Perché le richieste di Greta Thunberg e del movimento fridays for future e Climate Strike sono totalmente inefficaci, anzi, rischiano di peggiorare le cose.

Negli ultimi tempi si è ripreso a parlare abbondantemente di Greta Thunberg, di climate change e dei ragazzi che scendono in piazza, in tutto il Mondo, per manifestare a favore della salvaguadia del Pianeta. Al solito le tifoserie si sono divise nettamente, tra chi si pone accanto alla piccola Greta e chi, invece, la considera una pedina nelle sporche mani di cattivi manipolatori.

Con quest’articolo non voglio collocarmi in alcuna tifoseria pro o contro Greta, ma fare giusto un paio di riflessioni su due aspetti per me importanti ma antitetici. Il primo è che ritengo un’ottima cosa che Greta e i ragazzi scendano in piazza e che ci sia una figura carismatica (almeno per la generazione che rappresenta), nonché globalizzata capace di coordinare in qualche modo un vasto movimento globale, seppur in nuce organizzato. Il secondo aspetto, però, vanifica completamente gli sforzi effettuati dalla piccola Greta e dai ragazzi che credono che, manifestando in piazza e ponendo delle richieste alla politica mondiale, si possano cambiare effettivamente le cose.

I destinatari delle richieste di Greta

Greta Thunberg ONU

Anzitutto i destinatari. La classe politica mondiale (ed europea in particolare) a cui si rivolge il movimento di fridays for future è il destinatario sbagliato, perché la classe politica, sia essa liberista, liberalista, social-democratica o sovranista, non fa altro che rappresentare gli interessi di chi la finanzia, detiene il debito o investe (in particolare) e del mercato globale (più in generale). Inutile dire che chi detiene i debiti degli stati o fa grossi investimenti nei suoi territori influenza – molto pesantemente – le politiche economiche e sociali di quest’ultimi e che quando si sente parlare di spread, reazione dei mercati ad una certa vicenda nazionale, spending review (ossia riduzione della spesa pubblica al fine di pagare i debiti e gli interessi sul debito), incentivi sui consumi, fiscalità agevolata per aziende transnazionali, ecc. ecc. si sta parlando esclusivamente di misure a tutto vantaggio di grossi soggetti privati, siano essi banche, holding o grande industria.

E veniamo ora a quest’ultima. Sostanzialmente è l’industria globale (in particolare energetica) quella che produce le più alte concentrazioni di CO2 in atmosfera e che trasforma le risorse naturali in mezzi di produzione. Ma non basta. Per arrivare al massimo rendimento ai minimi costi possibili e ridurre così la concorrenza al minimo, eliminando dal mercato i piccoli produttori, l’industria ha bisogno di ottenere a buon mercato le risorse, siano esse umane o naturali e così, per esempio, delocalizza i propri stabilimenti nelle zone del globo dove il costo del lavoro è più basso o dove può ottenere materia prima a costi più bassi.

L’ambiente, i diritti dei lavoratori, i diritti sociali, la stessa umanità, per l’industria, rappresentano un costo. Chi crede ad un capitalismo dal cuore umano o è ingenuo o è in malafede.

Insomma, per questa gente le risorse sono un costo. Più sono bassi i costi e più l’industria può vendere le proprie merci a buon mercato e sbaragliare la concorrenza.

Dato che anche l’ambiente, con i suoi alberi, le foreste, i mari e i fiumi, sono un costo, all’industria non interessa che effetto può provocare la loro trasformazione, interessa solo quanto la loro trasformazione si traduce in abbattimento di costi o aumento di profitti.

Facciamo un esempio

Poniamo che un certo processo di produzione industriale di materiale plastico produca emissioni di CO2 nell’atmosfera pari a una tonnellata all’anno. Poniamo che nei dintorni ci sia una foresta che sia in grado di assorbire una tonnellata di C02. In questo caso, nonostante l’attività inquinante dell’industria, la foresta cattura il carbonio e quindi non provoca alcun incremento di CO2 in atmosfera.

Ma ad un certo punto la catena di panini T.Donald, che ha esaurito i propri pascoli intensivi e ha bisogno di allargarsi, finanzia la campagna elettorale del candidato alla presidenza del paese in cui insiste l’industria plastica e questi, avendo vinto le elezioni, ricambierà il favore consentendo la deforestazione per creare nuovi pascoli. Alle rimostranze popolari risponderà dicendo che così si creeranno nuovi posti di lavoro e nuove opportunità nell’indotto. Peccato che però la deforestazione ha provocato un aumento consistente delle emissioni di CO2 in atmosfera, proporzionato alla quantità di alberi abbattuti. L’effetto non sarà immediato, ma si noterà negli anni. La colpa sarà del Presidente? Oppure dell’azienda che produce materiale plastico? O della T.Donald, che fa panini?
In questo esempio, il Presidente altro non è che uno strumento nelle mani di chi lo ha finanziato, mentre i responsabili del disastro ambientale sono quelli che emettono sostanze inquinanti e riducono le fonti di assorbimento, insieme, entrambi. Se qualcuno, anni dopo, dovesse lamentarsi, si risponderebbe – al solito – con il ricatto occupazionale: “ma come? Queste aziende portano soldi e benessere sul territorio!”. Chiaramente si ometterebbe di dire che quelle aziende producono sfruttamento di ogni risorsa, umana e ambientale e che i profitti non ricadono sul territorio, ma vengono spostati per essere reinvestiti altrove, dove le condizioni sono più vantaggiose.

Il problema non è solo l’emissione, ma le fonti di assorbimento

Quindi appare chiaro che uno dei fenomeni che contribuisce al riscaldamento globale non è solo l’attività di emissioni di CO2 in atmosfera, ma il progressivo ed inesorabile consumo di suolo, sia per attività agricole sia per altri utilizzi (allevamento, edilizia, ecc.). Le emissioni potrebbero essere frenate aumentando il numero di alberi a livello globale, mentre avviene il contrario.

Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), agricoltura deforestazione e altre modalità di utilizzo dei terreni contribuiscono per il 24% alla produzione di emissioni. Questo dato ci servirà tra poco, quando parleremo di bio-economia.

Per adesso ci basti sapere che ridurre le emissioni serve a ben poco e che la politica globale sostanzialmente ci prende in giro, imponendo riduzioni delle emissioni ai cittadini, senza toccare gli interessi dei grossi gruppi che controllano la produzione di energia, l’agricoltura e l’industria e che sottraggono suolo alle fonti di assorbimento a vantaggio della creazione di nuovi mezzi di produzione.

Quali sono le aziende che inquinano di più?

Sempre secondo l’IPPC, le aziende più inquinanti sono quelle del settore dell’energia elettrica (25%), seguite da quelle agricole intensive (24%) che determinano un aumento anche a causa dell’utilizzo massiccio di fitofarmaci, e dall’industria (pesante e dei consumi), che incide per il 21%. Per il 14% contribuiscono poi i trasporti.

Il mercato globale

Il buon vecchio Marx aveva già spiegato questo fenomeno sin dalla fine dell’Ottocento, pur non parlando di riscaldamento globale, aveva già ampiamente spiegato che il modo di produzione capitalista avrebbe portato ad uno sfruttamento delle risorse su scala sempre più vasta e ad una produzione e smercio dei prodotti su scala globale. Lo sfruttamento delle risorse, siano esse umane o naturali, è una diretta conseguenza (anzi, è connaturata) del modo di produzione capitalistico.

Lo spiega dicendo che un capitalista può cacciare l’altro dal campo e conquistare il suo capitale solamente vendendo più a buon mercato. Per poter vendere più a buon mercato senza rovinarsi, però, deve produrre più a buon mercato. E come? Innanzi tutto con una maggiore divisione del lavoro, con un perfezionamento costante dei macchinari e con l’accaparramento di nuove risorse naturali.

Più è ottimizzato il processo produttivo e minori saranno i costi di produzione. Ma, continua Marx, sorge una gara generale fra i capitalisti per sfruttare tutte le risorse su una scala sempre più grande, al fine di sbaragliare la concorrenza.

Però ora il capitalista ha un problema: se riesce a produrre più merci in minor tempo e a costi più ridotti, dovrà ovviamente vendere più merce e a prezzi inferiori, ecco che ha bisogno di espandersi non solo dal punto di vista produttivo, ma anche nel mercato.

Il suo guadagno, però, non dipende dal prezzo di vendita, perché quello varia in base a molti fattori, ma dalla differenza tra i costi di produzione della concorrenza e i suoi. Però la concorrenza, prima o poi si adeguerà ai nuovi costi di produzione, ossia introdurrà nuovi macchinari, un perfezionamento maggiore della divisione del lavoro e si riallineerà ai costi di produzione del nostro capitalista. E quindi ora si trovano tutti sulla stessa barca.

Per farsi concorrenza, quindi, oggi, si troveranno a vendere o al pari oppure al di sotto dei costi di produzione. E quindi che succede? Di nuovo, maggiore divisione del lavoro, introduzione di nuovi macchinari, sfruttamento su più larga scala delle risorse naturali, ecc. ecc. Si torna, di nuovo, al solito meccanismo di perfezionare, ridurre e allargare. Chi si ferma fallisce, mentre chi vuole sbaragliare la concorrenza deve per forza operare su scala sempre più larga. Ecco che si genera il mercato globale. Ma come qualcuno ha fatto notare (Bauman, Augé e altri), il pianeta è grande, ma finito. E così il nostro capitalista, dopo aver esaurito le fonti sul pianeta e aver ricondotto, per l’ultima volta, il prezzo delle merci al loro costo di produzione, esplorerà altri pianeti. Ma questo è un argomento che tratterò in un successivo articolo.

Qui ci giovi ricordare come Marx abbia spiegato il modo di produzione capitalistico e abbia profetizzato che avrebbe esaurito le risorse naturali e aumentato il divario tra ricchi e poveri del pianeta.

Per tornare all’esempio dei panini

Quindi, per tornare all’esempio della T.Donald, il prezzo di 1,00 € che paghi per il suo panino, molto probabilmente sta al di sotto o al pari del suo costo di produzione, che comprende: deforestazione, allevamento, macellazione, trasporto, lavorazione, cottura, servizio, ecc. Il ché ci lascia presupporre che per aumentare il suo profitto e ridurre la concorrenza la T.Donald dovrà sempre ottimizzare ancora di più i suoi processi produttivi e quindi procedere a nuove deforestazioni, aumentare il tempo di lavoro, aprire nuovi punti vendita, ecc., su scala sempre più grande, il ché presupporrà un notevole consumo di suolo oltre che ingenti sfruttamenti di risorse naturali e umane, fino a quando le risorse non saranno completamente esaurite.

Le richieste di Greta

Quantunque le richieste della piccola Greta e del suo movimento globale siano sacrosante e abbiano messo in mostra un problema sempre più grave, non solo sono rivolte alle persone sbagliate, ma si limitano a chiedere la riduzione dell’inquinamento da fonti fossili e il rispetto degli accordi di Parigi, non un ripensamento globale sul modo di produzione, che – giova ripeterlo – produce emissioni nocive e riduce l’assorbimento, su scala sempre più vasta.

La risposta dell’Europa alle fonti fossili: cambiare le fonti…

Come già spiegato in quest’articolo, l’Europa ha messo in campo un piano basato sulla c.d. bio-economia circolare, che prevede la dismissione graduale dell’utilizzo di fonti fossili e un aumento dell’utilizzo di fonti naturali per numerose produzioni, in particolare energetica e industriale.

In altre parole con la bio-economia s’intende utilizzare i terreni per produrre combustibili e prodotti naturali da utilizzare non solo per la produzione di altri mezzi di produzione, ma anche per il largo consumo (es. piatti in fibra di canapa, posate in legno, cotonfiocchi in fibre naturali, ecc.).

Questo piano è in linea con l’accordo di Parigi e sembrerebbe accontentare le intenzioni dei giovani manifestanti e della piccola Greta. Ma c’è un rischio enorme.

Nella realtà in cosa si tradurrà?

Ce lo spiega di nuovo Marx, quando parla dei cicli produttivi: al capitalista non interessa investire in un ramo d’industria piuttosto che in un altro, non interessa investire in petrolio, in motoscafi, in pane o in lampadine, l’importante è ottenere profitto. Quindi, quando l’utilizzo di fonti fossili sarà disincentivato, le stesse aziende che le hanno sfruttate finora, si butteranno sul ramo più profittevole, il ché comporterà l’uso dello stesso metodo – quello capitalistico – su fonti diverse: sfruttamento dei terreni, delle risorse naturali (e chiaramente del lavoro) su scala sempre più ampia. Non è infatti un caso che i principali investitori nella bio-economia siano le stesse aziende che finora si sono occupate dell’estrazione, raffinazione e vendita di petrolio. E non è un caso che in Africa, America Latina, Sud Europa e Sud-Est asiatico ci sia ormai una corsa per accaparrarsi ingenti fette di terre fertili. Nemmeno i vasti incendi in Amazzonia sono un caso.

Il problema sta nel modo di produzione, non nelle fonti di approvvigionamento

Dunque appare evidente che il problema principale non sta nella fonte di approvvigionamento, quanto nel modo di produzione e che ridurre le emissioni è completamente inutile se all’orizzonte si prospetta uno sfruttamento più massiccio della terra, il ché vuol dire maggiori deforestazioni per permettere coltivazioni su larga scala di piante e ortaggi ad uso energetico e industriale (oltre agli immancabili pascoli) e, conseguentemente, un ritorno al latifondo su scala globale.

Ora, la piccola Greta bene fa ad aumentare l’attenzione sui cambiamenti climatici, ma l’errore di fondo sta nel porre le domande alle persone sbagliate. La politica è uno strumento in mano a (più o meno) pochi gruppi che detengono ingenti capitali e si dividono i debiti degli stati nazionali. Le misure poste in essere dalla politica globale incideranno sempre e comunque sulle fasce più deboli della popolazione (pensate, per esempio, all’obiettivo di eliminare tutti i mezzi a combustione fossile nei prossimi decenni. Chi potrà permettersi un’auto elettrica? E davvero l’elettrico è ecologico?) e non risolveranno alcunché, anzi, la politica bio-economica inasprirà i conflitti sociali e produrrà uno squilibrio ambientale enorme.

Le richieste andrebbero quindi fatte ai veri potenti della terra, a chi detiene il controllo dei mezzi di produzione. Ma farle a loro è un tantino complicato, perché spesso si nascondono dietro ad inaccessibili CdA e non hanno alcun interesse a cambiare metodo di produzione. Anzi. E quindi, in fondo, il movimento di Greta è una pia illusione. Non con le richieste si salva il pianeta, ma con la lotta. Quella di classe. Se solo ci fosse una coscienza di classe, però.

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