Simboli frivoli che non ho amato mai.

Così iniziava Francesco Guccini una delle canzoni più note, Quattro Stracci. Ebbene, dopo anni con l’intenzione di aprire un blog per esprimere i miei pensieri e lanciarli nell’indefinita e ambigua rete, eccomi qua a farlo, alla “veneranda” età di 35 anni, mosso da vaghe intenzioni di scrivere di tanto, ma forse di niente.

Ed eccomi qua con il primo articolo del blog.

Oddio, anni fa avevo un blog su una nota piattaforma per studenti, oggi chiuso e quindi i miei pensieri da studente giovincello sono finiti nell’oscuro oblio di internet. Quando ho scoperto che il blog è stato chiuso, dopo tanto tempo che non lo frequentavo, un senso di vuoto mi ha pervaso, ed è riecheggiato nella mia mente quell’avvertimento fatto nel 2015 da Vint Cerf, vicepresidente di Google, che ci esortava a conservare i nostri ricordi più belli su carta, perché davanti a noi si configurerà un deserto digitale in quanto non è certo che tutto ciò che lasciamo su internet poi sarà più accessibile ai nostri posteri (o forse a noi stessi tra qualche decennio). E infatti chi ci dice che tutti i ricordi che accumuliamo su internet (e sui social in particolare) dopo saranno ancora accessibili?

A rigor di logica, dato che i principali social (Facebook, Twitter, Instagram, ecc.) non sono altro che aziende private, peraltro gestite in modo autoritario, chi ci assicura che da un giorno all’altro non chiuderanno i nostri profili e finiranno nel vuoto anni e anni di foto, status, commenti, relazioni? E’ decisamente improbabile che ciò avvenga, certo, ma tecnicamente potrebbe avvenire, perché tutto ciò che noi siamo oggi lo affidiamo a realtà private, senza nessuna garanzia di stampo “democratico” e senza alcun controllo. Anche io sono consapevole che tutto ciò che scrivo in questo momento potrebbe essere “censurato” dal mio fornitore di servizi (wordpress) senza alcun dibattimento, senza possibilità di “difesa”, insomma, senza alcuna garanzia.

Ci penso spesso a questo paradosso: viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che scriviamo, leggiamo, postiamo, fotografiamo…insomma, viviamo, è affidata ad una realtà eterea e inconsistente: internet. Una realtà formata da tante realtà private, ognuna con le sue regole, ma tutte accomunate da diversi minimi comun denominatori: sono società private, sono potenti e possiedono e gestiscono i nostri dati. Però per finalità commerciali, s’intende.

Se qualcuno di voi ha mai sentito parlare di cookie policy, di cookie di profilazione e di società dell’informazione, sa di cosa sto parlando. Noi, nel momento in cui stiamo lasciando un pezzo di vita su internet, stiamo – più o meno consapevolmente – dando informazioni preziose ai nostri fornitori di servizi, stiamo – in altre parole – contribuendo a creare un profilo di noi stessi al fine di farci offrire servizi e prodotti “cuciti” sulla nostra personalità o quantomeno sul nostro profilo, ossia sulla categoria in cui siamo stati inseriti. Insomma, se su google cerchi “come fare una bella foto”, molto probabilmente la successiva volta che entrerai su Facebook o su qualsiasi altro sito (che adotta i cookie di profilazione), sarai sommerso da pubblicità di macchinette fotografiche o corsi di fotografia.

Lo stesso discorso vale se fai una conversazione su WhatsApp. Anche in questo caso ogni parola scritta sulla celebre App viene catalogata e contribuisce a creare un profilo, sempre commerciale, s’intende. Del resto se Zuckerberg ha speso 19 miliardi per comprare l’App WhatsApp, un motivo ci sarà, no?

Il problema, però, si pone quando leggi che i vertici di Google e Facebook fanno più riunioni alla Casa Bianca del direttore della CIA. La cosa avveniva in epoca “Obama”, ora con Trump non si capisce ancora bene qual è la politica sul controllo da parte degli Stati Uniti, ma questa è un’altra storia e prima o poi capiremo cosa passa per la testa di un Presidente tanto strampalato quanto pericoloso e vuoto. Resta però il fatto che Facebook e Google contano (o contavano, in epoca “Obama”) più di qualsiasi altra intelligence mondiale, non fosse altro perché detengono il controllo dei profili di mezza popolazione mondiale. E non è un caso che i “rumors” sostengono che Zuckerberg potrebbe presto candidarsi alla presidenza degli USA. Del resto il suo retaggio culturale, il patrimonio economico e il patrimonio d’informazioni lasciano presupporre che non potrebbe essere una spaparazzata, ma una notizia non priva di fondamento. Certo l’unica cosa che potrebbe “remare contro” questa tesi è che gli uomini più potenti restano sempre dietro le quinte e pilotano le scelte altrui, scegliendo sempre un pupazzo da mettere sullo scranno del potere. Sarà per questo che ad oggi, con Trump, le cose vanno in peggio, sia per il suo egocentrismo cosmico, sia perché sta destabilizzando i piani di chi finora ha detenuto il controllo del genere umano internettamente inserito.

Ma vedremo come si evolverà la storia.

Fatto sta che il social più importante del mondo sta viaggiando sui binari del controllo sociale e si diverte, molto spesso, a nostra insaputa e soprattutto ogni volta che capita un fatto di portata mondiale, a predisporre esperimenti sociali in modo da capire quanto la gente sia influenzabile e controllabile. Se hai messo la bandiera francese durante i tremendi attacchi terroristici oppure hai messo la bandiera arcobaleno per difendere i diritti dei gay o hai capito come funziona il sistema dei post più visibili sulla tua bacheca, allora sai di cosa sto parlando.

Comunque so anche che sei consapevole che se posti i tuoi status su Facebook e sugli altri social, sai benissimo che ti stanno controllando e forse pure tu – come me – un poco ti prendi gioco di loro e non riveli mai la tua profonda essenza e la tua personalità. Bene. Del resto se sei qua e hai letto fino ad ora i miei pensieri vuol dire che non sei una persona così banale. Perdonami il narcisismo, ma pure io, quando leggo un post di un blog, arrivo in fondo solo se veramente interessato e se condivido le tesi di chi scrive, quindi lasciami complimentarmi con te.

Cosa c’entra tutto sto popò di discorso con il titolo del primo articolo? Niente. Solo che volevo condividere con te quattro stracci di pensieri, manuali contro le frustrazioni, con la sigaretta tra le dita e una penna virtuale che compone frasi senza senso.

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