Ogni volta che devo comprare un prodotto wireless o che comunque funziona a batterie ricaricabili, rifletto su una cosa: quanto dureranno le batterie? Da questa prima, ovvia, domanda, ne scaturiscono altre: mi conviene? Che fine fanno le batterie esauste che gettiamo negli appositi contenitori? E, infine, per quale diavolo di motivo esistono le batterie integrate? Perché devo gettare via un prodotto perfettamente funzionante solo perché le sue batterie non vanno più?
Sono domande naturali, in un’epoca in cui le batterie sono il perno dello sviluppo tecnologico dell’etica occidentale.
L’inutilità delle batterie usa e getta
Premetto una cosa, sono ormai 20 anni che non compro più le batterie usa e getta. Le stilo e le mini stilo, per intenderci. Quelle che servono per alimentare sveglie, orologi da muro, il mouse wireless, i telecomandi. Ho sempre pensato che l’usa e getta è un modello di consumo immorale, insostenibile e deleterio, sia per le nostre tasche che per l’ambiente. E infatti saranno almeno 10 anni che uso e riuso sempre le stesse pile. Del resto, dopo una decina di cicli di ricarica, hai abbondantemente ripagato il costo delle batterie e del caricabatterie. E per almeno 10 anni ci guadagni pure. Indipercui mi chiedo come mai siano ancora in vendita le pile usa e getta.
Del resto se pure i giornali dell’Estabilishment americano si sono accorti che le batterie usa e getta sono inutili, a tutto vantaggio di quelle ricaricabili, a maggior ragione noi italiani – storicamente gente moderata e previdente – dovremmo interrogarci sul perché queste diavolerie siano ancora in commercio. Eppure siamo il quinto paese europeo per produzione di rifiuti di batterie.
La via della comodità conduce alla dannazione
Tuttavia il problema si pone insormontabile anche con le pile ricaricabili e, in linea generale, con tutti gli strumenti (tanti, troppi) che ormai funzionano a batterie: il cellulare (ovviamente), i lettori mp3, le videocamere, ma anche oggetti che fino a qualche tempo fa funzionavano con filo o con altri tipi di alimentazione, quali l’aspirapolvere, il trapano elettrico, il decespugliatore, la sega elettrica, l’allarme di casa, persino, oggi, le automobili.
Sia chiaro, con ciò non voglio mettere in discussione la comodità rappresentata da questo sviluppo tecnologico, solo riflettere su quali sono le conseguenze sulle nostre scelte di consumo e, soprattutto, sull’ambiente.
Ci siamo circondati di oggetti hi-tech che decisamente semplificano le nostre vite individuali, ma quanto e in che misura complicano invece la vita collettiva? E quanto ci inducono o, peggio, costringono ad aumentare i consumi?
E così mi sono deciso a fare giusto una riflessione, elencando in ordine sparso i problemi connessi all’uso di strumenti a batteria.
Cobalto e batterie
Il primo problema, di semplice umanità, con profondi riflessi in campo geopolitico e di tutela dei diritti umani, sta nella materia prima principale usata per costruire le batterie che alimentano praticamente tutti i nostri dispositivi (auto ibride ed elettriche incluse): il cobalto.
Molti di voi sapranno, anche grazie ad un interessante servizio delle Iene proposto qualche anno fa, che il cobalto viene estratto principalmente nelle miniere del Congo (più della metà del cobalto a livello globale arriva da qui).
In questo paese l’uso di manodopera infantile è abbondante tanto quanto la violazione dei diritti umani, seppur formalmente il Congo sia una Repubblica democratica. Il buon Pelazza si è anche sforzato di mostrare gli effetti del mercato del cobalto sulla disgregazione dei rapporti sociali e sulle prospettive di vita di ragazzi e, addirittura, bambini.
Noi italiani, in particolare, dovremmo interrogarci sulle condizioni di vita di chi lavora, oggi, in queste miniere. Del resto è storia recente la tragedia dei nostri nonni morti o ammalatisi nelle miniere di carbone in Belgio.
Altro effetto del mercato (legale e, soprattutto, illegale) del cobalto, incentivato dalle principali aziende produttrici e fruitrici del prezioso materiale, è la guerra d’influenza e controllo che Cina, USA e diversi paesi europei stanno combattendo tra loro per ottenere il minor prezzo possibile.
Ciò, ovviamente, ha provocato forti oscillazioni di prezzo. Difatti all’apice dello scontro tra le superpotenze il prezzo del cobalto è arrivato addirittura a 95.000 dollari a tonnellata, mentre oggi si assesta sui 55.000.
Superare il cobalto: le batterie allo stato solido
E’ recentissima la notizia per cui Toyota, in competizione con altre grosse aziende cinesi, statunitensi, tedesche e francesi, sta sviluppando una nuova tecnologia: le batterie allo stato solido.
Per come ci è stata presentata la faccenda, pare che queste batterie saranno l’evoluzione di quelle attuali: più performanti, piccole, capaci di contenere maggiore quantità di elettricità e che si ricaricano in pochissimo tempo.
10 minuti. Tanto – s’è detto – sarà il tempo d’attesa di una ricarica di un’auto elettrica.
Tutto molto bello. Peccato che le ragioni reali per cui si sta arrivando a progettare e costruire le batterie allo stato solido sono altre: evitare di usare il cobalto. Perché costa e perché la guerra tra superpotenze per ottenere il controllo di questo materiale costa ancora di più ed è ad esito incerto.
E così Toyota, Tesla, Panasonic, ma anche i colossi della telefonia si stanno orientando verso altre soluzioni. Se per la telefonia non si può fare il passo più lungo della gamba e il cobalto è ancora un materiale indispensabile, per l’automotive pare che si sia arrivati ad una soluzione: usare le batterie al litio-ferro-fosfato.
L’unica fregatura è che questo genere di batterie – con pochissime percentuali di cobalto – soffrono di una minore densità energetica e comunque non sono in grado di supportare le ricariche rapide.
Difatti gli industriali sono ben consapevoli di ciò e sanno bene che seppur si arrivasse ad ottenere batterie allo stato solido più capaci e in grado di supportare ricariche fast, comunque la rete infrastrutturale (non solo qui in Italia, un po’ dappertutto), ad oggi e nell’immediato futuro, non è in grado di erogare una quantità di energia tale da permettere ricariche ottimali inferiori ad almeno 30 minuti (minuto più minuto meno).
Quindi, in buona sostanza, la promessa di ricariche rapide è puro marketing. Niente di più.
Ambiente e batterie
Anche nell’eventualità che si dovesse superare l’uso del cobalto, resta comunque ferma la problematica ambientale. Le batterie che comunemente usiamo sono composte di litio, nichel, manganese, mercurio, piombo, oltre a svariati materiali inquinanti che rappresentano una bomba ad orologeria ambientale. Insomma, più aumenta il consumo di oggetti funzionanti a batterie, più aumenta la quantità di rifiuti e più aumenta il rischio di uno scorretto smaltimento di rifiuti così pericolosi.
Un solo grammo di mercurio inquina un intero lago. Il litio è un materiale non rinnovabile e anche se buona parte delle batterie delle auto elettriche può essere disassemblata e riutilizzata, stando alla tecnologia attuale, il litio no. Diverrà materiale inerte.
Qui si pone il dubbio: come vengono smaltite le batterie?
In buona sostanza vengono smontate (quando possibile) e poi i materiali recuperabili vengono reimmessi sul mercato sotto forma di nuove materie prime. Gli inerti vengono inceneriti oppure immessi nelle discariche e interrati. La questione è di rilevante importanza, dato che l’Italia è tra i primi paesi d’Europa quale produttrice di rifiuti da batterie. Eppure ne sappiamo davvero poco.
Stando a quanto riportato in questa tabella del Ministero dell’Ambiente (ferma al 2014, ma dà comunque l’idea), l’Europa produce 1 milione e seicentottanta mila tonnellate di rifiuti derivanti da batterie e accumulatori. L’Italia è quinta, dietro a Germania, Francia, Spagna e Regno Unito. E il trend pare in crescita.
Da persone ragionevoli immaginiamo che una produzione globalizzata quale quella di componenti elettronici alimentati a batterie sia accompagnata da politiche globalizzate di responsabilizzazione della gestione e dello smaltimento di questi prodotti che – in più o meno tempo – diventeranno rifiuti.
Eppure non è così.
La regolamentazione dei prodotti a batterie immessi sul mercato è scarsa, se non nulla. Non si impone, per dire, agli industriali di immettere sul mercato prodotti contenenti pile ricaricabili, limitando, così, l’uso di quelle usa e getta. Oppure non si vieta di commercializzare quest’ultime. O, ancora, non si impone ai produttori delle imposte di scopo, quali – per esempio – quelle finalizzate a fornire tutti gli Enti locali di contenitori per la raccolta di batterie esauste. Ancora tanta, troppa gente continua a gettarle nell’indifferenziato.
La gestione dei rifiuti
In Europa lo smaltimento delle batterie è regolato dalla direttiva 2013/56/UE. In Italia contiamo un numero imprecisato di provvedimenti normativi, nazionali, regionali e locali, tra cui i più importanti sono il D.Lgs. 27/2016 e il D.Lgs. 188/2008, oltre al TU ambientale. Queste fonti normative, di per sé tecniche e complesse, di fatto prescrivono diverse cose (che qui cerco di spiegare con semplicità): un contributo a monte per i produttori, il quale comprende il costo dello smaltimento; una gestione dei rifiuti ottimizzata; una capillare azione di raccolta delle batterie esauste; un trattamento di queste volto al recupero e al riutilizzo di quanti più elementi possibile. E, infine, l’incenerimento dei materiali inerti, a seguito di riciclaggio o stoccaggio.
Il ruolo di Cobat
Nei fatti, però, accade che solo per alcune tipologie di batterie è possibile recuperare alcune parti da reimmettere nel ciclo produttivo. A tal fine una funzione essenziale è svolta dal Cobat (Consorzio batterie esauste), che però, ad oggi, non risulta efficace.
Non perché l’idea di affidare ad un consorzio tutta la gestione del recupero e della reimmissione nel mercato delle batterie esauste non sia una buona idea, ma semplicemente perché il sistema di raccolta non funziona come dovrebbe. Le batterie esauste sono troppe e il sistema di raccolta e gestione non è capillare, né efficace.
Basti vedere che in tutta Italia, esistono solo 4 impianti di trattamento. Mentre il numero di siti di raccolta e stoccaggio è molto al di sotto del livello ottimale di capillarità.
Tra l’altro ad oggi, anche nei territori a vocazione più ambientalista, non esistono contenitori pubblici di raccolta di batterie esauste. Una funzione essenziale è attribuita ai privati. Generalmente le batterie esauste si conferiscono nei supermercati o nei centri commerciali, che devono predisporre appositi contenitori.
A parte ciò, la mancanza di semplici campagne di comunicazione e di procedure snelle e chiare su come conferire correttamente questo genere di rifiuti porta la gente, necessariamente, a farlo nella maniera più sbagliata.
Ciò dipende, essenzialmente, dal fatto che la gestione dei rifiuti, a livello politico-normativo, in Europa e in particolare in Italia è stratificata, deresponsabilizzante, farraginosa e inutilmente complessa. Tutto ciò lascia ampi margini di irregolarità se non addirittura illegalità, sia a monte che a valle.
Inoltre il riparto delle competenze in materia di rifiuti è concorrente tra Stato e Regioni e ciò contribuisce ad indebolire una necessaria visione unitaria della questione che, ripeto, è globale in fase produttiva e dovrebbe esserlo anche in fase di smaltimento. Se non globale (è un’utopia, certo), quantomeno dovrebbe esserlo su scala statale.
Costi delle batterie
(e le batterie integrate)
Un altro problema, di ordine efficientistico, economico, oltre che ambientale, è quello del costo delle batterie.
Per capirci, uno smartphone, date le sue caratteristiche costruttive, di elaborazione e di memoria, può tranquillamente durare 10 anni e oltre. La sua batteria no. In genere dopo 2 anni inizia a perdere di efficienza e, in base al numero di ricariche e alle condizioni di utilizzo, dopo 3 o 4 anni la batteria è da buttare. Che succede di norma? Che chi non è malato di consumismo, tenderà a comprare una batteria nuova. E così il dispositivo potrà tornare ad essere perfettamente funzionante.
Dato che il mercato, come già sappiamo, è composto principalmente da grosse società di capitali e dato che queste agiscono con influenze (più o meno pesanti) che servono ad indirizzare i consumatori, che succede se una parte (rilevante) dei consumatori tende a cercare di aumentare il ciclo di vita dei prodotti che compra?
Succede che le influenze diverranno pesanti. Ciò spiega il motivo per cui le batterie compatibili con quel dato dispositivo sono vendute a prezzi alti o, peggio, sono introvabili. Il prezzo o la disponibilità dipenderà dalla politica aziendale, ma la logica di fondo è sempre la stessa: meno spendi e meno probabilità avrai di trovare pezzi di ricambio.
Per altri produttori si passerà dall’influenza pesante al ricatto economico (ovviamente invisibile): vuoi uno smartphone (o un qualsiasi dispositivo elettronico) con ottime prestazioni a prezzi competitivi? Te lo propongo, con batteria integrata. Così, in un ciclo di vita breve, sarai costretto a cambiarlo, anche se è perfettamente funzionante, perché cambiare la batteria diverrà, praticamente, impossibile.
Tutto ciò produce un surplus di immondizia, che causa una marea di problemi di ordine sociale, ambientale, economico, i quali ricadono sulle spalle della collettività. I produttori, dal canto loro, sono esonerati da ogni responsabilità solo pagando all’origine un contributo di smaltimento. Così potranno perpetrare le logiche del consumo, indotto e costretto.