Il caffè va fatto come Dio comanda

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Ogni mattina il motivo principale che ci spinge ad alzarci è quel buon odore di caffè che proviene dalla cucina e si sparge per le stanze. E’ risaputo che è la bevanda preferita degli italiani e che ogni momento è buono per berlo: la mattina, perché ci sveglia e ci dà quella giusta carica per iniziare la giornata, a metà mattinata, magari al bar con amici e colleghi, dopo pranzo, per concludere in bellezza il pasto e i più ardimentosi lo prenderanno di pomeriggio e persino la sera. I viaggiatori, poi, sanno bene che ogni sosta ad un Autogrill corrisponde a un caffè. C’è chi tollera la caffeina e riesce a dormire, chi invece non prenderà sonno se ha bevuto un caffè dopo le 6 del pomeriggio. In qualunque modo siamo fatti, c’è una cosa che ci accomuna tutti: il buon sapore del caffè che ci resta in bocca è una delle gioie della vita. E infatti qualsiasi barista (principalmente del Sud) che, senza manco chiederla, ti servirà l’acqua insieme al caffè, si offenderà a morte se la berrai dopo aver preso il caffè, perché ciò vorrà dire che quest’ultimo non era buono.

E qui veniamo all’argomento di quest’articolo. Saper preparare un buon caffè.

Ebbene, non è cosa da tutti. Il motivo principale per cui non torniamo più in un certo bar è che fanno il caffè annacquato o se non andiamo a trovare più la nostra vecchia zia è perché ogni volta che ci serve il caffè sa di bruciato. Beh, fare un buon caffè richiede una certa dote di dimestichezza, nella scelta, nella conservazione e nella preparazione. Ecco 7 buoni consigli per preparare un caffè gustoso, che aumenterà sicuramente la considerazione che gli altri avranno di noi!

La scelta del caffè

Sai che esistono oltre 600 generi e 13.500 specie di piante di caffè? Però tra le oltre 100 specie più diffuse commercialmente, quelle che troviamo con molta probabilità sugli scaffali sono l’arabica e la robusta. Dalle miscele delle varie specie acquistate dalle torrefazioni, usciranno prodotti più o meno buoni che dipenderanno non tanto dalla varietà o dalla provenienza, quanto dal tipo di torrefazione. Sulla confezione troverai il tipo di tostatura (chiara, media, forte) e la miscela (es. 75% arabica e 25% robusta), quindi puoi orientarti, nella scelta, scegliendo diversi tipi di miscela e diversi tipi di tostatura, in modo da trovare il caffè perfetto per te.

Un altro consiglio è di confrontare il caffè di una grande marca con uno di una torrefazione artigianale, magari locale, in quanto, se è vero che i costi sono più alti, è anche vero che troverai nuove e particolari miscele, nonché un tipo di tostatura più accurata. Però la regola non è universale. Mi è capitato, in Trentino, di acquistare miscele di una torrefazione locale, di cui tutti ne decantavano le lodi, per scoprire che gusto, aroma e retrogusto erano di poco dissimili da marche più famose e molto più economiche. Quindi è sempre bene scegliere più marche e provare.

La conservazione

Il caffè, sia in chicchi che già macinato, tende ad assorbire gli aromi circostanti, quindi è consigliabile tenerlo sempre ben chiuso e in un luogo fresco e asciutto. I classici barattoli del caffè sono più o meno buoni, ma il must è tenerlo chiuso nella sua confezione originale e in un barattolo in ceramica, perché lo smalto della ceramica tende a conservare gli odori e ad evitare gli sbalzi termici.

La macinatura

Comprare il caffè già macinato è una cosa che facciamo tutti, perché ci risparmia il tempo di macinarlo ogni volta, ma sappi che in questo modo, soprattutto se venduto nelle classiche confezioni in plastica, perde più del 60% del suo aroma. Quello in sottovuoto, magari nella confezione in poliaccoppiato (plastica+alluminio), è migliore, perché lo protegge dall’aria e dagli sbalzi termici.

Però sarebbe preferibile comprarlo in chicchi, perché in questo modo sei tu a decidere il tipo di macinatura e ottenere quella migliore. Già, perché non sempre, nel caffè già macinato, troverai la macinatura ideale.

Su questo punto devi sapere che un macinato troppo fine, anche se di ottima qualità, ti farà avere un caffè tendente al bruciato, troppo amaro, astringente e sgradevole, mentre un macinato troppo grosso ti farà avere un caffè lento che sa di fondo, di pagliericcio.

Il caffè va pressato o no?

Va detto subito: Si. Si e ancora si. Insomma: siiiiii. Va pressato, ma non troppo, altrimenti uscirà poco caffè e saprà di bruciato. Se non lo pressi, uscirà leggero, tipo brodaglia insulsa e senza sapore. Al bar, come già sai, il caffè viene sempre pressato, mentre alcune leggende metropolitane dicono che nella moka di casa non occorre pressarlo. Invece no, va fatto con moderazione, anche con il cucchiaino o con un pressacaffè apposito. Anzitutto devi mettere la giusta quantità di caffè in moka e pressare leggermente finché la polvere non va a livello con il filtro. Non è difficile e non serve nemmeno il dosacaffè. Serve solo quel concetto di quanto basta, tipico delle nostre nonne, che non si può tradurre in numeri e formule, ma che si acquisisce con l’esperienza.

L’acqua

Il caffè va preparato con l’acqua che berresti. Ti piace l’acqua del rubinetto? Allora puoi usare quella. L’acqua del rubinetto sa di cloro o è troppo calcarea? Allora usa l’acqua minerale. E mi raccomando: rigorosamente a temperatura ambiente. Non c’è di peggio che assistere alla preparazione del caffè con acqua bollente perché così faccio presto. Chiunque lo fa, faccia ammenda dei suoi peccati e ripeta con me: mi pento e mi dolgo, non lo farò mai più, giurin giurello.

Inutile dire che anche il livello dell’acqua è importante, perché la giusta dose di acqua e polvere creano il caffè perfetto. In moka l’acqua non deve mai superare la valvola di sicurezza, anzi, dovrebbe stare giusto mezzo centimetro sotto quel livello.

Il fuoco

Il caffè non va assolutamente fatto con la fiamma alta. Capisco che la fretta dei tempi attuali ci porti a voler fare tutto il prima possibile, ma per avere un caffè ottimo…bisogna avere pazienza.

Del resto l’attesa, come direbbe il compianto Riccardo Pazzaglia, ci permette di parlare e di conoscerci meglio. E cosa c’è di meglio che attendere insieme l’uscita dell’amata bevanda?

Quando accendi il gas, metti la fiamma al minimo e poi muovi il regolatore giusto di un paio di millimetri, in modo da alzare il fuoco solo di pochissimo.

La caffettiera ti avvisa quando il caffè sta uscendo perché inizia a borbottare. E’ quello il momento in cui spegnere il fuoco. E’ un po’ come se ti stesse dicendo “spegni il fuoco, sennò brucio!”. Infatti se lasci troppo il caffè sul fuoco è facile immaginare che si brucerà.

Infine, se dopo averlo servito, uno ti dirà “è troppo forte” e l’altro ti dirà “è troppo annacquato”, non sono amici con palati differenti, semplicemente hai scordato di girare il caffè nella moka. Perché la parte più forte sta nel fondo e quella più leggero in cima, quindi va mescolato prima di essere servito.

La caffettiera

Qualunque sia la tua scelta, è indifferente. Una moka vale l’altra, tranne se non l’hai comprata dai cinesi a 2 euro, per cui molto difficilmente sarà composta da materiali di qualità. Ma se spendi il giusto, una forma vale l’altra. Poi, se vuoi optare per la famosa caffettiera napoletana, sappi che è un po’ diversa da quelle comuni. Ecco un video esplicativo su come preparare il caffè nella caffettiera napoletana.

E ricorda: mai lavare la caffettiera col detersivo. Prima di preparare il caffè, sciacquala solo con acqua fredda e di tanto in tanto (tipo ogni 2-3 mesi, a seconda dell’utilizzo) lavala accuratamente, rimuovi i residui di caffè e calcare dai pori e fai un ciclo di pulizie con acqua e bicarbonato. Insomma, Riempi la caldaia con acqua e un cucchiaino di bicarbonato, poi metti un cucchiaino di bicarbonato nel filtro e mettila sul fuoco come se dovessi fare un normale caffè. Dopo fai un caffè normale e buttalo. Et voilà, è tornata come nuova!

Se ti è piaciuto l’articolo, non condividerlo, anzi, offrimi un buon caffè!

Siamo noi le persone sporche, non Asia Argento

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Ok, Asia Argento non è miss tempismo e forse le altre storie che coinvolgono il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein sono un pochetto edulcorate, anche perché si sa, basta fare da apripista e poi tutti vogliono raccontare la propria storia, più o meno credibile, basta che si racconti in tivvù. Si, forse ha aspettato troppo ad esporsi e ora tutti la seguono a ruota e vanno commentando, chi difendendola e chi (i più) accusandola sostanzialmente di essere, senza mezzi termini, un puttanone.

Chi conosce la vicenda saprà benissimo che oggi, dopo 20 anni dall’accaduto, Asia Argento ha rivelato le violenze subite dall’orco di Hollywood, all’epoca dei fatti terzo personaggio più influente al mondo (oggi un po’ meno, quindi meno invulnerabile), violenze dettate dalla regola aurea nel mondo del cinema quando si parla di rapporto tra uomini influenti e donne giovani e carine: o me la dai o ti scordi la carriera. Insomma, qualcuno direbbe che è così che va il mondo e che le donne che ci stanno se la cercano.

L’aspetto curioso è che la maggior parte dei commenti che ho letto finora e che in sintesi danno della troia alla Argento, provengono da donne e da personaggi la cui opinione conta come il quattro a tressette, tipo Vittorio Feltri. Vabbè. Bit sprecati.

Parafrasando, quello che si dice in giro è: lei era maggiorenne e consapevole, quindi lo ha voluto lei. E’ così, o è bianco o è nero, o ci stava o non ci stava. Non esiste una zona grigia.

Ma la zona grigia c’è. Eccome. La viviamo tutti i giorni, basta pensarci. Basta riflettere un attimo sulla differenza tra volontà e costrizione e allora forse ci accorgeremo che ciò che vogliamo, in realtà, è ciò che siamo costretti a fare.

Il labile confine tra volontà e costrizione

Lungi dal voler giustificare in toto l’attrice, perché le rimprovero di aver aspettato troppo tempo per denunciare l’accaduto, quello che vorrei sottolineare è il labile confine tra volontà e costrizione. Quando parcheggio l’auto e mi si presenta il parcheggiatore abusivo, volontariamente gli do qualche spicciolo, ma è perché sono costretto, casomai mi riga l’auto o mi buca le gomme, per dispetto.

Quando il medico, in ospedale, mi viene a dire passi dallo studio e mi cerca 300 euro per una visita privata, volontariamente caccio quei soldi, ma perché sono costretto dal sistema, che va così, altrimenti, se lo indispettisco, col cavolo mi farà quell’operazione di cui ho bisogno.

Se sono un assegnista all’università e il mio barone firma la mia sudatissima ricerca, io gliela concedo volontariamente, ma perché sono costretto, altrimenti posso scordarmi di essere riconfermato e contare su quel misero assegno di ricerca che mi tiene in vita.

Se il politicante locale mi offre 50 euro per votarlo, io volontariamente lo voto, ma perché sono moralmente costretto da quella dazione di denaro. Se poi vogliamo essere pignoli e mutuare l’esempio nella vita virtuale, quando accedo a un sito e leggo questo messaggio se non accetti i cookie non puoi proseguire con la navigazione su questo sito, io accetto volontariamente, ma perché costretto, altrimenti non posso visitarlo, pur sapendo che magari quei cookie mi stanno spiando. Posso proseguire all’infinito, facendo migliaia di altri esempi che dimostrano come la volontà e la costrizione siano due facce della stessa medaglia.

Quindi siamo sicuri che nella vita di tutti i giorni noi non facciamo le stesse cose che ha fatto la Argento? Solo che – diciamoci la verità – quando il medico ci invita a passare dallo studio privato, quella cosa sì, ci pare normale, mentre quando c’è di mezzo il sesso e un paio di personaggi famosi, quello no, non è normale. Bisogna gridare allo scandalo.

Ma ti rivelo una cosa: noi siamo più colpevole di lei quando intaschiamo i 50 euro dal politico, diamo gli spiccioli al parcheggiatore abusivo o cacciamo i soldi dal medico che deve operarci e ci vergogniamo pure di chiedere la fattura. Siamo noi le persone sporche e immonde, non Asia Argento. Lei, almeno, ha denunciato, seppur tardivamente. Noi saremmo in grado di farlo?

Esame da avvocato. Come passarlo

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L’esame da avvocato non è difficile da passare, occorrono solo poche nozioni. Di seguito tutti i consigli pratici e utili per passare scritto e orale.

Premetto una cosa. Ho passato l’esame a prima botta, dopo anni dalla fine della pratica legale e dopo aver smesso di frequentare tribunali, stendere atti, scrivere diffide, insomma, dopo aver abbandonato il mondo forense per più di 3 anni. Perché ho fatto l’esame? Così, per diletto, per completare un ciclo e perché, come diceva mio nonno, prendi il titolo e mettitelo in tasca, che non si sa mai. Dopo l’esame non mi sono iscritto all’albo solo per paura di dover pagare la cassa forense e di dover fare gli inutili corsi di aggiornamento per me che non ho la minima intenzione di svolgere la professione, almeno per ora.

Premetto un’altra cosa. Non sono un genio (anzi, mi ritengo un italiano medio qualunque) e non ho avuto tempo di aprire un qualsiasi libro di diritto, né prima dello scritto né prima dell’orale. Non occorre essere geni o ultra-preparati per passare l’esame da avvocato. Occorre solo conoscere il minimo indispensabile, usare il ragionamento e non copiare. Ma vediamo nel dettaglio.

L’esame scritto

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Un motto che girava nella facoltà di Giurisprudenza recitava Privato, mezzo avvocato. Enorme cazzata. Credi a questa specie di proverbio solo al primo anno. Poi scopri che c’è penale, commerciale, procedura civile e capisci che al massimo sei 1/20 di avvocato. Il motto giusto dovrebbe essere scritto bono? Avvocato sono. Certo, la metrica fa cacare, ma il concetto è quello: se fai un ottimo scritto, l’orale è solo una mezza formalità (ma tra poco vedremo pure come passare l’orale).

In cosa consiste l’esame scritto

Il primo giorno d’esame ti verrà richiesto di redigere un parere scritto in materia di Diritto Civile da scegliere tra due diverse tracce. Il secondo giorno ti verrà richiesto di redigere un parere scritto in materia di Diritto Penale da scegliere tra due diverse tracce, mentre il terzo giorno dovrai redigere un atto giudiziario a scelta tra uno in materia di Diritto Civile, uno in materia di Diritto Penale e uno in materia di Diritto Amministrativo.

Gli inutili trolley

Non appena arrivi nella sede dell’esame scopri il popolo dei trolley e per uno che si è allontanato dal mondo dei praticanti e non ha mai fatto la scuola legale la visione è un po’ sconcertante: che ci fa tutta sta gente davanti all’ingresso della sede con i trolley? Avrò confuso il posto? Mi troverò per caso in aeroporto? No, quei trolley sono solo pieni di libri e codici. C’è di tutto: civile, procedura civile, penale, procedura penale, amministrativo, tributario, societario, famiglia, successioni, navigazione, enti locali e, non si sa mai, pure canonico ed ecclesiastico. Io che arrivo lì con una borsetta e i quattro canonici codici (civile, penale e le due procedure), comprati 3 anni prima, mi sento un pesce fuor d’acqua. Poi, in sede di esame, mi sento meglio: quei trolley pieni di libri non servono a un cazzo. Alcuni vengono anche “sequestrati” all’ingresso. I quattro codici bastano e avanzano per tutti e tre i giorni d’esame, anzi, a dire il vero i due codici di procedura non li ho proprio usati in quei tre giorni.

L’ingresso

Dopo una lunga fila e una ressa che non ti dico (ma perché tutta sta fretta di entrare? Tanto i posti sono segnati) ti vengono consegnati i fogli su cui svolgere l’esame e viene effettuato un controllo nelle borse. Tutto ciò che non è un “codice” viene sequestrato. Quindi è inutile che ti porti i compendi Simone, tanto non passano. Ti viene assegnato un numero di posto e, da quel momento, per 3 giorni e per 7 ore al giorno, sarai in reclusione tra quelle mura.

Le comunicazioni con l’esterno

Nelle 7 ore di esame non potrai uscire (ma puoi prenderti un caffè alle macchinette o al bar appositamente allestito per l’esame), tenere con te strumenti atti a comunicare né copiare. Tanto in qualche modo ti sgamano, o durante o dopo l’esame. Certo, qualcuno riesce anche a comunicare col cellulare (una tizia, seduta nella mia fila, ci parlava più volte e si connetteva a internet), ma è meglio non rischiare, anche perché tra l’ansia di essere sgamati e la fretta, non credo si possa riuscire a capire qualcosa. Inoltre molti di noi si son sempre chiesti se quegli strani aggeggi usati dai tecnici per captare le onde elettromagnetiche dei cellulari funzionino o meno. Non saprei, forse no. Ma perché rischiare di essere sbattuti fuori dall’esame? Per un esame così facile, poi?

La dettatura delle tracce

L’aspetto peggiore, per uno come me che ha perso l’abitudine di scrivere a mano (ma che per un praticante abituato a scrivere i verbali d’udienza sarà una passeggiata) è la dettatura delle tracce. Si, perché, per qualche strano motivo, le tracce non vengono dettate e poi, che ne so, scritte su una lavagna o stampate e consegnate ai candidati. No, devi occuparti tu di trascriverle mentre le dettano, cercando di trovare il giusto compromesso tra velocità e leggibilità (dato che dovrai rileggerla molte, molte volte).

Quale traccia scegliere?

A dispetto di quanto ti diranno, la scelta della traccia non conta molto. Se ti capita una traccia di un aspetto che già hai affrontato durante la pratica, bene. Ma se capitano tracce di argomenti che non hai mai trattato, scegli quella che ti sembra la più semplice da affrontare. Per esempio, tra una traccia in materia di successioni e una in fatto di anatocismo bancario, meglio la seconda. Le successioni, si sa, nascondono sempre molte insidie.

Come si fa a scegliere la più semplice? Dai una rapida occhiata al Codice e, dopo aver individuato gli articoli di riferimento (cosa molto semplice se usi l’indice analitico), leggiti qualche sentenza. Ti sembrano semplici da comprendere? Si fanno rimandi ad altri istituti o ad altre sentenze? Bene. Meglio perdere una mezz’ora a leggere le sentenze piuttosto che chiedere consiglio agli altri o ascoltare il parere dei commissari, che – di tanto in tanto – verranno a dare qualche suggerimento.

Vuoi copiare?

Ti sconsiglio di copiare, ma se davvero vuoi farlo, portati qualche fogliettino con su scritto, per ogni singolo atto (citazione, comparsa, decreto ingiuntivo, ecc.) l’incipit, le conclusioni, il mandato e la relata di notifica, tranne se non ricordi tutto a memoria (e dopo 3 anni di pratica, ci sta). Il resto dev’essere tutta una tua creazione. Per i pareri, a mio avviso, non importa copiare. Del resto è un parere. Hai già il codice commentato (al momento la riforma è rinviata di un anno, quindi approfittane!), ossia tutto ciò che ti serve per svolgere l’esame.

Quelli che copiano (dal compagno di banco o dal telefono o che si portano intere cartucciere) sono l’esempio di gente che avrebbe dovuto fare altro nella vita e che prima o poi diventeranno (spero di no…) avvocati, ma da quattro soldi. Del resto sai benissimo che sono tanti i candidati bocciati e per giunta indagati per aver copiato all’esame. A che ti serve rischiare? La tua unica forza è la logica e l’originalità. Lascia perdere anche tutte le cazzate che ti diranno per cui gli scritti nemmeno li leggono o che passano l’esame solo i raccomandati e i figli di papà. Puerili falsità.

Ansia? No grazie.

Non c’è niente di peggio che avere un compagno di banco ansioso, che ti chiederà ogni 3 minuti qualcosa. Per svolgere al meglio l’esame occorre silenzio, concentrazione e una buona dose di alienazione da tutto ciò che ti succede intorno. Quindi se ti capita un ansioso o un chiacchierone, con garbo mandalo a quel paese.

I suggerimenti dei commissari

Dopo un po’ di tempo dalla lettura delle tracce, i commissari cercheranno di aiutarvi indicando quelle che, secondo loro, sono le sentenze di riferimento. Sai benissimo che per ogni traccia si fa sempre riferimento a una o più Sentenze della Cassazione (in special modo a SU) degli ultimi due anni che bisogna azzeccare. Su questo i commissari cercheranno di aiutarvi, ma può capitare che ti mandino in confusione perché tu, nel frattempo, hai elaborato un altro tipo di ragionamento. Ecco, prosegui sulla tua strada senza curarti di quello che ti dicono. Non ascoltare proprio. Non occorre.

In verità quello che più importa non è tanto azzeccare la Sentenza giusta, quanto seguire un iter logico-giuridico che ti porti alla definizione del caso, sia esso un parere o un atto (tra poco li vediamo nello specifico). Insomma, anche se nello scritto indichi una o più Sentenze sbagliate, non importa, importa invece quanto tu sia convincente, usando rigore giuridico e chiarezza nell’esposizione. Punto.

La gestione del tempo

All’inizio 7 ore ti sembreranno un’eternità e infatti, quando uscirai da quell’aula, ormai col buio, andrai sballottolando qua e là per la stanchezza mentale. Lo scritto è un’esperienza logorante ed è per questo che occorre organizzare il tempo sia nell’elaborazione sia nella gestione delle energie. Qualcuno ti dirà che è importante passare la prima ora solo a leggere le tracce. Non mi pare il caso. Come detto in precedenza, è importante, dopo aver letto velocemente le tracce e averne tratto le informazioni essenziali, sceglierne una, rileggerla più e più volte, appuntarsi le informazioni essenziali e andare a cercare l’Istituto, gli articoli di riferimento e leggere con calma le Sentenze commentate nonché gli eventuali rimandi. Dopodiché, in brutta copia, è importante appuntarsi gli articoli, le parole chiave ed eventuali citazioni che ti possono sembrare utili. Il resto del tempo lo puoi usare per iniziare a scrivere, curandoti di lasciare almeno 2 ore per ricopiare tutto in bella. Io che scrivo molto lentamente e ho una pessima calligrafia, ho dovuto usare 3 ore per ricopiare. Ma per la maggior parte della gente normale 2 ore sono sufficienti, anche perché durante la ricopiatura ti capiterà sicuramente di cambiare qualche espressione o di ridurre un periodo troppo lungo e articolato. Quindi gestisci le 7 ore a tuo piacimento, ma calcolando circa 4 ore per le ricerche e la stesura, 1 ora di pausa (da spalmare nelle 7 ore) e 2 ore per ricopiare.

Caffè e sigaretta in bagno

Come detto, qualche pausa è necessaria per sgranchirsi le gambe e allentare la tensione. Un buon caffè è sempre un ottimo alleato. A volte può capitare che durante la pausa, con la mente più distesa, si arrivi a quella conclusione geniale che in aula non arrivava.

Per i fumatori: durante le 7 ore dell’esame non si può uscire dalla struttura e, peggio, dall’area delimitata. Quindi l’unico spazio per fumare sarà il bagno (tranne se non è stata prevista un’apposita area fumatori). Il bagno funge da tutto tranne che da luogo per espletare le funzioni primarie: lì ci si incontra per fumare, scambiarsi pareri, copiare, qualcuno pure per sniffare coca (già, purtroppo ho assistito anche a questo…). Se vuoi entrare ancora di più in confusione, meglio evitare il chiacchiericcio da bagno, perché troverai sempre il finto saputello che dispenserà consigli a tutti sulla sentenza giusta o su cosa scrivere. E’ sempre bene usare il bagno per la pipì, una sigaretta o per sciacquarsi la faccia.

Il parere

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E veniamo ora al parere, che impegnerà il primo e secondo giorno.

Come ben sai il parere consiste in un consiglio che un potenziale cliente chiede al proprio avvocato di fiducia in riferimento ad una questione giuridica che lo coinvolge. Quindi si tratta di un caso concreto da risolvere. Tu allora dovrai assumere le vesti dell’avvocato per risolvere la questione giuridica proposta, cercando di sostenere la tua tesi corroborata dalla Giurisprudenza di legittimità e di merito. In buona sostanza dovrai:

  • introdurre il parere con una breve esposizione dell’istituto giuridico in esame;
  • fare tutti i riferimenti normativi e dottrinali dello stesso;
  • indicare la giurisprudenza risolutiva del caso di specie;
  • dare la soluzione al cliente.

Non per forza la soluzione dev’essere favorevole per il cliente. Non stai scrivendo un atto, per cui difendi il tuo cliente, ma stai solo dando il tuo parere sulla questione posta, quindi, in base alla traccia e alla giurisprudenza trovata, calcola che dovrai fargli capire cosa dice la giurisprudenza maggioritaria e quella minoritaria, e se vuoi dargli una soluzione favorevole, ma sostenuta da una giurisprudenza minoritaria o carente, dovrai sottolinearlo.

Il parere è lo scritto più importante, per cui bisogna seguire questi semplici consigli: dev’essere breve (al massimo 2 o 3 facciate di foglio), rigoroso ma di semplice comprensione, inoltre l’introduzione con l’inquadramento dell’istituto dev’essere giusto di 3 o 4 righe. Niente di più. Quello che conta nel parere è la capacità di applicare l’istituto astratto al caso concreto. Quindi è molto importante evitare lunghe copiature delle sentenze o della dottrina, ma citare solo le parti che fanno al caso nostro, in modo che il cliente capisca ciò di cui stiamo parlando. Insomma, devi fondere nel tuo discorso le parti giurisprudenziali e dottrinali che ti interessano, in modo da rafforzare la tua tesi. Cita le sentenze favorevoli e quelle contrarie e metti in risalto i possibili vantaggi e svantaggi per il cliente nella soluzione della questione. La classica struttura hegeliana di tesi antitesi e sintesi funziona sempre: indica la tua opinione, corroborata dalla giurisprudenza (anche minoritaria, non importa), indica la giurisprudenza o la dottrina che dice il contrario e poi sintetizza evidenziando i pro e i contro. Se c’è una recente Sentenza della Cassazione a SU che conferma la tua opinione, è fatta. Non occorre citare altro.

Il linguaggio usato dev’essere rigoroso, ma a tratti colloquiale, perché non stai parlando a un giudice, ma all’uomo della strada, che deve capire ciò che dici.

L’atto giudiziario

In questo caso stiamo parlando a un Giudice e la forma è determinante per la buona riuscita dell’atto. Se hai fatto una buona pratica, scrivere un atto sarà molto più facile che scrivere un parere. Anche in questo caso vale la stessa regola: brevità. L’atto dev’essere lungo al massimo 3 facciate. Non c’è niente di peggio che costringere il futuro esaminatore a leggere lunghi panegirici e noiose copiature di Sentenze. Come per il parere, le Sentenze da citare dovranno essere quanto più brevi possibile e stilisticamente fuse nelle nostre argomentazioni.

Quali sono gli atti che usciranno? Ti potrà capitare di tutto, ma di solito propongono sempre la comparsa di costituzione e risposta con domanda riconvenzionale (civile) e l’atto di appello (penale).

In sintesi

Non smetterò di ripeterlo. Uno dei segreti della buona riuscita dello scritto è: semplicità e brevità. Vai subito al sodo, evita complessi giri di parole, lunghi periodi e lunghe citazioni di Sentenze e fondi le massime delle Sentenze nel tuo discorso. Evita soprattutto gli errori grammaticali. Inutile dire che sono la prima causa di bocciatura. Anche una buona calligrafia è essenziale. Scarteranno subito il tuo scritto…se non capiranno cosa c’è scritto! Ti sembrerà paradossale, ma dai più importanza alla copiatura in bella che a tutto il resto. Il diritto è fatto di interpretazioni, quindi ogni tesi (se sostenuta da dottrina e giurisprudenza, anche minoritaria) ha diritto di cittadinanza. L’importante è far capire cosa si sta dicendo, in termini di sintassi, grammatica e logica. L’esame da avvocato non è difficile, anzi. Il numero elevato di bocciature dipende da tanti che non sanno nemmeno scrivere in italiano e che non sanno far capire agli altri cosa stanno dicendo.

Hai sbagliato la Sentenza?

Andando a rileggere, dopo ogni scritto, le soluzioni trovate in rete, potrai deprimerti, perché magari hai scoperto di aver citato Sentenze sbagliate. Come detto più volte in precedenza, fregatene. Tu devi seguire un tuo iter logico-giuridico e citare le Sentenze che sostengono la tua tesi. Se sono maggioritarie, ben venga, altrimenti non importa. Tu devi dimostrare di saper fare l’avvocato, non il giudice, quindi devi usare lo strumento della giurisprudenza a tuo vantaggio e dimostrare di saper essere convincente seguendo un processo logico tuo personale. Del resto saprai meglio di me che i grandi avvocati sono quelli che cambiano il diritto e che convincono i giudici a seguire una certa tesi, anche priva di giurisprudenza. Non devi certo arrivare a tanto, ma devi essere consapevole che l’esame non è un quiz a premi che consiste nell’indovinare la Sentenza giusta, ma è la dimostrazione che tu sai scrivere un testo giuridico, usando argomentazioni valide, citando la giurisprudenza (e la dottrina) a tuo vantaggio e risolvendo un caso pratico o convincendo un giudice a seguire la tua tesi.

L’Esame orale

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Intorno a metà giugno conoscerai l’esito dello scritto. Il minimo per passarlo è 90, quindi con un minimo di 30 punti per prova, superi lo scritto.

Se avrai seguito questi consigli l’avrai passato, anche con un punteggio minimo. Chissenefrega. Io ho preso 35 per ogni scritto, senza aver aperto un libro di diritto per 3 anni.

Quali materie si portano all’esame orale?

Dovrai scegliere 5 materie, che avrai precedentemente indicato in fase di iscrizione, tra costituzionalecivilecommercialelavoropenaletributario, procedura civile o penale, internazionale privato, ecclesiastico, comunitario, amministrativo. Ricorda che una delle cinque materie scelte deve per forza essere una procedura a scelta tra civile e penale. Infine l’ultima domanda dell’orale è relativa alla conoscenza dell’ordinamento forense e dei diritti e doveri dell’avvocato.

Scegli il pre-appello

Tutti quelli che hanno passato lo scritto sceglieranno di sostenere l’orale all’appello ordinario, che di solito parte a settembre. Ma dato che tu che mi stai leggendo non sei tutti quanti, sceglierai di sostenere l’esame al pre-appello, che di solito si svolge a luglio. Ma come! – mi dirai – dovrò fare l’esame nemmeno un mese dopo aver conosciuto l’esito dello scritto? Si, certo. Per due ragioni: la prima è che sarete in pochissimi, quindi eventuali figure di merda si attenueranno; la seconda è che gli esaminatori sono molto più distesi, tranquilli e benevolenti nei confronti degli arditi candidati che hanno scelto il pre-appello.

Chiaramente non potrai studiare tutte le materie che hai scelto di portare all’orale in pochissimo tempo. E infatti, se puoi, inizia a studiare subito dopo lo scritto. Avrai 7 mesi per prepararti. Non sono pochi. Mettiti in testa che se non copi e segui i consigli appena dati, lo scritto lo passi. Non dar retta alle leggende metropolitane. Se sei originale e chiaro nell’esposizione, breve, segui un iter logico e conosci la lingua italiana, lo passi.

All’orale ti faranno partire con un breve commento allo scritto. Quindi è bene ripassarlo (tanto la brutta copia resta a te). Poi ti chiederanno un argomento a piacere oppure inizieranno – a turno – a farti domande sulle materie che hai scelto di portare.

Il tutto si svolge in un clima tutto sommato colloquiale, perché – lo ripeto – siete in pochi e gli animi sono più distesi. Alla fine di ogni esame tutti gli astanti escono dall’aula e i commissari stabiliscono il voto, che va a sommarsi a quello dello scritto. Il minimo per passare l’esame è di 180 punti.

Insomma, vai con tranquillità a fare scritto e orale e ricorda che viene premiato chi dimostra una cosa semplicissima: saper scrivere e usare la logica. Nient’altro. In bocca al lupo!

5 buoni motivi per evitare i centri commerciali

centri commerciali

Alzi la mano chi non hai mai fatto la spesa nei centri commerciali. Ok, ci siamo tutti. In effetti per molti di noi andare a fare la spesa in un centro commerciale spesso diventa il pretesto per farsi una passeggiata, soprattutto domenicale, cazzeggiare, incontrare gente, prendersi un caffè o un gelato e, tra un negozio e l’altro, spendere parte dello stipendio in cose più o meno utili.

Il vantaggio dei centri commerciali è che ci trovi tutto, e anche qualcosa in più. Quelli grandi e moderni, poi, hanno al loro interno negozi monomarca o negozi specializzati (in articoli sportivi, scarpe, abbigliamento, ecc.) che si trovano solo lì, e per questo spesso la visita al centro commerciale diventa una tappa obbligata. Alla fine ti ci abitui così tanto che ogni volta che ti serve qualcosa, non pensi di andare in qualche negozio in centro, magari vicino casa, ti fiondi direttamente al centro commerciale. Non è così?

Personalmente da giovane ci andavo pazzo. Un po’ perché il centro commerciale più vicino a casa mia (che distava circa 30 km) praticava prezzi particolarmente vantaggiosi rispetto al supermarket sotto casa e un po’ perché rappresentava una novità e una comodità assoluta: trovavi tutto, a prezzi vantaggiosi ed era comodo girare col carrello tra vari negozi, per non parlare del wi-fi gratuito, un’altra delle principali attrattive che mi spingeva ad andare lì ogni volta che potevo, in un periodo in cui internet in casa era un lusso per pochi.

Ma poi col tempo qualcosa è cambiato. Se da un lato sono diventato sempre più insofferente ai posti affollati, dall’altro ho consapevolizzato il fatto che ormai i centri commerciali non sono più quelli di una volta, non sono più convenienti, sono diventati fonte di stress (che aumenta con l’aumentare della gente), sono pericolosi per l’ambiente e, soprattutto, sono la prima causa della morìa del piccolo commercio, cioè l’anima dell’economia reale italiana.

Insomma, i motivi per evitare i centri commerciali ci sono. Ne elenco solo 5, quelli che per me sono i principali.

1. I centri commerciali creano ansia e fastidio soprattutto nei giorni prefestivi

folla ai centri commerciali

C’è una regola che pervade la mia vita in fatto di relazioni con il centro commerciale. Se da un lato so che andando lì troverò tutto quello che mi serve (o almeno l’illusione di trovarlo), dall’altro lato so che quando uscirò avrò sicuramente dimenticato qualcosa.

Senza una rigorosa lista della spesa, il rischio che corro ogni volta tra quegli immensi scaffali è di non sapere più di cosa ho bisogno e di prendere cose a casaccio.

In effetti, passeggiando per quei grandi spazi mi avranno nel frattempo rincoglionito tra migliaia di prodotti, offerte speciali, fastidiose luci fredde, il nervoso crescente nel non trovare subito quello che sto cercando e lo stress da folla di gente, che si attenua solo se ci vado nei giorni feriali o negli orari di minore affluenza. Cioè, se ho un lavoro con orari standard, praticamente mai.

L’ingresso

Lì iniziano le bestemmie sin dalla ricerca del parcheggio. Sì, perché appena varchi con la tua auto la soglia del centro commerciale, nei giorni prefestivi o in una qualsiasi domenica, ti accorgi di aver fatto un’enorme stronzata: dal cavalcavia già vedi i parcheggi pieni e preghi iddio affinché ti faccia trovare uno stallo libero vicino all’ingresso. Ovviamente non lo troverai e ti toccherà lasciare l’auto chissà dove, sperando di ricordarti l’impossibile combinazione di lettere e numeri che rappresentano le uniche coordinate per ritrovare la tua auto in quella sterminata radura di asfalto tutta uguale. Dopo 3 minuti di camminata verso l’ingresso ti starai già chiedendo: “ma il parcheggio era il B2 o il P9?”.

Il carrello

I guai non sono certo finiti. Perché è domenica e siamo in orario di punta, in un giorno in cui tutta la città pare essersi riversata nel centro commerciale e chiaramente non ci sono carrelli. L’unico che trovi è quello che tutti hanno snobbato, perché ha le ruote bloccate e fa un rumore così stridulo che ad ogni passo tutti si gireranno a guardarti, mentre inizi a sudare e già non vedi l’ora di andartene via.

Tra un “permesso” e un “mi scusi”, avrai già dato una pedata a un vecchietto e una gomitata ad una tizia che ti guarda con fare infastidito. E siamo solo all’inizio. Se non hai una lista, hai già dimenticato cosa prendere. Allora cerchi di fare in fretta, arraffando quello che ti capita a tiro. Ovviamente non guardi le scadenze dei prodotti, ma ti fai abbindolare dalle offerte. Rinunci anche a fare la fila in salumeria. Il numerino che hai preso ti anticipa che a te toccherà quando sarà ormai orario di chiusura. Meglio prendere gli affettati o i formaggi già imbustati, anche se sai che fanno schifo.

Il guanto per la frutta

guanti_frutta

Il peggio, però, non è passato, perché devi prendere la frutta. Lì inizia il bello, già quando proverai a indossare quell’immondo guanto in plastica sulla mano sudaticcia. Romperlo è un attimo e indossarlo una tortura.

L’Italia, chissà perché, è l’unico Paese in Europa che obbliga i supermercati ad avere i guanti in plastica per prendere la frutta, dandoti l’illusione dell’igiene. Quando, per anni (e ancora oggi) palpi la frutta dal fruttivendolo, senza l’obbligo del guanto, sai che mai nessuno ci è morto o ha preso strane malattie, ma se lo fai al supermercato rischi che qualche dipendente ti riprenda, magari sgridandoti ad alta voce, come si fa ad un bambino scoperto con le mani nella marmellata.

La fila in cassa

La fine della spesa segna l’inizio di una nuova fonte di stress: la fila alle casse. Proprio come la fila in autostrada, capiterà sempre di metterti in coda nella cassa che ti sembra meno affollata, ma in realtà, per qualche strano motivo, diventa più lenta di quella accanto, dove c’era più gente. Il cliente che ti precede avrà sicuramente un buono pasto da calcolare, un prodotto che non passa e che bisogna cambiare, oppure difficoltà a contare le monetine. Qualunque sia il motivo, chi dopo di te è andato alla cassa accanto starà già imbustando la roba, mentre tu, ticchettando nervosamente con le dita sul carrello, bestemmi cliente e cassiere che staranno discutendo allegramente infischiandosene di te e della tua fretta.

Certo, qualcuno mi dirà che ci sono le casse automatiche. Sì, solo che lì non ti rendi conto della fila, vedi solo un ammasso di gente, poi per forza di cose ti devi rivolgere al personale, o per una placca antitaccheggio da rimuovere, o perché hai i buoni pasto da usare o perché c’è uno sconto che lo scanner non ha preso e soprattutto perché non è da tutti seguire quella semplice – eppur complessa – procedura che ti porta sempre e comunque a sbagliare qualcosa. Meglio la buona e vecchia cassiera.

L’uscita

Uscito dal supermarket, sempre se ti ricordi da quale ingresso sei entrato (Nord o Sud? Est o Ovest? Boh, mi ricordo che entrando ho trovato la Bata…o forse era la Globo?), non avrai più la forza e il tempo di andartene a spasso per altri negozi. E’ ormai orario di chiusura e tu ricordi vagamente di esserci entrato dopo pranzo, quando ancora fuori splendeva il sole. Dopo aver ritrovato (a fatica) la macchina, ti calerai la mano in tasca e trovando lo scontrino ti chiederai: “come ho fatto a spendere 100 euro per due buste?”. Già.

2. Spesso hanno prezzi più alti rispetto al piccolo supermercato sotto casa

Chi è abituato a fare la spesa seguendo la rigida logica delle offerte da volantino, quindi in grado di frequentare anche due o tre supermercati in un giorno, e mette un po’ di attenzione sui prezzi pieni e non solo sulle offerte, si renderà conto che tra un supermercato e l’altro lo scarto di prezzo è davvero minimo. Se la giocano sui centesimi. Chiaro che questa comparazione non vale tra supermercati e discount. Per i discount, che trattano prodotti sottomarca (ma spesso di qualità uguale alle marche più note) la logica è diversa. Il paragone va fatto tra GDO (grande distribuzione organizzata) dello stesso livello (es. tra Coop e Conad). Quindi se andiamo a paragonare le GDO, scopriremo che molto spesso i prezzi sono uguali, anzi, il piccolo supermercato sotto casa (che spesso appartiene a una GDO) arriva anche a praticare prezzi di poco inferiori rispetto al supermarket del centro commerciale.

Fai una prova

Fai una lista di una decina di prodotti da comparare, stessa marca, stesso peso e di diverso genere (es. pasta, snack, detersivo, vino, olio, ecc.) e vai in un centro commerciale, segna i prezzi e poi vai al supermercato sotto casa. Scoprirai che i prezzi si differenziano di pochi centesimi. Per i prodotti insaccati o venduti a peso è sufficiente calcolare il prezzo al kilo, spesso riportato in piccolo sull’etichetta del prezzo esposto sullo scaffale. Alla fine ti renderai conto che facendo la spesa al supermercato sotto casa avrai fatto un affare: i prezzi sono pressappoco uguali, eviti lo stress da parcheggi, da folla, da fila in cassa e puoi pure scegliere il carrello!

3. I centri commerciali sfruttano i dipendenti

Nota dolente, che è venuta a galla negli ultimi anni quando qualcuno si è reso conto che è inumano far lavorare la gente anche la domenica e i giorni festivi (capodanno, Pasqua, ecc.). I casi di sfruttamento dei lavoratori nei centri commerciali sono all’ordine del giorno. Basta leggere questo interessante reportage dell’Espresso per capirlo. Turni massacranti, aperture straordinarie e diminuzione del personale connesso all’aumento del carico di lavoro rendono la vita in queste moderne cattedrali un vero inferno.

Nel centro commerciale in cui sono andato per anni, per esempio, il personale è passato, in 15 anni, da 120 dipendenti a circa 40, anche a causa dell’introduzione delle casse automatiche. Oggi, su circa 20 casse, solo due sono aperte, tre o al massimo quattro nei giorni prefestivi.

La gestione prettamente familiare dei piccoli supermercati, invece, è certamente più distensiva e rispettosa dei diritti dei dipendenti. Quanti sono i piccoli supermercati aperti anche la domenica? Se lo fanno, probabilmente, è per volontà, non certo per costrizione calata da un lontano e sconosciuto CdA, con cui i dipendenti non possono assolutamente rapportarsi.

4. I centri commerciali sottraggono suolo

Un centro commerciale di medio-piccole dimensioni è grande circa 15.000 mq, ossia un ettaro e mezzo di terra. A Segrate, vicino Milano, sorgerà presto ciò che viene definito il centro commerciale più grande d’Europa, con 185.000 mq, ossia quasi 20 ettari di terra. Moltiplica 15000 mq per 1000 (il numero dei centri commerciali attivi in Italia) e capiremo l’enorme quantità di terra sottratta per creare cattedrali dello shopping di cui, onestamente, possiamo farne a meno. Perché la quantità di terreno sottratto, ossia 1500 ettari (stima al ribasso) sarebbe sufficiente, se coltivata, a sfamare per un anno una Regione grande quanto il Lazio.

Curioso che in Lombardia si saluti con entusiasmo il nuovo centro commerciale (che sorgerà, spero di no, nel 2019), elogiandone la grandezza e il lusso, mentre al contempo il lungimirante Trentino delibera lo stop definitivo a centri commerciali di grandezza superiore a 10.000 mq, per tutelare e favorire il piccolo commercio e la vocazione montana. Il Trentino non è grande quanto la Lombardia, certo, ma dimostra – nel suo piccolo – che la terra è più importante del cemento e che i borghi vanno valorizzati, anche grazie alla vivacità del commercio cittadino.

5. Muore il centro cittadino

Il vero cuore di ogni città italiana sono le attività commerciali del centro che però stanno progressivamente morendo per molte ragioni. Un interessante studio di Confcommercio mostra come dal 2008 al 2015 in Italia, soprattutto al Sud, siano sensibilmente diminuite le piccole attività commerciali del centro contestualmente alla crescita delle attività di ristorazione e del commercio ambulante. Ciò vuol dire due cose: chi prima aveva un negozio molto probabilmente ha optato per l’attività di ambulante, con meno costi (ma più fatica…) e, a causa dell’aumento dei flussi turistici in alcune zone e del conseguente aumento del costo degli affitti, gli unici a potersi permettere un locale in centro sono i gestori di bar, ristoranti e fast food. E’ il caso di Lecce, citato da Confcommercio come città col peggior rapporto popolazione/numero di negozi, ma preda dell’assalto nel centro storico di locali di street food, che esasperano i piccoli commercianti. Ma basta guardare anche il caso di Matera che, come Capitale della Cultura 2019, paradossalmente sta cacciando via attività storiche e librerie per far posto a chi può permettersi affitti da capogiro.

La causa della morìa del piccolo commercio, però, è legata principalmente all’aumento vertiginoso negli ultimi anni dei centri commerciali, che hanno inglobato al proprio interno negozi di ogni genere, costringendo talvolta i negozi in franchising, spesso presenti in centro, a trasferirsi all’interno dei centri commerciali.

Il caso di Trieste

Tuttavia i gestori dei negozi del centro cittadino, spesso aiutati da una lungimirante politica locale, hanno saputo dare una risposta alla morìa del commercio in centro, grazie a innovativi servizi al cliente, tradotti nel concetto di centro commerciale diffuso. Il caso di Trieste è interessante e unico nel suo genere, ma molte città d’Italia – forti della cooperazione tra commercianti e con l’aiuto degli amministratori locali – hanno seguito l’esempio, fornendo servizi tipici di un centro commerciale…ma nel centro città.

Del resto ciò che un centro commerciale, seppur moderno, non è in grado di offrire è proprio il rapporto diretto, e spesso amicale, tra gestore del negozio e cliente: il rispetto delle esigenze del cliente, il servizio pre e post vendita, i consigli e i favori tipici del vecchio rapporto umano basato sulla fiducia, sono elementi che nessun centro commerciale può mai mutuare e che rappresentano la vera forza del negozio sotto casa.

Tra l’altro va sfatato il mito per cui i prezzi dei negozi del centro sono più alti rispetto ai centri commerciali. Al netto di promozioni, sconti speciali e fumo negli occhi, se si guarda bene a fondo, i prezzi non sono poi così diversi, ma l’assistenza, quella sì, non ha prezzo e spesso viene servita gratis dal negoziante sotto casa, insieme agli sconti, che i clienti – in una strana logica di forti con i deboli e deboli con i forti – pretendono dal negozietto del centro ma si spaventano a chiedere nel centro commerciale, anche quando si tratta di un paio di centesimi.

Puglia-Briatore 1 a 0. Palla al centro.

briatore

Il rapporto tra Flavio Briatore e la Puglia non è stato proprio idilliaco. Iniziato male, è finito pure peggio, con l’imprenditore che, a più riprese e ogni volta che può, parla male della Puglia o dei Pugliesi con toni che sembrerebbero più quelli di un bambino capriccioso e arrabbiato, a cui sono state sottratte le caramelle, piuttosto che quelli di un imprenditore che, dati alla mano, analizza lucidamente la realtà. Ma lo ha già fatto con la Versilia, anni fa. Sarà che rosica?

L’ultima sua uscita, in ordine di tempo, è di oggi. Briatore, in un’intervista, dice che i pugliesi sono provincialotti incapaci di ospitare i ricchi perché non sanno garantire la loro privacy (concetto su cui, vedremo tra poco, è particolarmente fissato). Il riferimento è al matrimonio milionario tra Renee Sutton ed Eliot Cohen, avvenuto quest’estate a Monopoli (BA) in cui, pare, la Norma Cohen productions, organizzatrice dell’evento, abbia avuto qualche difficoltà nel garantire la privacy degli ospiti.

Ma gli esempi fatti da Briatore sono altri. Parla addirittura di Madonna, dicendo che “Se Madonna va a Portofino con Leonardo Di Caprio non ne parla nessuno, se va in Puglia finisce sulla prima pagina dei giornali. Come se in vita sua avesse fatto solo una vacanza, in Puglia”. Peccato che il Flavio nazionale abbia omesso di dire (o forse non sapeva) che a Madonna la privacy è stata garantita, ma se lei stessa pubblica su Instagram le foto di ogni luogo che visita o se, sua sponte, ha preferito andarsene a piedi in giro per Lecce in un periodo in cui la città pullula di turisti e visitatori, è ovvio che qualcuno ne parla (non solo i pugliesi, pure la stampa nazionale). Forse a Briatore manca qualche nozione in fatto di gossip, soprattutto ai tempi dei Social. Strano per uno che di paparazzi e tabloid da casalinga di Voghera ne mastica assai.

La realtà è che le sue sono solo sterili polemiche atte ad alimentare l’immagine stantia di un tizio le cui capacità imprenditoriali sono inversamente proporzionali alla capacità di restare nel mercato dei media al netto di toni infuocati e offese gratuite.

Ma perché tutto questo accanimento contro la Puglia?

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Punta Palascia, Otranto

Perché qualche tempo fa ha voluto investire in Puglia, in particolare nella splendida località di Otranto (LE), dove ha avuto l’idea di aprire uno stabilimento balneare sciccoso sotto il marchio Twiga. Per fare ciò, ha concesso l’utilizzo del marchio ad imprenditori locali. La Procura di Lecce ha messo sotto sequestro il cantiere dello stabilimento per presunti abusi edilizi. L’accusa, in particolare, è di aver realizzato strutture difformi da quanto previsto dall’articolo 69 delle norme di attuazione del Piano regolatore su un’area a destinazione agricola. Dopo che il Tribunale per il riesame ha validato il sequestro, il bravo imprenditore ha ritirato il marchio e se n’è scappato dalla Puglia.

Da lì l’inevitabile divorzio con la Puglia e gli inizi del dietrofront: la Puglia è passata – nelle sue dichiarazioni alla stampa – da luogo in cui investire a posto fatto di provinciali, ignoranti, bifolchi e incapaci di fare politiche turistiche di qualità.

Tant’è che poco dopo, nella trasmissione Porta a Porta, Flaviuccio disse “Volete che a Gallipoli la gente dorma sulle spiagge e si impasticchi? Va bene. Quel turismo di treccioline già c’è. Volete il turismo di cultura? C’è già. Per superare l’asticella ci vorrebbero masserie da riqualificare e un brand internazionale (…) C’è molto poco rispetto per chi investe. Capisco i controlli, ma ha vinto la burocrazia».

Ora, premesso che la Puglia ha ancora molto da imparare sulla gestione del turismo, mentre sul marketing turistico ha invece molto da insegnare, quello che va evidenziato è però un altro aspetto che traspare dalle innumerevoli dichiarazioni di Briatore rilasciate alla stampa in questi mesi: l’ipocrisia. Già, perché se a Briatore fosse filato tutto liscio, se il Twiga di Otranto avesse aperto i battenti, se la Procura (cattivona e burocrate, sic!) non avesse messo il naso nel cantiere, allora si, Otranto sarebbe stata meta del turismo di qualità e la Puglia – di riflesso – avrebbe surclassato la vetusta Versilia.

2014: Versilia out. Meglio la Puglia

Basta scavare un po’ nella “storia” e scoprire che a Briatore la Puglia piaceva assai e che difficilmente i Pugliesi sono diventati provincialotti nel giro di 3 anni.

Già, perché pure nei riguardi della Toscana, nel 2014, il prode imprenditore ha avuto da ridire, parlando di una Regione rimasta ferma a 30 anni fa e preda di eccessiva burocrazia e proibizionismo (vedi qui e qui). Ed è stato proprio per questo motivo che ha voluto investire in Puglia, tessendone le lodi e credendo di trovare tappeti rossi al suo passaggio, anarchia burocratica e permissivismo ad oltranza.

E’ allora forse per l’immagine così anarcoide della Puglia che il nostro Briatore ha voluto investirci? Del resto non è difficile immaginare l’assenza di controllo sull’operato della Società che si occupava del cantiere di Otranto per la costruzione del Twiga. Perché se i controlli ci fossero stati, forse lo stabilimento non sarebbe sorto o sarebbe sorto in un’area diversa, oppure con un progetto a norma. Chissà. Forse Briatore pensava che sarebbe stato sufficiente concedere il marchio e lavarsi le mani senza controllare l’andamento dei lavori e il rispetto delle norme edilizie? Chissà, però fanno pensare le sue obiezioni verso una Toscana troppo proibizionista e il contestuale desiderio di investire in una Puglia più vivace (e, magari, dalle maglie burocratiche più larghe). Non sapremo mai se lui abbia controllato l’andamento dei lavori o se la Procura di Lecce abbia preso un granchio, però possiamo fare un semplice 2+2 e capire che forse il suo desiderio di investire in Puglia sia derivato dalla voglia di avere poche grane burocratiche.

Infine pare proprio che abbia in fissa il concetto di privacy, tanto da usarlo così, a pioggia, anche contro i suoi “vicini di bagno” in Versilia. La polemica tra lui e il titolare del Bagno Piero è rimasta negli annali della storia trash d’Italia. Oggi, quindi, ripete la stessa tiritera anche in Puglia. Ma non attacca.

Insomma, per farla breve, i suoi sono solo sfoghi. Altro che analisi imprenditoriali e sociali. Dunque Puglia-Briatore 1 a 0, per autogol. Palla al centro. E ci auguriamo che non si metta a fare i capricci e se la prenda con l’arbitro.

Mimmo Lucano e il Modello Riace che spaventa

domenico lucano Riace

Chi è Domenico Lucano e perché è finito sotto inchiesta? Storia di migranti, integrazione e soldi pubblici spesi bene. Un modello da annientare a colpi di ispezioni, fondi tolti e indagini da parte della Magistratura.

Correva l’anno 1998. Fino a quel momento il paesello di Riace, nel cuore della Calabria, subiva la stessa sorte di tanti altri paesi del Sud Italia: l’emigrazione. I giovani preferivano o erano costretti ad abbandonare il paese diretti verso Nord, o verso l’Estero, per studiare, lavorare, cercare migliori condizioni di vita. Riace era quindi popolato per lo più da anziani e, di conseguenza, l’economia stagnava, le attività commerciali erano ridotte all’osso, le case erano vuote (e con l’immancabile e ignorato cartello “AFFITTASI”) e il lavoro – com’è facile immaginare – era un’utopia più che una speranza. Proprio quell’anno sbarcarono sulle coste calabresi alcuni profughi curdi e furono ospitati a Riace. Tutta la comunità si prodigò per accoglierli e dargli i conforti di prima necessità e fu proprio allora che Domenico Lucano, insieme ad un gruppetto di amici, ebbe l’idea di sfruttare quel capitale umano e dare un vantaggio ad entrambe le parti: ai profughi dare un tetto, un’occupazione, una vita dignitosa, al paese dare un riscatto, ripopolarlo, dargli una possibilità di crescita. Da quell’idea nacque l’Associazione Città Futura – Pino Puglisi, con lo scopo di trasformare Riace nella città dell’accoglienza, di mettere in pratica – in modo semplice – quei valori dell’ospitalità tipici delle genti del Sud.

Il sistema accoglienza di Riace

Il progetto ha visto la luce nel 2001 e, in 16 anni di attività, Domenico Lucano, nel frattempo diventato Sindaco con una lista civica, ha messo a punto un vero e proprio sistema basato su tre principi: accoglienza, integrazione, lavoro. Dal 1998 ad oggi, da un paese di circa 900 abitanti, Riace è diventato un vivace laboratorio sociale di 2345 anime (fonte ISTAT, censimento al 1.1.17) di cui la metà sono stranieri. Mai nessuno in paese ha avuto problemi con loro, anzi. Gli anziani si fanno aiutare nella raccolta delle olive o nella vendemmia, altri hanno aperto o hanno ravvivato – con l’aiuto dei migranti – laboratori artigianali di ceramica, vetro, tessitura o piccole ditte edili. Altri migranti lavorano come interpreti, mediatori culturali, giardinieri, allevatori e alcuni lavorano per conto del Comune tenendo pulite le strade, curando il verde pubblico, pulendo le spiagge di Riace marina e garantendo alla cittadinanza quei servizi minimi essenziali di tipo scolastico, assistenziale e sociale.

Ovvio che qualcuno, in questi anni, ha voluto andare nel Nord Europa, dove le condizioni per i richiedenti asilo sono più agevoli, ma molti sono rimasti, pur nelle mille difficoltà di vivere nel Sud del Sud dei poveri, disagiato e lontano dalla frenesia urbana, per contribuire alla vita sociale ed economica del paese. E la crescita del borgo, la vita nelle case e per le strade, l’offerta di servizi pubblici per la comunità sono il segno evidente di un modello che ha funzionato, e funziona.

Ma l’aspetto vincente del “modello Riace” è legato a due concetti: i bonus e le borse lavoro. Sappiamo tutti come molte cooperative hanno utilizzato i famosi 35,00 € al giorno destinati alla gestione dei migranti. Sappiamo, più o meno in modo preciso, come molti soggetti abbiano utilizzato i contributi statali per creare un vero e proprio sistema di malaffare volto a manipolare, gestire, spostare e sfruttare vite umane per arricchirsi ai danni non solo di persone, ma dello Stato, della collettività (vedi, per esempio, il caso Mafia Capitale). Lucano no. Ha ottenuto gli stessi contributi destinati a centinaia di altre Cooperative sparse per l’Italia, solo che lui ha investito quei soldi per garantire occupazione e integrazione. Ma non solo, anche per dare dignità alle famiglie e vita al paese. L’immagine dei migranti stipati nei capannoni, con brandine fatiscenti, scarsa igiene e a bighellonare tutto il giorno sono l’emblema dello sfruttamento da parte di Cooperative senza scrupoli, votate a massimizzare i profitti a discapito dell’umanità. Riace invece ha insegnato che con gli stessi soldi si possono ospitare persone in vere e proprie case e dar loro un lavoro, una dignità, un futuro e, al contempo, migliorare le condizioni di vita dei residenti. 

Bonus

I bonus sono una sorta di moneta locale per consentire ai migranti di acquistare merci e servizi tra gli esercenti del paese che hanno aderito a questo sistema basato sulla fiducia, in quanto i contributi economici statali (i famosi 35,00 € al giorno) spesso arrivano tardivamente, e quindi con questo sistema – una sorta di microcredito – i migranti possono acquistare merce e gli esercenti possono aumentare le vendite e hanno la garanzia del pagamento, seppur tardivo.

Borse lavoro

Le borse di lavoro hanno permesso alle famiglie di richiedenti asilo che intendevano fermarsi a Riace di ottenere un lavoro presso le botteghe artigianali del paese e di contribuire allo sviluppo socio-economico della zona. Inoltre hanno permesso ai residenti e ai migranti di conoscersi, integrarsi, cooperare e aumentare la produzione. Spesso i piccoli artigiani hanno difficoltà a trovare aiuto (soprattutto a causa dell’eccessiva pressione fiscale sul lavoro), in questo modo hanno avuto la possibilità di essere aiutati da collaboratori a costi ridottissimi, di insegnare il mestiere ai richiedenti asilo e di rafforzare la coesione sociale grazie ai quotidiani rapporti tra le persone.

Il Modello Riace che al Mondo piace

Il Modello Riace è balzato, così, sotto gli occhi dell’attenzione mondiale, tanto che nel 2008 il regista tedesco Win Wenders ha girato a Riace il corto “Il Volo”, poi nel 2010 Lucano è stato inserito dal World Mayor Prize fra i 23 finalisti del premio come miglior sindaco del mondo, per “la capacità di tenere insieme l’antico e il moderno”. Inoltre nel 2015 è stato premiato a Berna dalla Fondazione per la Libertà e i diritti umani. Infine nel 2016 è stato inserito al quarantesimo posto tra le persone più influenti del mondo dalla rivista Fortune. Ah, dimenticavo. Quest’anno Beppe Fiorello ha impersonato Lucano in una fiction Rai che andrà in onda a gennaio 2018.

Insomma, l’umile Sindaco della piccola Riace si è fatto conoscere. Ma la fama, si sa, porta glorie e sventure.

La differenza tra umanità e burocrazia

Partiamo da un semplice presupposto. Se lo Stato va a controllare qualsiasi Ente Pubblico, Associazione, Azienda, persino un privato cittadino, troverà una qualunque irregolarità, di qualsiasi natura. La differenza tra ciò che vogliamo e ciò che possiamo fare si chiama burocrazia. Insomma, se dovessero controllarci a fondo, troverebbero sicuramente qualcosa da ridire: una legge infranta, un regolamento non applicato alla lettera, un’irregolarità burocratica. Per forza. Non ci sono santi. Perché l’Italia, si sa, soffre dell’eccessiva burocratizzazione, perché la produzione legislativa è immane, disomogenea e contraddittoria, perché la pressione normativa è solo pari (se non superiore) a quella fiscale e perché gli adempimenti richiesti a tutti noi, o privati o aziende o enti pubblici, sono ogni giorno più pressanti.

Forse Mimmo Lucano non ha seguito la burocrazia? Forse non ha giustificato ogni singolo centesimo dei soldi che entravano e che spendeva? Forse è stato talmente onesto da aver messo paura a chi, invece, è imperniato di malaffare? Chissà, fatto sta che la consecutio temporum dei fatti avvenuti ultimamente lasciano presagire una volontà politica di affossare il modello Riace più che una certosina applicazione di leggi e regolamenti.

Le ispezioni ministeriali e l’inchiesta della Procura

Già, perché dapprima, a fine 2016, la Prefettura di Reggio Calabria dispose un’ispezione presso il Comune di Riace. Ispezione talmente frettolosa che non diede la possibilità al piccolo Comune di difendersi. Poi ne sono arrivate altre due, più accurate. Tant’è che il Sindaco ha collaborato con la Prefettura, indicando i propri conti correnti e le proprietà, non avendo nulla da nascondere.

Poi, e siamo ad agosto 2017, la batosta da parte del Ministero degli interni. Gli tagliano i fondi, con la fumosa scusa che i bonus non possono essere utilizzati. Ed è di nuovo battaglia. Dopo più di un incontro a Roma, Lucano l’ha avuta vinta, i fondi vengono sbloccati.

E siamo ad oggi. Nemmeno il tempo di assimilare la buona notizia che arriva l’ennesima batosta per l’umile Sindaco di Riace: avviso di garanzia da parte della Procura di Locri. Le accuse sono pesanti: truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ai danni dello Stato e dell’Unione Europea, concussione e abuso d’ufficio. Insomma, dopo 3 perquisizioni da parte della Prefettura (che risponde al Ministero degli Interni) e il Ministero degli Interni che blocca i fondi, c’è da chiedersi chi abbia segnalato alla Procura le presunte notizie di reato. La domanda è chiaramente retorica.

Quali sono i reati contestati in particolare?

I reati contestati a Domenico Lucano e al Presidente dell’Associazione Fernando Capone farebbero ridere i polli, usando un eufemismo. In particolare viene contestato l’uso di figure professionali chiave assenti o non competenti per svolgere il ruolo che ricoprono nell’associazione nonché l’uso di personale legato al nucleo familiare di Lucano e Capone. In un paese di poco più di 2000 abitanti, di cui la metà sono stranieri, quante probabilità ci sono che la maggior parte della gente sia imparentata tra loro? E poi, quali competenze dovrebbe avere un socio di un’associazione che mette a disposizione il proprio tempo a vantaggio della collettività? Quanta gente, in Italia, fa lavori per cui non è competente, ma poi – con l’esperienza – impara a svolgerli? Forse questo è un reato?

Quindi non sarebbe scorretto ipotizzare che il procedimento penale oggi iniziato ai danni del Sindaco Lucano sia di natura politica.

Domenico Lucano e Rocco Scotellaro

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Rocco Scotellaro, il Sindaco Poeta di Tricarico (MT)

Ovviamente la Magistratura è obbligata ad attivare l’azione penale in vigenza di notizie di reato da valutare e confermare. L’avviso di garanzia non è una sentenza di condanna, è l’avviso di conclusione delle indagini e dell’avvio di un procedimento penale. Come si risolverà non si sa ancora, ma la vicenda richiama alla mente quella accaduta negli anni Cinquanta al Sindaco di Tricarico (MT) Rocco Scotellaro, il sindaco poeta, comunista e romanticamente anarchico come Mimmo Lucano, amico dei contadini, che con loro lottava contro lo Stato occupando le terre dei latifondisti, per la loro redistribuzione (che sarebbe avvenuta poco dopo, grazie alle pressioni del PC e dei movimenti spontanei locali). Scotellaro era inviso al Governo, tant’è che mandarono più volte le forze dell’ordine per “sedare le rivolte”, ma non ci riuscirono. Alla fine ci riuscirono con i processi. Concussione, truffa e associazione a delinquere furono i reati contestati, praticamente gli stessi contestati a Lucano. Alla fine fu scagionato da ogni accusa, ma nel frattempo passò 45 giorni nel carcere di Matera, da innocente. Morì a soli 30 anni, poco dopo. Qualche maligno disse che s’era ammalato in carcere. Ma chissà.

Non è solo il carcere ad ammalare. Basta un processo, anche finito in assoluzione con formula piena. Un processo ti può cambiare la vita, indebolire, piegare più del manganello. La Giustizia fa il suo (lento) corso parallelamente alla capacità di resistenza dell’imputato, che più è innocente e più sente il peso della bilancia di una dea bendata. Lucano – guardacaso con lo stesso cognome della terra di Scotellaro – non farà la sua fine. Il Modello Riace sopravviverà, perché l’umanità è più forte delle carte bollate.

Chi è Domenico Lucano?

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Quando il 6 ottobre scorso i finanzieri sono arrivati in Comune per sequestrare la documentazione e notificare l’avviso di garanzia a conclusione delle indagini da parte della Procura di Locri, Mimmo Lucano ha dichiarato: “Non ho soldi e non ho proprietà. Ho un conto corrente di 700 euro su cui mi viene versata l’indennità. Non ho cose in banca. Mio padre, insegnante in pensione, ogni mese dà qualcosa a me e mio fratello. Mio figlio lavora a Roma come ingegnere informatico ed a Roma vive anche una mia figlia. L’altra vive a Siena con la madre. Se vogliono fare i controlli non c’è nessun problema. Il fatto è che vedo una sorta di insistenza. Alla relazione della Prefettura avevamo fatto delle controdeduzioni, che non sono state considerate, evidenziando anche che alcuni punti riguardavano più che altro le criticità del sistema di accoglienza italiano cui abbiamo cercato di sopperire proprio con i percorsi lavoro. Quando sono arrivati i finanzieri, li ho fatti entrare e gli ho detto: ‘Queste sono le chiavi di casa, girate quanto volete’. Io sono disponibile a tutto. Non mi sottraggo a nessuna indagine”. 

Non sono certo le parole del traffichino italiano medio, che si arricchisce alle spalle dello Stato e dei poveri disgraziati. Chi conosce personalmente Mimmo sa che lui è restio a qualsiasi proprietà, a qualsiasi ricchezza. Se avesse voluto l’avrebbe fatto, i mezzi per ottenere soldi facilmente non gli sarebbero mancati, come c’insegna la cronaca giudiziaria degli ultimi 50 anni in materia di associazione mafiosa. Ma non saranno queste parole a dimostrare l’assoluta buona fede di Lucano. Vi invito a fare un giro a Riace per vedere con i vostri occhi come un borgo abbandonato possa diventare un gioiello urbanistico e sociale. Basta leggere i numeri vertiginosi dell’aumento della popolazione e la massiccia partecipazione di gente proveniente da tutta la Calabria al Consiglio Comunale aperto che si tenne a Riace il 30 dicembre 2016, il giorno prima dell’ultimo dell’anno, quando la gente – si sa – pensa più al cenone che a dare solidarietà a un Sindaco sotto accusa e pronto a lasciare il suo ruolo. Cosa che non ha poi fatto grazie alla profonda solidarietà della sua gente e all’invito ad andare avanti – udite udite – fatto pure dai consiglieri d’opposizione.

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Il consiglio comunale aperto di Riace del 30 dicembre 2016. Foto di Corriere della Calabria

Ius soli e modello Riace. Qualcosa non torna.

Nello stesso periodo in cui il Governo spinge per l’approvazione dello Ius Soli fa di tutto per affossare il Modello Riace. Qualcosa non torna. Un governo che parla di integrazione e addirittura di cittadinanza per gli stranieri, ma poi cerca di distruggere un modello virtuoso d’integrazione dal basso, non la racconta giusta. Qualche malpensante potrebbe dire che lo Ius Soli è una concessione pre-elettorale, un favore fatto a determinate etnie o, peggio, una forma di schiavismo legalizzata (leggi qui un mio contributo sulla questione). In effetti ci sarebbe da riflettere sull’enorme contraddizione in termini: perché affossare un modello d’integrazione quando – dall’altro lato – si vuol dare persino la cittadinanza agli stranieri in maniera semplificata? Forse, allora, non è l’integrazione la finalità che il governo si pone. Forse è un’altra. Quale? Non lo sappiamo, però sappiamo che il modello di una piccola comunità fa paura, perché funziona, perché non ci sono intrallazzi e i soldi vengono spesi per la collettività, ma soprattutto perché – se esteso in tutta Italia – potrebbe, con i giusti numeri, portare a quell’integrazione sempre discussa ma mai applicata; fa così tanta paura da aver convinto il Ministero a togliere i fondi e a scomodare la Magistratura. Quindi una cosa è certa: l’integrazione tra stranieri e italiani non è priorità del Governo, ma la cittadinanza si.

Partecipa all’evento del 13 ottobre a Riace: “Noi stiamo con Mimmo Lucano”
Per approfondire vedi:
Benvenuti a Riace, dove i migranti hanno risollevato l’economia
Appello: io sto con Riace
Editoriale: Sconcerto e indignazione per le accuse a Domenico Lucano. E tantissima solidarietà
Lo ius soli. Divide et impera.

State lontani da psicologi, psichiatri e psicoterapeuti

sigmund freud psicologo

Prima di leggere quest’articolo, leggi questa revisione.

il neuropsicologo Chris Frith definì lo psicologo Freud come un cantastorie le cui speculazioni sulla mente umana erano in gran parte irrilevanti.

Mai definizione fu più azzeccata. La delicatezza di Frith s’intravede da questa signorile espressione, perché io avrei definito Freud un cocainomane marcio ricco di fuffa e inutili teorie.

Se c’è una disciplina medica incerta, soggettiva e sempre preda di dispute dottrinali mai risolte e scuole di pensiero in perenne contrasto tra loro, questa è la psicologia o psichiatria. Materia dai contorni medici molto labili e fumosi, tant’è che psicologipsicoterapeuti o psichiatri sono figure professionali utili come un temporale a ferragosto che nella storia hanno prodotto solo grandi insuccessi e inutili teorie, a volte fantasiose, molto spesso pericolose e tante volte causa di atroci sofferenze e inutili morti di numerosissimi pazienti. Oggi lo sono ancora, perché spesso preda della visione capitalista di stampo statunitense.

Per esempio, la psichiatria che noi conosciamo, quella degli studiosi francesi e tedeschi, è passata, nel giro di una cinquantina d’anni, dalla ricerca dello strutturalismo all’osservanza acritica del pensiero dominante americano, capeggiato dalle aziende farmaceutiche il cui unico intento è semplicemente di vendere psicofarmaci. Se prima il mercato era ben riconoscibile e limitato (pazienti adulti o anziani, affetti da disturbi psichici di varia natura, codificati e più o meno documentabili), oggi si è esteso e ha inventato nuove patologie di sana pianta, come il ADHD e Disturbo dell’Attenzione, una comunissima e normalissima condizione in cui alcuni bambini si trovano e che prima veniva definita, con termine romantico, avere la testa tra le nuvole,  mentre oggi è diventata una patologia. Con relativo rimedio farmacologico. S’intende.

Ma siccome le case farmaceutiche non si accontentano, sono tante altre le malattie della mente prontamente curabili con farmaci, come l’ansia o la depressione, oppure il disturbo bipolare, che – se il povero paziente capita nelle grinfie di uno spietato psichiatra – viene diagnosticato anche quando in realtà si ha davanti un carattere bizzarro o normalmente soggetto a sbalzi d’umore. Ma l’elenco si può allungare e ricomprende molte stranezze della mente oggi ricondotte nell’alveo della malattia.

La mente umana è un ecosistema complesso, soggetto a una miriade di influenze, tra cui quelle comportamentali, culturali, sociali, familiari; è legata al patrimonio genetico, ma ne può cambiare i connotati, come può essere interpretata in modo molto difforme in base alle tendenze storiche. Detto in altri termini, ciò che oggi può apparire bizzarro – o, peggio, patologico – un tempo era del tutto normale e ciò che oggi può apparire normale, un tempo veniva considerata follia.

I Manicomi, Basaglia e il TSO

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Appunto. Le varie definizioni di follia, pazzia, disturbo psichico e le varie malattie mentali connesse sono soggette alle scuole di pensiero di un dato tempo. Basti pensare che fino al Novecento gli istituti per insani (i genitori dei manicomi) ospitavano persone considerate squilibrate dai familiari o dalle istituzioni, persone eccessivamente briose, maniache, dementi, furiose, nonché soggetti affetti da cretinismo e da idiozia (Insomma, gli attuali Analfabeti funzionali. Quindi praticamente, se fosse ancora così, oggi starebbe chiuso il 47% degli italiani), poi ancora asociali e persino poveri, orfaniprostitute e invertiti sessuali

Ciò per dire che il concetto di malato di mente, di psichiatria e il conseguente obbligo di trattamento in manicomio (con relativa coercizione e perdita di libertà) è soggetto alle teorie mediche del momento, alle decisioni politiche e al sentire comune. Insomma, se fino a pochissimi anni fa si parlava dell’omosessualità come malattia è evidente che è il paradigma ad essere sbagliato e che tutte le teorie psichiatriche e psicologiche si basano spesso su nuvole di fumo.

Poi non parliamo delle terapie che, fino a pochi decenni fa, venivano usate massicciamente: la lobotomia, ossia la recisione delle connessioni della corteccia prefrontale, era massicciamente utilizzata fino agli anni Cinquanta. Per non parlare della sterilizzazione forzosa, anch’essa molto utilizzata in quegli anni. Compreso che si trattava di colossali stronzate, queste terapie vennero sostituite dalla ben più nota terapia dell’elettroshock, usata dapprima nei casi di schizofrenia (e attenzione, la schizofrenia era il jolly della psichiatria. Quando non si sapeva che malattia era, era schizofrenia) e poi sperimentata per variegate patologie mentali. Tra l’altro questo metodo fu inventato dall’italiano Ugo Cerletti nel 1938.

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Una scena del film “Arancia Meccanica”, in cui il regista Kubrick critica le “moderne tecniche” di cura psichiatrica dell’epoca.

Dato che i manicomi non erano soltanto ricoveri per soggetti affetti da patologie mentali documentate e accertate, ma venivano utilizzati come luoghi di contenimento sociale, qualcuno – un giorno – si accorse che non potevano più funzionare e che avevano fallito il loro compito. Un certo Franco Basaglia, dopo numerose battaglie, convinse il Parlamento a chiudere i manicomi con Legge 180/1978 e ad istituire gli attuali TSO (Trattamenti Sanitari Obbligatori) e i relativi Centri di Igiene Mentale.

Venne tolto lo strumento, ma la teoria becera che vive dietro la psichiatria moderna non fu intaccata. E non lo è nemmeno oggi.

I manicomi oggi sono chiusi e spetta alle famiglie il duro compito di convivere con chi ha effettivi disturbi mentali o con i disadattati o con chi, non compreso dalla medicina psichiatrica e dall’inutile terapia psicologica, viene considerato malato. E, anziché subire la coercizione dei manicomi, subisce un trattamento sanitario, obbligatorio. Cioè è la stessa cosa dei manicomi, solo senza mura attorno. I TSO infatti prevedono blandi colloqui con disinteressati psicologi e massicce dosi di psicofarmaci, prescritti così, alla bene e meglio, in una sorta di sperimentazione perenne. Se una terapia non va bene, si cambia, si modificano le dosi, si passa ad una marca diversa di psicofarmaci. Tutto nel nome di una scienza che di scientifico ha poco, o nulla, e che si basa sulla sperimentazione. Sulla pelle del paziente, s’intende.

Differenze tra psicologo, psichiatra e psicoterapeuta

Giusto per capirci meglio, è bene distinguere le tre figure. Premesso che si basano tutte e tre su una disciplina fumosa, va comunque fatta questa distinzione.

Lo Psicologo

Lo Psicologo è un soggetto laureato in Psicologia, con un anno di tirocinio all’interno di strutture pubbliche o private convenzionate con l’Università di provenienza e, superato l’Esame di Stato, è iscritto all’Ordine degli Psicologi. Il compito dello psicologo è prevalentemente consultivo diagnostico. In altre parole non possono prescrivere terapie né psicofarmaci, ma solo effettuare consulenze.
Insomma, detto papale papale, il più delle volte lo psicolgo, dopo aver preso 200 euro per un’ora di chiacchierata e averti consigliato di vederlo una volta a settimana per almeno 10 anni (garantendosi così un reddito certo), non potrà far altro che dispensarti consigli. Se è bravo, indagherà nel tuo inconscio e ti seguirà in un percorso di introspezione e lenta consapevolezza del tuo disturbo (sempre se sei affetto da disturbi…), se è meno bravo, farà solo belle chiacchierate con te. Dietro compenso, s’intende.

Lo Psicoterapeuta

Lo Psicoterapeuta è un soggetto laureato in Psicologia o Medicina e specializzato in psicoterapia con un percorso quadriennale. Se è medico può anche prescrivere farmaci. Lo psicoterapeuta si occupa della cura di disturbi psicopatologici che possono andare da semplici forme di ansia a forme più gravi. La psicoterapia, detto in altri termini, è qualcosina in più rispetto alla consulenza psicologica. E quindi costa un poco di più. Ma ne vale la pena, chiaro.

Lo Psichiatra

Lo Psichiatra è laureato in medicina e ha conseguito una specializzazione in Psichiatria. E’ l’unico soggetto che può trattare i disturbi mentali da un punto di vista medico, analizzando il sistema nervoso e prescrivendo psicofarmaci. In molti casi collabora con lo psicoterapeuta o con lo psicologo. Insomma, tra le tre figure è quello che più si avvicina al concetto di medico, anche se il più delle volte non ha alcuno strumento per comprendere il sistema nervoso (tranne in casi di evidenti traumi o disturbi meccanici del sistema nervoso), ma nella maggioranza dei casi liquiderà il problema con la prescrizione di psicofarmaci.

La fuffa degli psicofarmaci

xanax

A parlare con qualsiasi medico di coscienza si scopre l’acqua calda: gli psicofarmaci non curano la causa, ma solo l’effetto, cioè il sintomo. Soffri di ansia? Lo Xanax ti darà sollievo, ma passato l’effetto torni allo stato di prima. Con l’unica differenza che dovrai assumerlo di nuovo, per togliere l’ennesimo sintomo, e via dicendo, fino all’assuefazione, fino a diventarne drogato. Tutti gli psicofarmaci, nessuno escluso, rispondono a questa ferrea legge: nascondere il sintomo, per un po’ di tempo. E poi la dipendenza diventa un po’ fisica, un po’ psicologica e un po’ indotta. Fisica perché, dopo un po’ di tempo, l’organismo si abitua e difficilmente farà a meno della sostanza (stesso meccanismo che c’è nel tabacco o nell’alcool o in alcune droghe), psicologica perché ci autoconvinciamo che ci serve, che ci aiuta a guarire, quando in realtà è solo il sintomo a scomparire (per poco, però) e indotta perché il medico ci dirà che fa parte della terapia, che serve ed è necessario e quindi tendiamo a fidarci del parere di un esperto, sia esso psicologo, psichiatra o psicoterapeuta.

Ma ricorda, la psichiatria è soggetta alle regole del tempo in cui opera. Il tempo attuale è preda del capitalismo delle grandi case farmaceutiche e gli psicofarmaci sono semplici droghe legalizzate che non curano nulla, anzi. Quindi se ti capita di avere a che fare con uno psicologo distratto o autoreferienziale, psicoterapeuta inutile o psichiatra che in un batter d’occhio ti prescrivono medicine, sfottili con pungente ironia, perché probabilmente, tra i quattro, non sei tu il malato.

Video trash. Come muore la professionalità

direttrice banca san paolo video trash

Il caso della direttrice e degli impiegati della filiale Intesa Sanpaolo di Castiglione delle Stiviere, che hanno pubblicato un video discutibile (ad esser buoni) e dai netti contorni trash è solo l’ennesimo esempio della filosofia che imperversa in rete (e anche fuori), ossia quella della mediocrità e dell’approssimazione.

Cos’è il trash?

Se cerchiamo su qualsiasi dizionario, la definizione di trash è “prodotto di comunicazione di massa televisivo, cinematografico, letterario ecc. che riflette un gusto scadente, volgare, di infima qualità”.

Ecco, appunto, scadente e di infima qualità, oltre che volgare. Sia chiaro, la volgarità nella storia ha sempre attratto. In passato, quando il senso della morale era più elevato e quando la censura oscurava anche un minimo accenno di bacio, la volgarità era relegata nel proibito, nei sogni inconsci e perversi di buona parte della popolazione. Insomma, c’era, solo non era visibile. La morale era una sorta di freno al naturale dilagare del volgare, relegato  – appunto – al vulgus, al popolare, agli strati più umili e dealfabetizzati della società. Poi è ovvio che con la libertà dei costumi, iniziata più o meno negli anni Sessanta, il senso del volgare si è attenuato, entrando pian piano nel costume collettivo e rendendo dapprima tollerabili e poi normali certi atteggiamenti. Oggi un bacio in un film ovviamente non scandalizza nessuno, come non scandalizza nemmeno un nudo o una scena di sesso più o meno velata. Poi i media, accompagnando le richieste dei propri consumatori, hanno alzato sempre di più l’asticella della tolleranza, abituandoci progressivamente al senso del volgare.

Poi è arrivato il web, con la sua filosofia della produzione di contenuti dal basso. Cosa vuoi che ti produca un utente qualunque, sia esso famoso o meno, abituato al volgare e privo di strumenti atti a produrre contenuti di qualità (seppur volgari)? Il trash, ovvio. Perché il trash, va ricordato, non solo è volgare, ma è anche di infima qualità.

I video professionali

Qualsiasi video-maker esperto o qualsiasi professionista di video-marketing ti dirà che esistono determinate regole per produrre video di qualità e che per farlo occorre investire in strumentazioni adeguate (videocamera di buona qualità, luci, fondali, software per la post produzione, ecc.). Ciò comporta che per produrre un video professionale occorre cultura in materia, esperienza e qualche piccolo investimento.

Troppa fatica.

Infatti a che serve rivolgersi a un professionista o spendere soldi e acquisire competenze quando con un semplice smartphone e la rozzezza tipica di un analfabeta funzionale qualunque si possono ottenere risultati di gran lunga più soddisfacenti in termini di visualizzazioni e condivisioni? Ecco che con il dilagare di video trashoni ogni giorno muore la professionalità dei video-maker, ogni giorno muore la possibilità di riprendere quell’asticella e alzare il livello della morale, della professionalità, della qualità.

Saluta Andonio

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Chi non conosce il ragazzino di Saluta Andonio? E’ bastato un video spontaneo, di infima qualità e – quindi – trash per ottenere milioni di visualizzazioni. Oggi si racconta che abbia un giro d’affari rilevante (prende 1.500 euro a serata nelle discoteche) e ha persino realizzato una canzone per l’estate 2017 insieme ad Angelo Jay & Jasper (dal titolo, ovviamente, Saluta Andonio) facendo anche da comparsa nell’ultima clip di Fabio Rovazzi e Gianni Morandi, Volare (manca una “g” nel titolo).

Con questi modelli un qualsiasi utente del web, giovane o adulto, istruito o meno, preferirà farsi il mazzo per acquisire professionalità oppure cercherà in tutti i modi di cadere ancora più in basso per ottenere popolarità? L’ardua sentenza non andrà ai posteri, la domanda è retorica.

Anche in banca…

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A seguito del video virale della filiale di Castiglione, il sindacato dei dipendenti ha pubblicato una nota in cui si dice “Dalle banche ci si aspetta professionalità, competenza, correttezza, sobrietà, ma evidentemente i tempi sono cambiati, e nell’era dello spettacolo e dei social si pensa che un video accattivante o una buona interpretazione possano sopperire ad altre carenze. Auspichiamo che tutti i protagonisti del grande show possano ricevere i meritati riconoscimenti artistici: alla produzione, alla regia e, perché no, all’interpretazione. Ma come Sindacato chiediamo che simili iniziative vengano abbandonate”.

Come dargli torto? Tra l’altro, fossi al posto di un cliente qualunque di quella banca, prenderei i miei soldi e li porterei in un altro Istituto. Perché chi vorrebbe far gestire i propri soldi da gente che tenta di emulare i grandi personaggi del trash e fa self-marketing con approssimazione? Non sarebbe corretto immaginare che ci mettano la stessa approssimazione anche nell’amministrare i soldi altrui? La domanda, in questo caso, non è retorica, ma un po’ si avvicina.

 

Rajoy Franco e l’autonomia Catalana

Rajoy

La questione dell’indipendenza catalana merita una breve riflessione, proprio oggi, giorno in cui in Catalogna si vota per l’indipendenza e la volontà popolare viene goffamente soppressa dal governo centrale di Madrid di Rajoy il quale ha inviato la polizia per bloccare le operazioni di voto, chiudere i seggi e impedire alla gente, con violenza, di esprimere legittimamente la propria opinione sul quesito posto dal governo catalano: vuoi o no l’indipendenza dallo Stato spagnolo?

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Un goffo tentativo mediatico di negare le violenze subite oggi dai catalani. Secondo l’autore, questo non è sangue.

Molto è stato scritto sulla questione, sia dai favorevoli all’indipendenza catalana che da quelli contrari. I favorevoli chiaramente vedono nello strumento democratico del voto la più compiuta espressione della volontà popolare, la quale prevale anche sulla costituzione e sulla volontà del Governo centrale. I contrari dicono che i catalani chiedono l’indipendenza solo per una questione economica, perché sono il territorio più ricco della Spagna e vogliono gestire autonomamente la propria ricchezza, senza dar conto allo Stato Spagnolo.

In realtà entrambe le posizioni sono giuste e sbagliate allo stesso tempo, perché se è vero che la Costituzione spagnola stabilisce che la Spagna è una e indivisibile, pur riconoscendo le autonomie locali, è anche vero che nel suo preambolo e nel testo normativo riconosce ai cittadini spagnoli l’esercizio dei propri diritti inalienabili, incluso il diritto di decidere, con strumenti democratici, le sorti del territorio in cui vivono, nel rispetto, quindi, della volontà popolare e del principio di cooperazione. Inoltre la questione economica è solo la punta dell’iceberg della complessa e antica volontà del popolo catalano di svilupparsi autonomamente dalla Spagna.

Qui non si tratta di schierarsi per l’indipendenza o per la sottomissione del territorio catalano alla monarchia repubblicana spagnola, ma si tratta di ragionare sulla storia e sul buon senso, qualità che – a quanto pare – è mancata e continua a mancare al governo spagnolo nella gestione del problema.

La Catalogna e i motivi dell’indipendenza

Le spinte indipendentiste catalane risalgono addirittura al 1714, anno in cui i Borboni conquistarono Barcellona e misero fine all’autonomia catalana, di origine medievale. I Borboni costruirono il proprio Regno su un paradigma unitario, centralizzando i processi decisionali e normativi e minando dalle fondamenta la lunga tradizione culturale e linguistica catalana. Poi, tra alterne vicende, con il regime franchista (1939-1975) le cose andarono peggio, dato che la Catalogna fu l’unico territorio ad opporsi strenuamente al regime franchista nella guerra civile e, perduta la guerra, ne subì le conseguenze. Il regime vietò persino di parlare la lingua catalana nei luoghi pubblici. Poi con la Costituzione Spagnola del 1978, si riconobbe una sorta di autonomia politica ed economica al territorio catalano, ma era ben poca cosa rispetto a quanto richiesto dal popolo catalano. Infatti, dopo lunghe trattative, solo nel 2006 si arrivò alla ratifica dell’Estatut de Catalogna, grazie al quale la Catalogna avrebbe ottenuto l’autonomia richiesta da sempre. Però nel 2010 il Tribunal Supremo di Spagna (il corrispondente della nostra Corte Costituzionale) riscrisse addirittura l’Estatut, ormai ratificato dal Parlamento, e limitò fortemente le autonomie richieste dai catalani. Poi nel 2011 venne eletto l’attuale Premier Mariano Rajoy, il quale, sin da subito, ha messo in atto la sua politica estremamente centralista, usando persino il Tribunal Supremo per limitare le leggi pro-autonomia dei territori spagnoli. Ecco perché il popolo catalano, giustamente, non si fida della propria Corte Costituzionale.

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Barcellona. Lunghe file ai seggi nonostante la repressione da parte della polizia spagnola. Foto di F. Pitrola

Indipendenza e autonomia

Se è vero che la Costituzione impone che la Spagna sia una e indivisibile, è anche vero che finora i Catalani non hanno mai chiesto indipendenza totale, ma solo maggiore autonomia. Il referendum attuale va visto sia come una provocazione politica sia come l’estremo tentativo di ottenere ciò che da secoli ormai la Catalogna chiede e non ha mai ottenuto: autonomia. Autonomia e indipendenza sono due concetti ben distinti. E’ indipendente chi ha un proprio sistema giuridico e non è vincolato dalla volontà di altri. E’ invece autonomo chi, all’interno di un sistema giuridico, si governa con leggi proprie ma dipende, più o meno fortemente, dalla volontà altrui.

La Catalogna ha sempre chiesto autonomia, non indipendenza. L’indipendenza, quindi, va vista – oggi – come l’extrema ratio di un popolo che le ha provate tutte e non ha avuto ascolto. Rajoy si è mostrato, in questi anni, un vero e proprio franchista e non si è mai aperto al dialogo con le istituzioni catalane, quindi il referendum, da questo punto di vista, dev’essere visto come uno strumento popolare giusto e legittimo, seppur stricto sensu illegale.

Del resto esistono, negli ordinamenti moderni, molte forme di federalismo, più o meno ampie, all’interno dello stesso Stato. Senza dover violare la Costituzione, attraverso il dialogo e la mediazione politica, tutte le parti in campo avrebbero ottenuto il risultato sperato: da una parte maggior autonomia e dall’altra un territorio autonomo e ancora inserito all’interno dello Stato Spagnolo. Invece oggi si rischia, quando il referendum terminerà con risultati bulgari, di arrivare a quella che il governo catalano ha definito Ley de desconexión catalana, ossia quella legge regionale che permette alla Catalogna di disconnettersi gradualmente dal territorio spagnolo e di costituire uno Stato indipendente e autonomo.

La situazione è stata affrontata male da Rajoy

Insomma, se è vero che Barcellona ha provocato è anche vero che Madrid ha risposto con violenza e non col dialogo. In queste ultime settimane abbiamo visto l’anima di Franco risorgere, con una Corte Costituzionale che dichiara illegittimo un referendum, siti web oscurati, politici e funzionari catalani arrestati e oggi con la polizia inviata in forze in Catalogna a sparare sulla gente, a bloccare i seggi e ad impedire il regolare svolgimento del referendum. I referendum, anche se illegittimi e illegali, vanno sconfessati sul piano politico e non con forza e violenza ai danni di donne, bambini, anziani.

Oggi Franco è risorto e ha questa faccia.

Rajoy