Mannaggia agli ambulanti del Salento!

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Ogni giorno, passeggiando per le vie del mio paesello, per fare compere e commissioni, lo vedo sempre lì, nello stesso angolo, col suo carretto, a vendere mercanzia varia: lampadari, orologi, oggetti tecnologici degli anni ’80 (ma che ancora, con ostinazione, continua a vendere), accendini, bracciali e altri oggetti che ormai non riconosco più, persi tra la polvere e le plastiche che li avvolgono ormai ingiallite dal tempo. Lui è ancora lì, nel freddo gelido dell’inverno o sotto al sole caldo (mai come quest’anno) di agosto.

E’ un marocchino. Anzi, è IL marocchino.

Quando ero piccolo, tutti i venditori ambulanti, siano stati essi senegalesi, tunisini, turchi o di chissà di quale parte del mondo, dalle mie parti venivano chiamati i marocchini. Il termine “marocchino”, quindi, non indicava la provenienza geografica, ma la professione: eri un ambulante? Eri, quindi, un marocchino. Ma quello del mio paese è per davvero un marocchino, quindi ne deduco che siano stati i primi a venire nel Salento e a svolgere la nobile professione dell’ambulante. Poi, col tempo, altra gente, di altre etnie e provenienze, hanno arricchito i nostri paesi e le nostre spiagge svolgendo lo stesso lavoro, ma per noi erano sempre li marucchini.

Eccolo lì. Lo vedo mentre, con la macchina e sotto l’afa micidiale di un caldo anomalo (che mi fa sudare peggio che in Marocco), percorro quella stessa via per andare prima alle poste e poi al forno, a prendere un po’ di pane. E’ sempre lì, con il suo carretto, fermo all’ombra a contemplare il nulla e a salutare con impercettibili segni del capo gli automobilisti che strombazzano con il clacson mentre gli passano accanto. Tanto tutti lo conoscono e lui conosce tutti.

Mi sono sempre chiesto a cosa pensasse durante le lunghe ore che passa seduto sul ciglio di quella strada. A me sembra, dallo sguardo e da quel sorriso tenero e sornione, che contemplasse l’infinito svolgersi di una vita ciclica e finita, fatta di abitudini e facce note, di auto che cambiano e volti che invecchiano. Del resto lui è sempre lì, in quell’angolo di strada, da ché ne ricordi.

E poi l’estate, al mare. Anche lì, passeggiando sul lungomare o sdraiati sulla spiaggia a prendere il sole, trovi li marucchini. Non so se tra di loro ci fosse anche lui, ma so che – sin da piccolo – per me rappresentavano quel complesso folklorico che contribuiva ad arricchire la spiaggia e le lunghe giornate di mare. Li vedevi passare con quei carretti, pieni di vestiti o di salvagenti, canotti, braccioli, lettini, carichi come muli, fermarsi ogni tanto per prendere respiro e poi continuare la lunga passeggiata tra i bagnanti, per poi fermarsi quando qualcuno – con un cenno della mano o un fischio – attirava la loro attenzione perché interessati ad acquistare (o forse solo ad informarsi) un materassino, un paio di braccioli o una paperella per i propri figli.

Gli ambulanti senegalesi

Poi, quasi senza accorgermene, intorno agli anni ’90, sono arrivati i senegalesi, con i sorrisi stampati in faccia e gli occhiali da sole, bracciali, treccine (da fare lì, sul momento, soprattutto ad opera di corpulente donne senegalesi) o altra merce varia. Ogni tanto li vedevi sbucare e fermarsi a chiacchierare. In quel periodo della mia prima adolescenza, frequentavamo sempre la stessa spiaggia di Porto Cesareo, sul confine tra gli scogli e la sabbia. Ai miei piacevano gli scogli, mentre io propendevo più per la sabbia, anche se mi divertivo un mondo a dar la caccia ai granchi e a saltare da uno scoglio all’altro per dimostrare ai miei le mie doti funamboliche. Però, in fondo, preferivo la comodità della sabbia e le belle signorine che la popolavano. Fatto sta che in quel periodo passava da lì ogni giorno un ragazzo senegalese, fisico atletico, alto come un giocatore di basket, nero come la pece e simpaticissimo, che aveva preso l’abitudine di fermarsi a chiacchierare con noi. Non per venderci qualcosa, ma così, giusto per parlare. Mia madre si prodigava ad offrirgli qualcosa di fresco da bere e lui si vedeva che era commosso da quest’affetto, tanto che, dopo un po’ di giorni, iniziò a raccontarci la sua vita, le sue tribolazioni e il motivo che l’aveva spinto ad abbandonare il suo paese per venire a fare l’ambulante in Italia. L’appuntamento con lui era ormai fisso e, solo ogni tanto compravamo qualche braccialetto. Non per carità, nemmeno perché obbligati o tanto meno perché indotti. Semplicemente per tenerezza e simpatia. Poi, si sa, l’estate finisce, ti fai grande, cambi spiaggia, esci con gli amici e…beh, di quel senegalese ho perso le tracce e non so che fine abbia fatto.

Gli ambulanti e la tecnologia

Poi vabbè, appunto, cambi spiaggia, vai al mare con gli amici e, tra un bagno e una partita a tressette, ti trovi l’immancabile senegalese che vende varia mercanzia sulla spiaggia. Siamo negli anni 2000 e questa volta la merce è più cool: radioline bluetooth con lettori di schede SD a 7,00 € (che ho pure comprato qualche anno fa), laser a led, occhiali da sole a specchio (brrr…) e persino tatuaggi temporanei o massaggi. Gli ambulanti sono aumentati e ognuno, pur di vendere, usa tecniche diverse e fantasiose, come quel senegalese che, sulla spiaggia più affollata di Porto Cesareo, gridava caccia li sordi ca li teni, con un dialetto perfetto e un’intonazione che ti faceva sorridere e ti faceva allibire davanti a tecniche di marketing così semplici ed efficaci.

Il tutto, va sottolineato, nel rispetto delle persone. Cioè, mai nessun ambulante ha cacato il cazzo alla gente che stazionava sulla spiaggia. Sia chiaro.

Poi si sa come sono andate le cose. Oggi ci troviamo ad assistere ad un’escalation di presenze di extracomunitari che, chiaramente, sono invadenti, ma sono spesso oggetto di forme di schiavismo da parte di negrieri (è il caso di dirlo) tutti nostrani, che si accaparrano sti poveri cristi, appena sbarcati in Italia, gli mettono in mano un po’ di merce e gli dicono: andate e vendete e se a fine serata non mi portate almeno X euro, col cazzo che mangiate. E appena fate XX euro, vi restituisco il passaporto. Questi benefattori, che danno un lavoro ai poveri ambulanti extracomunitari, sono, ovviamente, nostri compaesani, vicini di casa, ferventi cattolici, grandi frequentatori di chiese o circoli di partito, professionisti stimati e amici di tutti. Gli extracomunitari, senegalesi, tunisini o marocchini che dir si voglia, invece sono poveri cristi che non conoscono nessuno e nessuno s’incula, che si fanno i km sulle spiagge, spesso carichi come muli, si beccano le bestemmie, le parolacce o i “no grazie” (quando gli va bene) e oggi pure le beffe razziste.

Scusate, ma che è successo?

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Eh, ne sono successe tante. A Torre Chianca (marina leccese) che, detto tra di noi, vi invito ad evitare per svariati motivi, uno tra i tanti ambulanti, un ragazzino di 17 anni ha quasi perso la vita, tra l’indifferenza generale di una marina stracolma di gente, il tutto a causa dell’arroganza di un paio di tizi che non mi esimo a definire due coglioni. Qui i fatti. Se non vi va di leggerli, è successo che un ambulante di appena 17 anni fu aggredito, nel 2015, solo perché un ragazzo, sedicente cliente, rubò un paio di occhiali dall’ambulante e, dopo le proteste di costui, accorsero gli adulti che, invece di deprecare l’ignobile gesto, di tutto punto presero l’ambulante e tentarono di affogarlo in acqua. Il tutto sotto gli occhi di tanti bagnanti, rimasti fermi ad osservare la simpatica scena. Qualcuno avvisò la polizia e, quando arrivarono i poliziotti, vennero accerchiati e gli venne impedito di salvare il povero ragazzo.

Mentre l’ultima (in ordine di tempo) è successa in quella spiaggia che viene definita Le Maldive del Salento (paesaggisticamente carina, non bella, che vi invito ad evitare per quello che appresso dirò), dove un accorto gestore di un lido ha fatto di tutto per eliminare gli ambulanti che – a detta sua – rovinano la bellezza del paesaggio. Nel suo accorato post, il tizio (persona è termine troppo civile da essergli attribuito) spiega che gli ambulanti “da anni rendono impossibile il riposo sulla nostra spiaggia e il godimento del panorama”, e infine – probo e onesto – aggiunge che “non meno grave (…) è l’aspetto fiscale tanto pesante per …. noi italiani !”. Ora, a parte che al tizio occorrono urgentemente lezioni di grammatica e di punteggiatura, va evidenziato che il proverbio salentino “lu ‘mboe chiama curnutu lu ciucciu” (il bue chiama cornuto l’asino) è da attribuirsi a gente come lui che – con stragrande probabilità – fiscalmente ha più scheletri nell’armadio di tanti poveri ambulanti. Ma non solo. Come una buona capra (o webete, per dirlo alla Mentana), non sta mica ad interrogarsi sul perché, chi o come ha messo lì quei disgraziati. No, chiama i carabinieri di Salve, di Tricase, di Gagliano del Capo, insieme al Comune di Salve (e giacché perché non i Marò?) per fare cosa? Rimuovere un povero Marocchino e sequestragli la merce. E, come un buon analfabeta funzionale (ma forte della sua posizione di egemonia economica sul territorio delle Maldive, del Salento, però) si fregia della sua operazione di pulizia razziale sui parchi lidi del basso Salento, così finalmente i suoi avventori potranno dormire sonni sereni sotto al solleone agostano, privi di venditori abusivi ma adagiati su lettini posizionati da autoctoni salentini magari pagati a voucher e serviti da baristi con contratti a termine, di cui, chissà, un tanto in regola e un tanto in nero, che magari ti vendono un caffè in ghiaccio a 2 euro, perché sai, nei lidi vale tanto e il personale costa assai…

E mentre il gestore del lido bestemmia contro la casta, impotente dinanzi all’ineluttabilità del destino, si scaglia contro l’unica categoria con cui può prendersela: uno più povero di lui. Perché in Italia – anche nell’Italia del Sud – povera tra i poveri, figlia della società contadina e fiera allieva del disagio e della cultura della fratellanza (o del cumpà, stamu sulla stessa barca), c’è chi ripete il clichet banale di farsi lupo con le pecore e pecora tra i lupi. Insomma, nulla di nuovo sotto al sole. Di nuovo, però, c’è che nei lidi gestiti da lupi non ci metto piede.