Dopo aver letto l’ennesimo DPCM, che in pratica impone la chiusura di bar, ristoranti, cinema e teatri, almeno fino a metà novembre, oltre a numerose altre misure per contenere la diffusione del virus, di primo acchito mi son chiesto: e perché alle 18.00 e non, chessò, alle 19.30 o alle 20.25? Il virus per caso agisce più o meno violentemente in base all’orario? E perché proprio alle 18.00 quando i ristoranti stanno ancora chiusi, così come pure i pub, le birrerie, le cicchetterie e, in genere, i locali serali e notturni? E soprattutto perché loro si e i centri commerciali no? Non sono forse pure loro luoghi di frequentazioni di massa, anzi, pure molto più di un bar?
Quante domande mi son fatto, alle quali non riesco a dare risposta, nonostante tante riflessioni e tante letture fatte per vedere di riuscire a trovare una logica in questo ennesimo DPCM.
Il DPCM, capiamo che cos’è
Forse la base da cui partire, per darci una risposta, sta proprio nell’acronimo. DPCM sta per decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che in pratica è un atto amministrativo, di natura monocratica. Capiamo meglio che vogliono dire questi due concetti.
Atto amministrativo…
Il DPCM non è una legge, non è nemmeno un atto avente forza di legge. E’ un atto amministrativo. In quanto tale ha un pregio e un difetto per chi lo emana. Il pregio è che sfugge a qualsiasi controllo di natura politico-costituzionale. Non c’è bisogno di discussione, di approvazione di un ramo del Parlamento e poi dell’altro, della promulgazione (e precedente controllo) da parte del Presidente della Repubblica o del sindacato costituzionale da parte della relativa Corte.
…di natura monocratica
No, è un atto veloce, emanato in pratica da una sola persona, il Presidente del Consiglio dei Ministri, magari dopo una breve discussione con i Ministri, ed è subito efficace. L’unico rimedio contro eventuali profili di illegittimità o inopportunità o ingiustizia manifesta (o tanti altri vizi dell’atto amministrativo) sta nel proporre ricorso al TAR (del Lazio in questo caso). Ma con i tempi che ha (e i costi), di fatto il rimedio giurisdizionale è praticabile solo da pochi. E poi che li paghiamo a fare i politici se poi dobbiamo essere noi cittadini ad impugnare atti formalmente amministrativi ma di fatto normativi? E a che serve tutto il sistema istituzionale fatto di controlli, veti e rimedi per impedire l’abuso degli strumenti del diritto?
Il difetto del DPCM?
Il difetto è che è una norma secondaria, la quale non può derogare alle norme ordinarie né tantomeno alla Costituzione. E’ possibile farlo, certo, ma solo se ci sono motivate ragioni di sicurezza, incolumità pubblica, ordine pubblico, pericolo grave… insomma, in tutti i casi di urgenza e necessità che richiedono l’emanazione di norme veloci, efficaci, urgenti e necessarie per fronteggiare una situazione inaspettata e, soprattutto, temporanea.
Oggi non è più inaspettata né temporanea
C’erano questi requisiti a marzo, quando è scoppiato il bubbone del Covid in Italia? Certo, anche se qualcuno, già allora, ha sollevato dubbi sulla mole di DPCM che invece potevano benissimo essere sostituiti da decreti legge, anch’essi atti in grado di fronteggiare situazioni emergenziali, emanati dal Governo, ma soggetti a controlli parlamentari e costituzionali. E, non ultimo, obbligatoriamente soggetti a discussione e conversione in legge. Oppure a perdere di efficacia.
Insomma, già allora si poteva affrontare la questione senza comprimere le tutele costituzionali e assoggettando le scelte del Governo ai controlli politico-istituzionali. Tra l’altro facendo ciò si sarebbero poste in essere scelte più discusse, ampie e quindi ponderate ed equilibrate.
Se allora non c’era motivo di arroccare le decisioni intorno a poche persone, peraltro dimostratesi incapaci di fronteggiare l’emergenza, figurarsi oggi, quando non siamo più davanti ad un’emergenza, ma ad un fenomeno strutturato, diffuso, di portata globale e, ormai conosciuto da diversi mesi.
Mesi, inclusi quelli passati al mare o a bighellonare o a chiacchierare di banchi con le rotelle, a scrivere libri su perché guariremo, anziché ad adottare una strategia, da portare all’attenzione del Parlamento, per fronteggiare quella che i principali virologi hanno detto essere una nuova ondata di contagi. E che, infatti, c’è stata.
L’inconsistenza dell’opposizione
Che succede se un governo abusa di uno strumento per esercitare poteri in modo arbitrario? Interviene l’opposizione. Queste dinamiche, in uno stato di diritto come il nostro, vanno affrontate sul piano politico-parlamentare. Ecco dunque che l’opposizione, al pari della maggioranza e del relativo governo, opera sul piano dell’immagine e non su quello sostanziale del contrasto all’abuso di potere. Perché questa metodologia preferisce non censurarla, dato che potrebbe averne bisogno in futuro.
Ed eccoci oggi, con un nuovo DPCM, che dimostra ancora una volta lo svuotamento di significato dei principi costituzionali, il danno enorme ad un’economia reale in affanno e, non ultimo, l’attacco a quei settori che non hanno contribuito alla diffusione dei contagi. Anzi. Il problema sta altrove.
Bar, ristoranti, cinema e teatri chiusi e centri commerciali aperti
Ieri ero al bar con un amico. Poca gente. Erano le 18.00 e il titolare stava chiudendo. Gli ultimi avventori si stavano allontanando e, mentre ci passavano accanto, dicevano che sarebbero andati al vicino centro commerciale, per passare il tempo.
Il tempo di un caffè, salutare l’amico e, in preda alla curiosità, sono andato anch’io, giusto per vedere che aria tirava. Non c’era nemmeno uno stallo di parcheggio libero. C’era un via vai di gente, tipico solo delle giornate pre-natalizie. Ed era un normale martedì ottobrino.
Che senso ha imporre la chiusura al piccolo bar di provincia quando in città i centri commerciali scoppiano di gente? Tutti i ristoratori, baristi, gestori di palestre, cinema e teatri che ho conosciuto finora si sono adeguati alle capillari e spesso onerose misure di prevenzione. Tutti. Ciò ha comportato per molti di loro anche investimenti economici non indifferenti. Che non hanno ammortizzato. E ora, dopo essere stati chiusi per mesi, essersi adeguati, che fanno? Li richiudono di nuovo, quasi per punizione per aver rispettato con diligenza tutte le misure imposte.
Mentre in un centro commerciale qualsiasi le corsie pullulano di gente. Non c’è logica in tutto ciò. L’unica logica che emerge, a questo punto, è la tutela della GDO e di Confindustria che, guardacaso, oggi latita, mentre qualche mese fa sbraitava quando si paventò l’idea di chiudere i settori produttivi all’epoca inutili ma rischiosi.
Bar, cinema, teatri e locali come antidoto al Covid (e invece li chiudono)
I bar sono luoghi di incontro e socializzazione. I ristoranti sono stati considerati, dalle forze politiche oggi di maggioranza, come il petrolio della nostra economia. I cinema e i teatri, oltre ad essere luoghi sociali, sono luoghi di cultura.
Due sono le conseguenze gravi nell’aver scelto di chiudere questi settori.
La prima di tipo economico
In un paese con una pressione fiscale elevatissima come l’Italia, il piccolo esercizio campa a stenti. Chi più, chi meno, riesce a restare a galla, senza mettere granché da parte. I più fortunati danno lavoro a qualche persona, ma nel settore della cultura spesso il lavoro è precario. Chiudere, anche solo per poco, significa imporre a questa gente di mettere mano ai risparmi. Se ce ne sono. Farli entrare nel vortice del debito o peggio; costringerli a chiudere o a svendere a chi ha i mezzi.
La polarizzazione dell’economia reale è un fenomeno noto ormai da decenni ed è un fenomeno tutto liberista. Nei periodi di crisi, chi ha le spalle grosse rileva i piccoli o li fa fallire, con poco, aumentando così le proprie ricchezze. E’ noto che in queste fasi i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri. E’ in questi periodi di crisi che si vede se lo Stato ci tiene all’interesse della Nazione o ad interessi estranei, di matrice capitalistica.
La seconda conseguenza è di tipo sociale
Tutte queste piccole realtà servono anche per diluire le masse di persone, per controllarle persino. Controllare il rispetto degli spazi, delle norme igieniche, delle misure di sicurezza. Compito che non spetta certo ai gestori, ma che finora hanno svolto, con spirito di sacrificio.
Se il governo Conte, anziché divenire preda della hybris e del conseguente delirio di onnipotenza da DPCM, avesse dato ascolto a qualche sociologo o se in seno ad esso ci fosse stato qualche ministro o sottosegretario che avesse letto qualche saggio di sociologia per studenti medi anziché Tex Willer, oggi saprebbero che incidere sulle libertà personali vuol dire anche influenzare i comportamenti di massa.
Quando decidi di chiudere i bar, i cinema, i teatri, non invogli la gente a rinchiudersi a casa. Se lasci aperti i centri commerciali, li spedisci tutti lì, anche quelli che, fino ad oggi, non ci andavano. Se il bar di paese è chiuso, ma lasci aperto l’autogrill in autostrada, chi vive nelle vicinanze va lì. Quindi, di fatto, stai garantendo maggiori possibilità di assembramento.
Il trasporto pubblico
Non è un caso che buona parte dei contagi sia avvenuta nelle città metropolitane o, comunque, lungo gli assi industriali del paese. Analizzando la mappa dei contagi (e sempre prendendo con le pinze l’efficacia dei tamponi) è facile associare il maggior contagio alle zone ad alta urbanizzazione o ad alta densità industriale.
E’ in queste realtà che, com’è noto, il trasporto pubblico, storicamente, soffre delle carenze di mezzi e personale e, di conseguenza, dell’eccesso di utenza. E’ su questa criticità che ci aspettavamo che il governo intervenisse, non oggi, a frittata fatta, ma quest’estate, quando c’era tutto il tempo per improntare le corrette strategie e individuare i mezzi più consoni. Lo avevo già anticipato in quest’articolo. E non perché sono un tipo brillante, anzi, ma perché era facilissimo, già a maggio, capire che senza interventi mirati sul trasporto pubblico, sarebbero tornati i contagi. Così com’è avvenuto.
Di mezzi per intervenire ce ne stanno a bizzeffe: contratti pubblici, requisizioni per pubblica utilità, convenzioni, accordi, ecc. C’era il tempo per capire dove e come intervenire, anche con l’ausilio dello scambio di informazioni con Regioni ed enti locali. E’ stato fatto? Solo oggi il premier Conte, intervenendo in Parlamento, ha genericamente parlato del problema, quando è noto che è proprio questo il settore in cui maggiore è il rischio di contagio. L’ammasso di gente nei mezzi pubblici, con l’aria stagnante e chiusa, per più o meno lungo tempo, è un vero e proprio corona-party. Altro che bar e teatri. Altro che chiusure generalizzate in tutta Italia. Questo è sciacallaggio, non tutela della salute.
I settori a rischio (ma che non vengono toccati, e Confindustria ringrazia)
Poi ci sono altri settori a rischio, come quello della logistica, gli impianti produttivi dove gli operai lavorano al chiuso e senza ricambio d’aria o determinati settori industriali dove si lavora a stretto contatto. Anche questi sono potenziali focolai e non è un caso che i principali corrieri, oggi, inviano quasi con cadenza settimanale informative su possibili focolai nei centri di smistamento dei pacchi.
Anche qui si poteva semplicemente monitorare le varie realtà, individuare le criticità e imporre alle proprietà di adottare le misure necessarie per impedire l’insorgere di rischi di contagio. Ma tutto tace. Si è preferito chiudere i bar, limitare la didattica di presenza, chiudere i teatri… insomma, prendersela con i piccoli e con i settori inutili della società civile e dello Stato. Anche questo è il lato oscuro e apparentemente irrazionale del liberismo di Stato, che invece razionale lo è molto, ma non per noi.