, che sfruttati erano e sfruttati rimasero, anche con la gestione dei draghi. I soldi furono così usati secondo i piani della regina, che – grazie ai draghi – ottenne il suo obiettivo: ristrutturare, vendere una parte del regno e comprarsi una bella flotta di navi e un magnifico castello, mentre i servi della gleba morivano di fame e stenti.

Morale della favola?

La morale è che a comandare resta sempre la regina, che i draghi, anche se belli e potenti, restano sempre al servizio della regina e sono pericolosi. Che pure se i draghi alati prendono il potere, il popolo resterà sempre soggiogato e, anzi, alla fine sarà ancora più sfruttato e i servi della gleba più deboli moriranno di fame.

Il povero burocrate esattore ha fatto del suo meglio, ma resta sempre un servo della regina, la quale si fa gli affari suoi e di certo non quelli del popolo. Per lei il popolo serve a produrre, a lavorare e a farla arricchire. Se sta male non le importa molto. Le importa solo in funzione di quanto produce. Se è improduttivo, che muoia pure, tanto non serve a nulla.

I nobili e il clero, sono il corpo intermedio tra la regina e il popolo. A seconda di come tira il vento, stanno un po’ qua e un po’ là, ma in fondo si fanno gli affari loro: cercano di campare, di accumulare ricchezza, di sfruttare – per quanto gli compete – i servi della gleba, ma restano sempre servitori della regina.

Una parte dei folletti burocrati proviene dal popolo, un’altra è vicina alla nobiltà e, in particolare, alla regina. Stavano insieme all’esattore perché gli faceva comodo, perché potevano rubacchiare a destra e a manca e fare la bella vita, ma in fondo sono solo dei perdigiorno, incapaci e inetti. Difatti è bastato poco alla regina per disperderli. Quelli a lei fedeli hanno iniziato a collaborare con i draghi, gli altri sono spariti. Torneranno a gironzolare per il regno in cerca di fortuna, ma restano pur sempre dei folletti.

E il principe?

Già, nel titolo si fa riferimento al principe, ma nel racconto non compare. Sì, perché il principe è la servitù della gleba, che non sa di essere serva. O meglio, quella parte di popolo più cosciente della propria condizione di sfruttati. I contadini e gli artigiani, l’ultima ruota del carro nel regno della malvagia regina sono il vero principe. Sono la maggioranza, quelli che lavorano dalla mattina alla sera, che producono, che fanno funzionare l’ingranaggio della macchina del regno. Senza di loro il regno non esisterebbe e non esisterebbero i preti, i nobili, i castelli, le strade, i porti, le navi, le carrozze. Insomma, tutto. Eppure, pur essendo principi, non lo sanno. Nessuno gliel’ha mai detto e quando quei pochi coscienti l’hanno fatto, nobili e burocrati si sono subito prodigati a dire che è una menzogna, che un popolano non sarà mai un principe, che non è mai accaduto e mai accadrà.

E invece sono loro ad esserlo. E se avessero coscienza di esserlo, non ci sarebbe più bisogno di regine, draghi, nobili ed esattori e si distribuirebbero da sé tutto il raccolto. E sarebbero ricchi, lavorando meno.

Ti va di iscriverti alla Newsletter?

Iscriviti per ricevere di tanto in tanto gli ultimi articoli pubblicati.

Leggi la Privacy Policy per avere maggiori informazioni. Ci tengo alla tua privacy tanto come alla mia.

Commenti

Non ci sono commenti. Vuoi iniziare una conversazione?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *